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Sogno

Sogno
Ora che le foglie dell’albero della vita cominciano ad ingiallire, un ricordo dolceamaro mi spinge a volgere lo sguardo al tempo in cui giocavo e correvo in prossimità dei palmenti, fermandomi a guardare i pigiatori che pestavano, dentro i tini di legno e di pietra, l’uva onesta disonesta o puttanella con i piedi scalzi; al tempo in cui riempivo le narici e i polmoni dell’odore asprigno dei grappoli caduti per terra e calpestati dai carrettieri e dai passanti; al tempo in cui sfidavo con infantile temerarietà i pungiglioni delle api, che scendevano come aeroplani in picchiata sulle ceste e sui corbelli lungo le strade della vendemmia.

Fu proprio in uno di quei giorni che io, Ignazio, ancora bambino, vidi per la prima volta raffigurata Ofelia, personaggio femminile della tragedia “Amleto” di William Shakespeare, in una tela di autore ignoto, che il padrino di Cresima aveva portato dalla Francia e che rappresentava la tragica e romantica morte della nobile fanciulla danese.
Quante volte guardai Ofelia in quel quadro! Quando il mio padrino mi portava a pranzo nella sua casa giardino stile Douce France; quando terminavo di fare i compiti nel piccolo tavolo adorno di un bruno tappeto d’Oriente, che dava un tono di grazia decorosa garbata e fine alla stanzetta che faceva da studio da salotto da ingresso; quando mi fermavo a cenare nel suo giardino alle luci delle stelle o del lume a petrolio.
Quante volte, sognai Ofelia casta e pura caduta e annegata nelle acque del fiume, dove il suo corpo riposa e leggero fluttua, accarezzato dalle ninfee!
Quante volte, in un libro di racconti sui paesi nordici di proprietà del mio padrino, lessi: “Ofelia è il nome portato dal vento, la goccia d’acqua che scende dal vetro della finestra, il rumore dei passi della strada, il fruscio della veste che passa vicino. Ofelia è l’amore d’infanzia, il battito del cuore, la lacrima sulla guancia del fanciullo che sogna il fiore mai visto prima. Ofelia è l’anfratto oscuro della memoria, la nebulosa fluttuante sopra le acque, il velo che cela il pallido riflesso del volto che si svela e non si svela”.
E quante altre volte, il mio padrino, tra un sorriso ironico e una battuta pungente, il cui significato compresi dopo, mi disse che certamente, un giorno, avrei incontrato un’Ofelia e che la sua bellezza mi avrebbe scioccato!

Per questo incontro io vissi e dolce fu per me l’attesa. Trascorsero giorni mesi anni. Io mi lasciai alle spalle la Scuola Elementare, la Scuola Media, l’Istituto Superiore e le parole del mio padrino.
Fu in un pomeriggio che, tornando a casa dall’Università contento per il voto preso nell’esame di Storia Medievale, sentii pronunciare il nome di Ofelia.
Dopo un lungo istante d’incredula meraviglia, mi girai per guardare la fanciulla tanto sognata e desiderata per anni. I libri mi caddero dalle mani, la vista mi si annebbiò, credetti di svenire, la mia mente smarrendosi inesorabilmente. Davanti a me stava una creatura di rara bruttezza, più vicina ad un ranocchio che ad un essere umano, affiancata da una donna bassa di statura e tozza di corpo, che derideva, con malcelato sarcasmo, tutti gli uomini che si erano avvicinati ad Ofelia per conoscerla, attratti dalla bellezza del nome, ma scappati per le sue sgraziate fattezze e per il roco e stridulo suono della voce.
Arrivai a casa, mi buttai sul letto e pensai allo scherzo di un diavoletto burlone, che si era preso gioco della mia vista e del mio udito, mettendomi davanti un essere che niente aveva a che fare con la vergine di Danimarca che, per tante notti, aveva costituito il soggetto del mio fantasticare e l’oggetto dei miei sogni più arditi.
Mi chiusi in me stesso, mi discostai dalla vita di ogni giorno. Con la paura, soprattutto, d’incontrare per la seconda volta quel corpo che la natura aveva così tanto deturpato. Per sfatare quelle sembianze deformi con pennelli e colori iniziai a dipingere volti, che assomigliassero sempre più all’Ofelia vista nella tela del mio padrino di Cresima e all’Ofelia dei miei sogni. Ma per quanti disegni e dipinti facessi, io non riuscii, però, nel mio intento. La donna ranocchio incontrata un giorno per strada non solo continuò ad essere sempre presente nei miei pensieri, ma continuò ad esserlo anche nei miei disegni e nei miei dipinti.

La mia barba e i miei capelli si facevano grigi e poi bianchi, il mio corpo invecchiava e s’indeboliva ed io cominciai ad ironizzare amaramente del mio destino non benevolo.
Trovai la forza di non disegnare, né dipingere più quel volto grottesco di donna che, in un giorno ormai lontano, avevo incontrato per strada e aveva sconvolto la mia esistenza.
Incominciai a viaggiare da un paese all’altro e in uno di questi viaggi ebbi la fortuna di vendere tutti i miei disegni e i miei dipinti a un mercante di opere d’arte conosciuto alla Fiera di Francoforte, più per liberarmi dall’ingombro di fogli e di tele diventati ormai l’ossessione della mia vita, che per ricavarne un utile in denaro.

I miei giorni volgevano alla fine quando venni a sapere che i miei disegni e i miei dipinti erano molto apprezzati e considerati capolavori universali.
Era stato il caso a volere che fossi proprio io ad incontrare Ofelia per strada, in quel lontano giorno della mia giovinezza e che, con la sofferenza di tanti anni, riscattassi e volgessi la sua bruttezza in opera d’arte duratura?

Mentre racconto i miei accadimenti lontani ai pochi parenti che vengono a farmi visita e a questo mio nipote che continua a scrivere pagine della mia vita, penso davvero che , nel destino di ognuno di noi, ci sia qualcosa d’imperscrutabile, che si frappone tra il nostro presente e il nostro futuro e condiziona pesantemente l’ulteriore corso della nostra esistenza.
Per me fu Ofelia, anzi furono tre Ofelia: quella della tela del mio padrino, quella sognata in tante ore del giorno e della notte, quella incontrata per strada.
Ma ora che una luce sempre più intensa comincia a chiamarmi dall’Alto ed io sento di essere più anima che corpo, le tre Ofelia diventano una sola Ofelia, sintesi ultima di lontanissime sovrapposte e sfumate memorie di un sogno fattosi nel tempo dolce amaro, la cui lunga dolente esperienza, in questi ultimi istanti della mia tarda età, si placa nel ricordo nostalgico che precede il mio trapasso.

Antonio Cammarana

Una sera

una sera del passato AcateLa sera è scesa all’improvviso, portando via dalla piazza i crocchi di contadini, che si sono fatti vivi in cerca di lavoro nel latifondo. E il calzolaio, che tiene pure scarpe per chi ne può comprare, spegne la lampada del negozio; e il giornalaio, che, all’inizio di ottobre, s’improvvisa libraio per gli alunni delle Elementari e delle Medie, chiude le imposte.
Nel Corso vedo soltanto coloro che dal vizio del fumo sono spinti verso la rivendita di “Sali e tabacchi”, che, a quest’ora, tiene aperta soltanto mezza porta. Poi non scorgo più nessuno; anche i cani – che hanno sostato a lungo davanti alla carnezzeria nella speranza di potere addentare qualche osso – a causa dell’insoddisfatta fame, gagnolando, vanno appresso all’odore di carni varie, che emana dalla pelle e dal pastrano del macellaio, che lascia la bottega e ritorna lemme lemme a casa.

Ora che il buio si fa più fitto, mia madre viene a chiudere le finestre, accende le lampade, sparisce in cucina. Ciò facendo, mia madre non sa di che cosa mi priva. Fin quando io osservo il buio da dietro i vetri, esso non mi fa paura. Non vedendolo più, vivo nel timore che esso mi soffochi, stritolandomi assieme alla mia casa.

Pure oggi ho atteso l’arrivo di questo messaggero della notte con ansia crescente, da quando ho finito di fare i compiti. D’inverno esso giunge di colpo e porta con sé la tenebra, che copre di nero persone e cose. E ora che mia madre ha sprangato le imposte, io vado a sedere vicino a uno spigolo del tavolo appoggiato al muro della sala da pranzo: così almeno creo l’illusione di proteggermi dall’urto della tenebra, che di già circonda la mia casa.

E aspetto.

Attesa vana non è la mia, né lunga: silenziosa mi raggiunge la paura, in punta di piedi insinuandosi nel mio corpo fino a farlo fremere come quello di una persona, che soffre a causa del freddo intenso. Dalla cucina, intanto, vengono delle voci, che mi fanno riprendere il contatto con la realtà. E’ arrivato mio padre, dopo una giornata trascorsa in campagna: possediamo un appezzamento di terra non molto distante dal paese e lui, dall’alba al tramonto del sole, segue il lavoro di alcuni contadini presi a giornata. Io vorrei correre dal mio vecchio, salutarlo, abbracciarlo. Sentire il suono della sua voce mi libererebbe da questa stretta, che mi farà uscire di senno. E, però, non posso farlo, perché mio padre mi permette di avvicinarmi a lui soltanto all’ora di cena.

Fuori, frattanto, il buio si è fatto più fitto e la tenebra starà serrando in una morsa la mia casa. Il mio cuore batte forte. La mia paura cresce ancora, s’ingigantisce, diventa sgomento, angoscioso spasmo del corpo e della mente, animo che si decompone.

E’ terrore panico il mio?

Mi sento avviluppato come in una spirale, che mi trascina verso l’orlo di un abisso! Mi faccio piccolo piccolo, premo il petto contro il tavolo, solo ora mi accorgo che sopra di esso c’è il tappeto di velluto rosso brillante che prediligo. Questo colore così vivace mi sarà di qualche aiuto?

C’è tanta nebbia nella mia testa! Tanta nebbia, che ora s’infittisce, ora si dissolve, ora s’addensa, ora si dirada, Che cosa può essermi successo? Chi mi ha derubato del pensiero, della memoria, dei sogni? Chi ha privato la mia vita di ogni bellezza futura? Ora che non riesco a muovermi come gli altri, un uomo e una donna molto avanti negli anni mi portano in giro per la casa sopra una sedia a rotelle e, quando fuori si fa buio, mi sistemano dietro la finestra, che, da tanto tempo, ha le imposte aperte giorno e notte. Dietro i vetri, io vedo l’alba spuntare e la sera scendere, la luce del giorno e l’oscurità della notte e m’addormento con dolcezza, quando il sonno vince le mie ore di veglia. Non so dire chi siano la donna e l’uomo che si occupano di me, anche se mi sembra di vedere i loro volti da sempre: volti familiari, dove scolpiti sono un dolore terribile e un infinito amore.

Antonio Cammarana
La morsa del nulla: linea ultima
dell’infamie trompeuse de la vie.