La campagna d’Africa complessivamente è “costata alle forze dell’Asse 1 milione di uomini fra morti, feriti e prigionieri, 8 mila aerei, 6200 cannoni, 2500 carri armati, 70 mila veicoli e 2 milioni e mezzo di tonnellate di naviglio mercantile. Dalla sola inutile campagna di Tunisia erano stati inghiottiti 300 mila uomini” (p.245, Petacco). Così Arrigo Petacco conclude il suo libro “L’armata nel deserto. Il segreto di El Alamein”, dopo aver messo in evidenza – con la citazione del bollettino di guerra n°1083 del 13 maggio 1943 – che “l’onore dell’ultima resistenza” (che mandò in bestia Adolf Hitler e l’OberKommando germanico) delle forze italo-tedesche contro gli Angloamericani è stato tutto italiano e che il generale Giovanni Messe (nominato Maresciallo d’Italia per aver tenuto alto l’onore dell’esercito italiano) ha firmato la resa soltanto per ordine di Benito Mussolini.
Quasi due mesi, dal 13 maggio al 10 luglio 1943, separano la perdita reale dei territori dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia e successivamente Pantelleria, l’isola fortificata che sbarrava il Mediterraneo), già in possesso dell’Italia, bersaglio dell’attacco nemico delle forze Anglo-americane al “ventre molle dell’Asse”(definizione dell’Italia data da Winston Churchill nel corso della Conferenza di Casablanca, tenutasi dal 14 al 24 gennaio del 1943) a cominciare dalla punta estrema della Sicilia; attacco, a proposito del quale, una parola fu sulla bocca di tutti:
INVASIONE, parola che rimase nella mente di coloro che si trovarono testimoni di quell’avvenimento, fin quando una diversa realtà politica, intinta di colore rosso, non venne a sovrapporre la parola LIBERAZIONE (cara al socialcomunismo nazionale e internazionale) alla parola INVASIONE; sporcando le pagine dei libri di storia con il tentativo mal riuscito di cancellazione del sangue dei caduti italiani e tedeschi, che combatterono (anche se non sempre onorando le divise dei loro eserciti) con armamento inferiore, ma con valore almeno pari a quello degli americani, i quali in Sicilia conobbero il combattimento vero e il vero battesimo del fuoco.
Ma a settant’anni da quegli eventi, che cos’è rimasto nella memoria dei più anziani?
Nella memoria degli Acatesi di uomini e donne, di vecchi e ragazzi, sono rimasti incancellabili i ricordi del bombardamento del 9 luglio 1943, dei combattimenti tra militari americani e antiparacadutisti italiani (NAP), cui si unirono parecchi civili del paese e del contado; dei crimini di guerra a cominciare da quello perpetrato contro i componenti maschi della famiglia del podestà Giuseppe Mangano (nella foto a sinistra) a Vittoria, per continuare con le stragi di civili a Piano Stella e dei soldati italiani e tedeschi fatti prigionieri all’aeroporto di Biscari, degli scontri dell’11 luglio nel territorio di Acate e per le strade del paese.
Ignazio Albani, di Acate-antica Biscari, nel suo libro “Il mio dodicesimo anno tra Acate e Gela 1942-1943” ha narrato fatti luoghi persone, riuscendo a coinvolgerci e a farci partecipi di una tragedia che sconvolse il mondo. Nel rielaborarli a distanza di tempo ha cercato di mantenere intatto, per quanto gli è stato possibile, il valore di semplice testimonianza, raccontando un’esperienza di guerra vissuta da un ragazzo di 12 anni, che vive osserva incide nella memoria momenti ed emozioni di quei giorni.
A proposito del bombardamento del 9 luglio ad Acate così scrive: “Giunto a metà strada da casa, spuntarono nel cielo, a relativa bassa quota, tre aerei da caccia pesanti, che non ebbi difficoltà a riconoscere: erano inglesi” (pp.90-91). Ignazio arrivato a casa, ubicata tra via Marconi, via Umberto I e via Mazzini con i familiari sentì “il sibilo della picchiata dell’aereo e, subito dopo, il fischio della bomba che cadeva” (idem, p.92).
Lo spostamento dell’aria, provocato dallo scoppio, fece spalancare gli infissi, vibrare le porte interne, oscillare i lampadari, far cadere i vetri esterni, scendere dal soffitto calcinacci e polvere.
Ignazio Albani e i suoi familiari non si erano riavuti ancora dallo spavento, quando “fragore” e “terrore” provocarono la caduta di una seconda e di una terza bomba, seguiti da “un silenzio che sembrava irreale” (idem, p.93).
Dopo diversi minuti, si udì prima il vocio di alcune persone, poi il rumore e le grida di tanta gente, che, “spaventata e ansiosa, correva in tutte le direzioni per avere notizie dei parenti” (idem, p.93).
La famiglia Albani lasciò Acate per contrada Santissimo, dove aveva proprietà e casa. In campagna apprese che “una bomba era caduta nel Corso Vittorio Emanuele, ora Indipendenza, all’incrocio con il Vico Tripoli; un’altra bomba era caduta in Via Emanuele Filiberto tra le vie Marconi e Roma. La terza bomba era caduta su un edificio compreso tra Corso Vittorio Emanuele, la via Marsala e la via Mameli.
Proprio questo ordigno aveva provocato la morte del sessantaduenne Comandante dei Vigili Urbani, Francesco Di Geronimo (nella foto a sinistra), dell’ottantenne tabaccaio Filippo Battaglia, della bambina Rosaria Bongiorno di dieci anni e del bambino di appena un mese, figlio di Linuzza e Salvatore Traina, calzaturiero, genero del Comandante dei Vigili.
Quella che avrebbe dovuto essere la quinta vittima, la tredicenne Maria Catania aveva in braccio il figlio di Linuzza e Salvatore, parenti) fu estratta viva dalle macerie” (idem, p.94). Adagiata nella barella è dapprima trasportata nella postazione della Croce Rossa in Piazza Libertà, poi, messa sull’ambulanza, “inizia il suo viaggio della speranza. Anche il padre Giuseppe disperato, per assistere alle fasi iniziali del ricovero, raggiunge l’ospedale con la sua imenta, che non legata con le redini ad alcuna boccola ritorna da sola ad Acate, quasi per rassicurare gli altri familiari rimasti in paese. I medici disperano di salvarla. Il dottor Bombi, tenente colonnello in servizio, alla vista di quel carbone ardente, di quel tizzone più che corpo umano, irriconoscibile, coperto di polvere nerastra, interamente ustionato e con gravissime ferite svia i primi soccorsi e dà ordine di non soccorrere le persone anziane, ma i feriti più giovani.
Nessuno credette che, in quel corpicino, si nascondesse quello di una preadolescente tredicenne e non di una vecchia novantenne. Molti furono quelli che strapparono dalle mani del padre il medico che inizialmente si era rifiutato di curare quella figlia sfortunata. Tutti si impegnarono per averne la guarigione. E così fu.
Dopo due mesi di degenza quella ragazzina (nella foto a sinistra Maria Catania, deceduta nel 2005) ritornò a casa più bella che mai. Il volto era bello, i capelli ondulati, di un biondo timido, un viso ingenuo, soave. Maria, la fanciulla di tredici anni sepolta dalle macerie era scampata miracolosamente al bombardamento aereo del 9 luglio del 1943″ (Giovanna Laura Longo, La guerra è morte, altera i sentimenti, La Sicilia, 6 luglio 2007, pag.36).
Per quanto riguarda l’invasione Ignazio Albani così continua: “Verso le 22,30 i cani cominciarono ad abbaiare in modo strano ed insistente, per cui mio padre fu costretto ad uscire fuori per zittirli.
Grande fu la sorpresa quando, guardando nella direzione verso cui abbaiavano, vide, alla fioca luce di quel primo quarto di luna, centinaia di paracadute scendere dal cielo” (Ignazio Albani, op.cit., pag.96 ). Quando rientrò in casa, comunicò ai familiari quello che aveva visto ed essi uscirono tutti “nello spazio antistante” e videro “una fungaia di paracadute scendere piano piano dal cielo” (idem, pag.96).
Era dunque cominciata l’invasione?
Certamente. Paracadutisti caddero in contrada Canalotti-Fondo Niglio. Piero Occhipinti, acatese, in “Biscari Primo ‘900 1895-1950, parte II, così riferisce: “Quella notte il signor Gianninoto Santo, viscarano sposato a Vittoria, scelse di dormire nell’aia. Doveva fare la guardia al suo frumento, da poco mietuto; il frumento che l’indomani avrebbe messo al riparo per garantirsi il nutrimento di tutto un anno. La moglie, per volontà del marito, dormiva a casa” (pag.107). Nel corso della notte, verso le due, il Gianninoto “sentì tutt’intorno un frastuono strano. Dal cielo scendeva gente attaccata ad enormi palloni. Uno dopo l’altro. Non fece in tempo a mettersi a sedere e a sfregarsi gli occhi che si vide cadere addosso una pesantissima cassa di ferro che gli troncò le gambe e gli tolse il respiro. Immediati e strazianti le sue grida di dolore. I suoi lamenti lacerarono la quiete e il silenzio nero della notte. E l’animo di chi le sentiva. Immobile e sanguinante don Santo urlava ed urlava senza posa. I paracadutisti, parecchio spaventati, liberatisi dal pesante fardello di morte che si portavano appresso, a passi svelti l’avvicinarono e gli tapparono la bocca con le mani: Zitto! Tedeschi sentire! Zitto! Ma il poverino nella spirale del dolore e dello spavento gridava e gridava. E quelli, terrorizzati dall’idea di vedersi assaliti da un momento all’altro, d’istinto gli tagliarono la gola con la baionetta e lo lasciarono al suolo, lungo com’era” (idem, pp107-108).
Ad Acate, intanto, era entrato in azione il Nucleo Antiparacadutisti(NAP) stanziato al Convento dei Cappuccini al comando del tenente Orazio Dauccia, dapprima in Contrada Santissimo, dove fu ucciso il caporale Filippo Currò, poi in Contrada Canale, nel tentativo di aggirare il nemico. Nello scontro a fuoco che ne seguì furono uccisi due paracadutisti americani, ma perdettero la vita anche il tenente Dauccia e il sergente Gaetano Galletta. Il nucleo antiparacadutisti ripiegò ad Acate, nelle sue posizioni di partenza. Alcune ore dopo, assieme a un forte contingente di tedeschi, che potevano contare sull’ appoggio di due carri Tigre, cominciò per le strade di Acate una vera e propria caccia all’uomo, affrontando e uccidendo gli americani che provenivano, suddivisi in piccoli gruppi, dalla Contrada Canalotti- Fondo Niglio, dalla Contrada Canali e dalla Contrada Santissimo.
Combattimenti si svolsero ancora in contrada Bosco Grande, non molto distante da Casa Platanìa, nel quartiere delle “Tre Croci”, nel quartiere del “Carmine”, nella piazza antistante la Chiesa Madre (nella foto a sinistra le scheggiature presenti nella vecchia pavimentazione), all’interno della Villa Margherita, attorno al Castello dei Principi di Biscari, nel quartiere San Vincenzo, in contrada Vampalavuri, in Contrada “Fontane”.
Quale fu la prima cittadina ad essere liberata?
La prima città della Sicilia che gli Americani conquistarono per capitolazione fu Vittoria. Alle 16,40 del 10 luglio il colonnello Tommaso Franceschelli, che non aveva le forze necessarie per difendere la città “alzò bandiera bianca e si consegnò con 80 uomini” (Domenico Anfora-Stefano Pepi, Obiettivo Biscari, Ugo Mursia Editore, Milano 2013, pag.90).
Nel medesimo lasso di tempo si consumava, sempre a Vittoria, la tragedia del podestà di Acate Giuseppe Mangano “d’animo nobile e gentile, maestro di Scuola Elementare, capomanipolo e sciarpa littorio, esempio di vita” (idem, pag.96 ), di suo figlio Valerio, di suo fratello Ernesto, capitano medico (nella foto a sinistra). Suona offesa alla dignità umana e alla leale onestà l’ inciso “la giacca del pigiama a dire del suo convulso abbandono del campo” attribuito, senza rigore di documentazione storica (una testimonianza non verificata!), a Giuseppe Mangano, come se lo stesso volesse sottrarsi codardamente al suo dovere di capo dell’amministrazione comunale del suo paese, Acate-antica Biscari, con una fuga inconsulta e precipitosa. Inciso che ripeto, ancora una volta nella mia memoria, da quando, nel febbraio del 2004, in esso ebbi la ventura di inciampare, dopo aver acquistato e letto il libro dal titolo “In Sicilia” di Matteo Collura, edito dalla Casa Editrice Longanesi, di cui riporto lo stralcio . “Non sapevano ancora bene dove si trovassero e cosa fare di tutta quella gente in movimento lungo le strade, i Ranger che a Vittoria, la mattina del 10 luglio, nel loro primo posto di blocco dopo lo sbarco, imposero l’alt a un’automobile con a bordo una famiglia. Poco prima c’era stato un breve, concitato conflitto a fuoco tra gli occupanti del paese e un drappello di soldati tedeschi in ritirata. Dall’auto, sotto i mitra spianati dei soldati americani, scesero il podestà di Acate, Giuseppe Mangano, la giacca del pigiama a dire del suo convulso abbandono del campo, la moglie Melina, il figlio Valerio, diciassettenne, il fratello del podestà, Ernesto, capitano dell’Esercito, in borghese anche lui, e un’amica di famiglia, un’insegnante sfollata da Messina. Erano diretti
a Modica, paese ritenuto più sicuro presso un altro fratello del podestà” (Matteo Collura, In Sicilia, Longanesi, Milano, 2004, pag.212 ).
Ma qual è la sua opinione sull’episodio?
Sulla tragedia dei Mangano ho letto le versioni di Alfio Scuderi, di Nunzio Vicino, di Gianfranco Ciriacono, di Giovanni Iacono, di Giovanni Bartolone, di Piero Occhipinti, di Fabrizio Carloni, di Ignazio Albani, di Andrea Augello, di Domenico Anfora e Stefano Pepi e sono arrivato alla seguente conclusione:
– il 10 luglio del 1943, prima dell’ arrivo degli Americani ad Acate, il podestà decise di trasferire a Modica, presso la casa, ritenuta più sicura, del fratello Gaetano, vicesegretario comunale, la moglie Melina, il figlio Valerio (nella foto a sinistra), la maestra Latteri e la domestica Pina;
– il podestà chiese a suo fratello Ernesto in licenza dall’Ucraina di accompagnarlo fino a destinazione;
– i Mangano, all’altezza di contrada Capraro, furono fermati da una pattuglia di Americani, ma fatti proseguire per la presenza di donne in macchina;
– i Mangano, arrivati a Vittoria in via Cavour, presso casa Scuderi, al numero civico 338, furono trattenuti da un’altra pattuglia di Americani;
– le tre donne furono fatte entrare in casa Scuderi, mentre gli uomini furono portati dai soldati americani verso Piazza Italia da via Cavour.
Da questo momento tutto ciò che riguarda le donne può essere oggetto di ricostruzione storica, perché fondato su testimonianze certe; tutto ciò che concerne gli uomini ha come fondamento sia ipotesi, sia spiegazioni non documentate.
Che cosa è rimasto di indelebile nella memoria collettiva degli Acatesi?
Innanzitutto il modo in cui è stato ucciso Valerio (un colpo di baionetta gli inflisse una ferita mortale, partendo dall’orecchio sinistro e fermandosi al collo); una pietra, lanciata o tentata di lanciare da Valerio contro il suo uccisore, trovata nelle immediate vicinanze del cadavere del giovane, abbracciato al padre Giuseppe Mangano o presso il corpo di lui; nessuna traccia di Ernesto, fratello del podestà; la scomparsa delle pietre preziose, che si trovavano all’interno della Lancia Augusta mai ritrovata.
Nel momento in cui gli Americani vengono a contatto con le truppe italo-tedesche che difendono la Sicilia meridionale, cominciano ad apprendere che cosa sia il vero combattimento tra forze armate contrapposte.
Nel Nord-Africa gli Americani sono stati a fianco degli Inglesi del generale Bernard Low Montgomery (nella foto a sinistra) e le difficoltà, le battute d’arresto come le avanzate, che hanno portato alla vittoria nel deserto libico e in quello tunisino, sono state vissute insieme a soldati che hanno una pluricentenaria esperienza militare terrestre e navale.
Nella Sicilia meridionale le truppe americane, anche se avevano ricevuto un addestramento che era considerato perfetto e completo, come forze combattenti – nel loro settore – sono sole e con tutti i problemi di un esercito, che deve sbarcare uomini e mezzi, costruire teste di ponte, mantenere i nervi saldi, sostenere il contrattacco, oltre che italiano da parte di un nemico, il tedesco, il cui semplice suono del nome incuteva terrore panico e riverente rispetto.
Per questi motivi quando parliamo delle stragi di Piano Stella e dell’aeroporto di Biscari – Santo Pietro, non possiamo tacere il fatto che esse furono compiute da contingenti di truppe che erano ritenute le migliori unità dell’Esercito americano. Sia per l’addestramento (la Thunderbird “era in quel momento una delle divisioni più addestrate” – Domenico Anfora-Stefano Pepi, op.cit., pag.33) a cui erano state sottoposte, sia per l’armamento (“ottimamente armata ed equipaggiata”, idem, pag.33) di cui erano state dotate e che si rivelarono ben poca cosa di fronte alla realtà del combattimento vero, ingaggiato contro un nemico vero, in un lasso di tempo certamente non breve ( dal 10 al 14 luglio) che mise a dura prova la tempra dei soldati statunitensi, logorando la loro capacità di resistenza fisica e soprattutto psichica. Illuminanti sono le seguenti parole: “Nonostante l’accurato addestramento e l’ottimo equipaggiamento il comandante di divisione Middleton e i tre comandanti di reggimento non erano sicuri che i loro soldati, ancora non provati al fuoco, avessero superato la prima operazione reale e attendevano preoccupati di vederli mettere i piedi sulle spiagge” (idem, pag.66).
Siamo ancora nei momenti immediatamente precedenti lo sbarco e, secondo me, le parole ingiuriose e assassine pronunciate dal generale George Junior Patton (nella foto a sinistra) “Uccidete quei figli di puttana” contro i soldati italiani sono già lontane. Esse saranno richiamate nuovamente alla memoria soltanto quando la paura del nemico italo-tedesco diventerà sia gesto ultimo, alla fine di un vittorioso combattimento vissuto interamente con terrore panico ( fucilazione, da parte della cp “I” del 3°/ 505°, con raffiche di mitra dei carabinieri di Passo di Piazza, a nord del Biviere e a ovest del ponte sul Dirillo, di cui sopravvivono soltanto Pancucci e Cianci, deportati poi in Algeria. Anfora-Pepi, pag. 46), sia diritto di criminale vendetta contro un nemico che ha tenuto in scacco per lungo tempo un “combact team” con i nervi a pezzi in una terra che non conosce (strage di militari italiani e tedeschi all’aeroporto di Biscari-Santo Pietro, da parte del capitano Compton e del sergente West; strage di civili a Piano Stella).
La Germania ha fatto della guerra l’esperienza millenaria di un popolo e, con il primo e secondo conflitto mondiale, ha messo in atto quello che ben a ragione è stato chiamato “assalto al potere mondiale” (Fritz Fischer, Einaudi, Torino), il cui fallimento se da un lato ha ridimensionato, sul piano militare la potenza tedesca, dall’altro ha posto le basi sia per la fine di una vecchia filosofia della storia, sia per l’inizio di una nuova filosofia della storia.
Al vecchio SIN QUI proprio della filosofia hegeliana (sin qui, in terra germanica, è giunto lo spirito del mondo, ma in questa visione della realtà non vi sarà posto per una nuova storia) subentra il nuovo DI QUI (che fa partire il nuovo corso della storia universale dalla fine del secondo conflitto mondiale) proprio della filosofia della storia dell’ “Aquila americana”, che non consente dilazioni alla domanda il cui fondamento razionale risiede nell’intrinsecità della sua realtà.
Quali sono i Limiti della potenza americana? O meglio, nel nuovo ordine universale, la potenza americana può avere dei limiti?
A questa domanda non può rispondere lo storico, perché lo storico arriva sempre in ritardo rispetto a ciò che accade e dell’accaduto fa il terreno della sua indagine. A questa domanda può rispondere, io credo, soltanto l’UOMO COMUNE, l’uomo che quotidianamente svolge il suo lavoro manuale o intellettuale, che con il suo elementare buon senso sa dove andare, senza avere bisogno di escogitare eufemismi per affermare che l’Intelligenza costruttiva e l’Idiozia distruttiva sono i due estremi della ” Balance of Life” : quella che ha il suo centro nel Pensiero Pensante dell’uomo che lavora e che con il suo lavoro è ” FABER FORTUNAE SUAE”, anzi “FABER SUI IPSIUS”.
Antonio Cammarana
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