“Poesia”, memoria a due voci

poesia
Prima voce

L’albero di gelsi bianchi, il tavolo di marmo grigio, il cielo azzurro, il sole giallo, la suora vestita di blu, che parla ai bambini di piante di animali di uomini di Dio, il cane dal muso lungo. Ignazio guarda e ascolta.

La suora si allontana, i bambini si sfrenano, Ignazio sale sull’albero di gelsi, il cielo è ancora azzurro, giallo è il sole, saltella il cane.

Grida e strepita la suora contro Ignazio, i bambini impauriti ritornano al tavolo di marmo, il sole si fa pallido, opaco diventa il cielo, si agita il cane.

La suora è con la verga in mano, i bambini tremano, il sole è livido, fosco è il cielo, ringhia il cane.

Le mani di Ignazio sopra il tavolo. Un colpo di verga, un grido; un colpo di verga, un grido; un colpo di verga, un grido; la suora si allontana, Ignazio piange, i bambini scappano, il sole muore, s’incupisce il cielo, abbaia il cane.
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Bussano alla porta, la madre apre, minuto e rubizzo il calzolaio porge le scarpe, riceve due lire e un bicchiere di vino, si allontana sotto la pioggia.
Ignazio sorride.
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La nonna copre il nipote con la mantella, dono e ricordo del passaggio americano in paese, porta il nipote dalla zia: c’è buon odore di minestra nella casa e apparecchiata è la tavola. Ignazio si rallegra.
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Zio siede all’ombra della dispensa, lamelle di canne intreccia a verghe di ulivo, canta una canzone del tempo di guerra, il panaro nasce dalle sue abili mani.
Ignazio osserva.
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La lunga tromba del banditore, l’uomo dritto su gambe di legno, le giostre, i balocchi, il tiro a segno, occhi di bambini vanamente desiosi guardano l’angolo dei giocattoli rotti.
Ignazio è triste.
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Le strade di polvere, gli asini i muli i cavalli fermi davanti al portone del palmento con i sacchi di mandorle di carrube di olive. La paura della fame si allontana.
Ignazio gioisce.
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Le api i grilli i calabroni gli uccelli, i carri sotto i lunghi rami a ombrello dei carrubi, i contadini nei solchi dietro gli aratri. Un cavallo cade nella terra riarsa dal sole.
Ignazio si avvicina all’animale morente.
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Rumore di campanaccio al collo della mucca bianca seguita dal vitellino nero, che la mammella rosa della madre contende alla mano del vaccaro, mentre si appresta a mungerla.
Il buon latte caldo bevono Ignazio e i bambini del quartiere del Collegio di Santa Maria. Intanto la suora batte la campana che annuncia l’arrivo delle orazioni della sera.
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Le donne piangono, gli uomini ricordano il nonno morto in grazia di Dio sul letto grande, dopo il lamento notturno del gufo. I ceri i lumini le candele e un lume di creta ad olio fanno luce nella stanza buia. Ignazio è triste, ma non piange: sa che l’anima del nonno è andata ad abitare nella stella, che brilla di più nel cielo.

Seconda voce

Io vidi l’albero di gelsi bianchi; la suora che puniva Ignazio con la verga; i bambini tremanti che scappavano; il calzolaio che porgeva le scarpe; la nonna con Ignazio sotto la mantella; lo zio che faceva il panaro; i venditori di pupi, di carrettini, di cavallucci; gli asini, i muli, i cavalli, i sacchi ripieni di mandorle, di carrube, di olive; le api e i grilli, i calabroni e gli uccelli; i contadini, gli aratri, il cavallo morente; il nonno sul letto grande.
Tutte queste cose io vidi. E ancora ragazzi, un giorno pensierosi e tristi, un giorno sorridenti e allegri; seri, spesso, come vecchi di tant’anni; felici, a volte, come bambini di pochi mesi.
Tutte queste cose io ricordo di un tempo: si parlava si viveva si giocava con le trottole, a trinca, a nascondino nelle strade di polvere; si cercavano scarafaggi e suffizzi dentro le asciutte tinozze dei diroccati palmenti; si prendevano con le dita della mano neri e gialli calabroni per farne, con lunghi fili di cotone, esili aquiloni, che volteggiavano nell’aria assieme alle più belle illusioni, che nessun colpo di vento riuscì mai a fare cadere a terra, uccidendoli, ma solo a strattonare e a ferire; si beveva il latte appena munto dalla mammella della vacca. E noi continuammo a sognare un lavoro anche umile faticoso duro, che fosse dignità e pane e non miserabile vergogna; si fantasticava sulla morte, accanto ai genitori, senza capire mai chi fosse la signora vestita di nero, che entrava nelle case, senza essere invitata, a portare lutti e rovine.
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Ora che io non esco di casa; ora che io rimango nello studio a leggere e a scrivere; io ho memoria di rumori di suoni di voci del tempo e dello spazio che furono propri di Ignazio. Essi svegliano nell’anima la ricerca della parola magica che dorme nel cuore delle cose; l’anelito del verso malinconicamente amaro, preludio misterioso di arcana poesia.

Antonio Cammarana

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