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Professore, un libro!

Professore libro
Anche quest’anno quell’insegnante di lettere, che assomiglia più ad uno scrittore che ad un docente e che tutti, in questa scuola, chiamano il “professore”, starà seduto, per diverse ore della settimana, in questa stanza piena di armadi. – “Che cosa ci sta a fare?” – chiedete voi. Ho capito, vi ho incuriosito e volete saperlo.
La stanza è adibita a biblioteca e il professore distribuirà libri ai colleghi e agli alunni, che ne faranno richiesta, dal dieci ottobre al venti maggio. Chi sono io?
Mi domandate come faccio a sapere tutte queste cose di lui?
Non ho difficoltà a rispondervi. Io sono il pensiero creativo del professore, uscito dalla sua testa, che vive felice nello spazio del fantastico, che, di tanto in tanto, gli si avvicina, rivolgendogli quesiti sulla cultura e sulla produzione libraria nazionale e internazionale, che, un tempo, gli stavano molto a cuore. Non sempre riesco ad ottenere risposte alle mie domande, perché chiunque potrebbe entrare in biblioteca e si creerebbe una situazione imbarazzante. Proprio come quando un bidello, senza bussare alla porta, ci sorprese assieme, o meglio rimase meravigliato che il professore parlasse da solo.
E, mentre io sorridevo in disparte, per la scena che si era creata, il professore si giustificò dicendo che si lamentava con se stesso, perché doveva dare per smarrito il testo di Albert Beguin “L’anima romantica e il sogno”, che gli stava molto a cuore.
A questo punto, lettore, non credere che la vena di questo racconto sia quella dell’humour, tutt’altro; io ho voluto introdurlo in questo modo, ma avrei potuto presentarlo diversamente. Anche quest’anno il professore si occuperà della biblioteca. I suoi colleghi sostengono che lui considera la biblioteca una parte di se stesso e che non riesce a fare a meno della frase che gli alunni, ormai, da sempre ripetono, quando entrano: “Professore, un libro!”; e, immaginano la scena, che segue: il professore, che volge lentamente la testa in direzione del ragazzo e che risponde invariabilmente: “Un libro? Su quale argomento?” e che conclude, con un’unica emissione di voce: “Dovrebb’esserci!”, dopo che l’alunno, a volte in modo chiaro, spesso in modo confuso, gli ha fatto capire quale tema vuole approfondire.
Non tutti sanno, però, che, per dare un libro in prestito, il professore, in primo luogo, dovrebbe andare a prendere il testo dallo scaffale, ma si limita ad alzare una mano per indicare all’alunno la direzione in cui cercare; in secondo luogo, dovrebbe annotare, nel registro dei prestiti, i dati relativi al testo, la sua collocazione, il nome dell’alunno e della classe, ma lui fa eseguire questo lavoro al ragazzo stesso; poi, con un: “Vai pure!”, il professore dovrebbe invitare l’alunno, che vuol perdere tempo in biblioteca, a tornare subito in classe; ma lui esprime ciò con un semplice gesto del capo e, se l’alunno gli sembra proprio un tipo abituato a graffiare minuti, gli fa capire, con un altro gesto del capo, più significativo del primo, che può farlo fuori dalla biblioteca, mentre ritorna nella sua classe.
Il professore compie, ormai, queste operazioni in modo meccanico. E’ necessaria, forse, una grande fantasia creativa per indicare un libro di cui si conosce, da tanto tempo, l’argomento e la collocazione, e per farne registrare il prestito? Anni addietro l’incarico di bibliotecario venne conferito al professore per la sua preparazione culturale, le sue conoscenze bibliografiche, i consigli che poteva dare al momento di proporre nuovi testi per gli alunni e per i docenti.
Ma, ora, che la cultura è diventata visione e ascolto su internet; ora che nella scuola e nella società si stanno perdendo sia il piacere di leggere come attività abituale, sia la pratica dell’espressione scritta come condizione indispensabile alla manualità del pensiero, il professore che cosa ci sta a fare in biblioteca?In verità il professore non avrebbe voluto accettare l’incarico.
E soltanto io, che sono il suo pensiero creativo, ne conosco la ragione. Il professore, negli anni della guerra fredda, lesse, su “La stampa”, un articolo di fondo, che lo scosse parecchio. Il deterrente nucleare delle due superpotenze, U.S.A. e U.R.S.S., era talmente alto, che poteva distruggere il mondo almeno sette volte. Non solo, ma Stati Uniti e Unione Sovietica erano paragonati a due scorpioni, chiusi nella stessa bottiglia, di modo che, se uno attaccava per primo l’altro, quest’ultimo, prima di soccombere, aveva il tempo di colpire a morte l’avversario.
La pace, allora, diventava soltanto l’illusione di un secondo, che poteva essere calpestata un instante dopo; e la vita continuava, sulla terra, solo perché nessuna delle due superpotenze sarebbe sopravvissuta all’altra, dopo lo scatenamento della catastrofe.Questo articolo sortì l’effetto di trasformare un tipo dinamico, come il professore in un essere pigro.
Pigrizia mentale, come rinuncia alle operazioni creative del pensiero; pigrizia fisica, che lo indusse a rimanere seduto per ore con gli occhi socchiusi, in uno stato di apatia. Né il professore ha più aperto un libro, eppure leggeva molto.
Né ha più scritto un rigo e pareva avviato a imporre uno stile personale.
Né ha chiesto di insegnare all’Università, pur avendone i titoli: avrebbe dovuto presentare, tra l’altro, domanda di docenza, proprio quando veniva perdendo confidenza con carta e scrittura e la stanchezza metafisica, che si oppone al pensiero pensante, si impadroniva di lui. Per questi motivi io mi sono allontanato dalla sua testa: come pensiero produttivo, infatti, sono fantasia immaginazione creatività e non meccanica ripetizione.
D’altronde il professore non poté lasciare la biblioteca. Così quello che tutti, a scuola, chiamano “il professore”, per me, è soltanto un gesto della mano, che indica la collocazione di un libro richiesto; un’emanazione di voce, che ripete sempre “dovrebb’esserci!”, in risposta alla millesima domanda: “Professore, un libro!”.

Antonio Cammarana

 

Little Rabbit e Pretty Sparrow. Un tenero canto invernale

Little Rabbit e Pretty Sparrow
Little Rabbit e Pretty Sparrow

Nell’ora d’oro del giorno
che tramonta,
il suono fievole di un flauto di Pan
indietro nel tempo mi riporta,
una volta ancora
in cammino mette la mia mente,
una volta ancora
fa battere il mio cuore
a ricordarmi
giorni felici
che mai più io vivrò ancora,
io che lasciata ho per sempre
la mia dimora.

La mia dimora
lasciata ho io per sempre,
con me portando un canto di dolore,
che nascosto dorme nel mio cuore.

Nel silenzio del mattino
la mia bella se ne andava:
saltellavano gli uccelli sugli alberi,
profumavano le violette nel bosco.

Appresso a un capitano
la mia bella andava:
un languido sopore velava
i miei occhi umidi di pianto.

Tramontava il sole dietro le colline,
splendevano le prime stelle:
per monti e valli correvano
la bella mia e il suo capitano.

Compariva la luna,
sulla terra era placida notte:
primavera nei cuori dei due fuggitivi,
autunno nell’afflitto mio cuore.

Solo un usignolo,
con la soave melodia,
aiuto, a non dire no alla vita,
mi dava.

Cammino del viandante
la mia vita si faceva,
amico della notte
io diventavo,
fredda e avvolgente era la notte
quando io compagne non avevo
la mite primavera la serena estate,
la bianca luna l’argento delle stelle.

Little Rabbit e Pretty Sparrow
feriti, un giorno, sotto un tiglio,
io trovai,
Little Rabbit e Pretty Sparrow
sotto il tiglio, con amore,
io curai.

Bravo era nel ballo
Little Rabbit,
Bravo era nel canto
Pretty Sparrow.

Nelle piazze, nelle fiere, nei mercati
Little Rabbit ballava,
Pretty Sparrow cantava,
il buon pane al mondo io domandavo,
con il buon pane il mondo mi rispondeva.

Pesci nei fiumi
vedemmo nuotare,
uccelli nei campi
vedemmo volare,
io e Little Rabbit e Pretty Sparrow.

Pulita era l’acqua dei fiumi,
pura era l’aria dei campi,
nei fiumi nuotammo,
nei campi corremmo,
io e Little Rabbit e Pretty Sparrow.

Giorni felici
io vissi ancora,
io che lasciata per sempre avevo
la mia dimora.

Giorni felici
io vissi ancora,
zingareschi giorni,
per le strade del mondo,
giorni di Bohéme
con Little Rabbit e Pretty Sparrow.

Nel mio cuore finiva l’autunno,
ma la primavera giammai venne,
né l’estate.

Rossa,
d’inverno,
si fece la neve,
rossa rossa
del sangue di Little Rabbit e di Pretty Sparrow,
nell’ora d’oro del giorno
che tramonta.

Tagliole di frodo
serrarono
Little Rabbit e Pretty Sparrow,
tagliole di frodo
uccisero
Little Rabbit e Pretty Sparrow.

Di rosso fuoco
si colorava il cielo,
prima che la sera grigia,
prima che la notte oscura
ritornassero a farmi da rifugio.

Nelle piazze, nelle fiere, nei mercati
più non balla Little Rabbit,
nelle piazze, nelle fiere, nei mercati
più non canta Pretty Sparrow.

Nei fiumi più non si bagnano,
nei campi più non corrono,
zingareschi giorni, giorni di Bohéme più non vivono
Little Rabbit e Pretty Sparrow.

Nella neve
io ho sepolto Little Rabbit e Pretty Sparrow,
nella neve
io ho sepolto il coniglietto e il passerotto
e il mio cuore.

Una volta ancora
cammino del viandante
la mia vita diventava.
E nella sera grigia, nella notte nera,
il suono fievole di un flauto di Pan
alla mente dolcemente mi portava
il ballo di Little Rabbit,
il canto di Pretty Sparrow,
il coniglietto e il passerotto
morti
nell’ora d’oro del giorno
che tramonta.

Antonio Cammarana

Ombre

Ombre
Ora che l’inverno è al suo ultimo colpo di coda; ora che della primavera avverto prossimo lo scalpiccio; ora che l’alba è vicina, ma tarda ancora a spuntare, come se alla notte volesse concedere dilazione per darle il tempo di traghettare la mia anima bambina nell’Omega del Nulla; ora… ora ora… ora ora ora sopra la lastra di marmo del comò, vicino alle immaginette dei Santi della Madonna di Gesù, vedo diverse fiammelle di lumini millantare lingue di luce, che si fanno sempre più deboli opache cenerognole; e alla destra e alla sinistra del letto, dove giaccio ammalato da giorni, stanno seduti uomini e donne d’imprecisata età dalle facce pallide e inespressive, che mi guardano in silenzio; e alle mie orecchie arriva il brusio dei cuginetti con i calzoncini alla zuava ai quali è stato comandato di non muoversi e di parlare a bassa voce. Che cosa significano le immaginette sante e i lumini accesi e gli sguardi fissi su di me degli uomini e delle donne e il suono indistinto delle parole dei cuginetti?
Fino a poche settimane addietro, io frequentavo il Collegio delle suore della S.S. Vergine Maria.
Esse mi insegnavano a stare assieme agli altri bambini, a giocare con loro senza alzare le mani, a costruire le casette con i quadratini di legno colorato, a contare da uno a dieci con il pallottoliere, a credere nell’esistenza dei Santi della Madonna di Gesù, che ci soccorrono nelle sventure e nelle malattie, se facciamo i bravi con i nostri genitori e con gli altri familiari, se diciamo ogni giorno le preghiere del mattino e della sera.
Ora la zia del cuore sussurra qualcosa all’orecchio di mia madre della madrina della nonna, poi viene presso di me. Ma essa non mi sorride come quando mi accarezzava le guance, mi lisciava i capelli, mi dava un bacio, dicendomi di avere fiducia nella vita e nei sogni.
Essa posa, sopra la mia fronte che brucia, soltanto una striscia di panno bagnato, poi inumidisce le mie labbra riarse dalla febbre e, ancora una volta, con i polpastrelli delle dita, delicatamente sfiora il mio collo e la mia gola, come se volesse fare guarire, con un gesto d’amore materno, le mucose malate delle mie prime vie respiratorie. Com’è strano!
Tutti i presenti sono vestiti di nero.
Il nero è il colore della morte, io l’ho già visto quando – assieme al babbo e alla mamma, agli zii e alle zie – sedevamo in silenzio presso i letti dei parenti morti: sembravamo un piccolo popolo di ombre, allora, guardati dall’espressione severa di antenati vicini e lontani, le cui grandi fotografie – chiuse in ovali cornici fissate in prossimità di concavi dammusi – pendevano dalle lattee pareti.
E c’erano, pure, le immaginette dei Santi della Madonna di Gesù, sopra i marmi dei comò, i lumini accesi, altri uomini donne bambini.
Alcuni sedevano in silenzio, altri piangevano sommessamente, non mancava chi singhiozzava , chi si disperava, chi parlava delle cose che la persona distesa sopra il letto aveva fatto quando era nel pieno vigore delle forze.
Ora la mia fronte e le mie mani scottano, le mie vie respiratorie si chiudono viepiù; e i miei occhi fissano intensamente i lumini e le immaginette dei Santi della Madonna di Gesù; e io prego come mi hanno insegnato le suore del Collegio della S.S. Vergine Maria; mentre mio padre e mia madre, la zia la madrina i parenti i cuginetti
diventano ombre, sempre più ombre: lunghe nere ombre di muto nero corteo, che una subdola ambigua ingannevole luce di lumini avviluppa ora davanti, ora dietro, ora tutto intorno a me.
O, ma perché nessuno piange, singhiozza, si dispera, né parla delle cose che io ho fatto quando ero nelle migliori condizioni di salute?

Antonio Cammarana

Era la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive

Via Duca D'Aosta - AcateQuando alle sue orecchie arrivarono soltanto miagolii di gatti e abbaiare di cani, Ignazio si alzò per fumare una sigaretta all’aperto nella strada parallela al Corso. Fuori non faceva freddo, né spirava vento.
A Ignazio il paese parve immerso dentro la profonda notte, prima che nel sonno: una notte, che l’immenso cielo scuro apparentava al vasto “mare nero”, nelle cui acque culturali aveva vissuto la lunga veglia del ghetto.
Le casette a pianterreno di fronte alla sua appartenevano alla famiglia di Ignazio e degli zii paterni da oltre un secolo e conservavano un aspetto ostinatamente storico e malinconicamente decadente.
Alla sua sinistra Ignazio osservò la casa adibita a deposito di carrube, la cui porta e la cui finestra venivano intonacate di gesso per impedire al fortissimo odore di espandersi per l’abitato circostante. Essa non conteneva più quintali di carrube come nel passato, ma ospitava decine di gatti che vi avevano fissato la loro residenza notturna, nei mesi invernali, per via di un considerevole buco mai riparato nella porta d’ingresso e che, quando la temperatura scendeva sotto lo zero, levavano al cielo prolungati lamenti. Ignazio ricordò le sere di fine estate in cui, davanti a quella casetta, si fermavano bestie e carri con sacchi pieni di carrube che, una volta vuotati, avrebbero formato un mucchio largo quanto il pianterreno che, giorno dopo giorno, copriva le pareti e, alla fine, toccava il tetto e la cui porta, dopo essere stata chiusa, era aperta nel tempo in cui i sensali giravano per il paese come avanguardia di trattativa economica dei commercianti.
Allora, non molto tempo dopo aver fissato un accordo sul prezzo e avere ricevuto la caparra, arrivavano i camion e veniva chiamato il vigile urbano che, con tanto di cappello e di divisa di uomo della legge, impediva il passaggio ad autovetture e carri lungo la strada ed era portato fuori il bilico e, per tutto il giorno, era un insaccare e un pesare carrube e la sera, quando i mezzi di trasporto carichi di prodotto andavano via, la madre e le zie, in cucina, contavano i denari di carta di ferro e di alluminio, che avrebbero permesso alle loro famiglie di guardare con fiducia i giorni a venire, ringraziando ancora la benevolenza del cielo e la grazia di Dio per non avere abbandonato le loro campagne e le loro case.
Accanto alla casetta delle carrube c’era la dispensa. Continuavano a chiamarla così perché, fino al primo governo Giolitti, aveva ospitato enormi botti di vino, in parte bevuto, in gran parte venduto. Trasformato – in seguito all’arrivo della fillossera, che aveva distrutto le viti della contrada e della contea – il vigneto in mandorleto e uliveto, soltanto una botte capace e una di più ridotte dimensioni rimasero nella dispensa, testimoni mute di un tempo e di un luogo ove Bacco aveva dimorato a lungo.
Nei mesi di luglio e di agosto l’antica dispensa diventava luogo di deposito di quintali di mandorle. Qui si fermavano, infatti, come ultima meta, a mezzogiorno e di sera, asini stracarichi di sacchi di mandorle, dopo l’abbacchiatura e la raccolta nei campi. A togliere le bucce, che ricoprivano la scorza e il frutto, lavoravano tutti quelli che, delle famiglie, rimanevano in paese: Ignazio, la madre, le zie, i cugini.
Dall’alba al tramonto prima sbucciavano le mandorle al fresco, poi le stendevano al sole come lenzuola color terra, perché il frutto dentro la crosta si asciugasse per bene e non ammuffisse, per poter essere venduto.
A intervalli di un’ora, Ignazio il cugino Rosario e il cugino Luigi, a torso nudo, il fazzoletto in testa e il tridente in mano, in tutto simili a solari Poseidoni, andavano a smuovere il prodotto affinché i raggi infuocati di Elios lo penetrassero da tutte le parti. Intanto Ignazio cantava: “Suli ca spacchi i petri da chianura, suli c’abbruci l’ossa c’a calura…”. Quando l’ardente morso del sole cominciava a far posto alla dolce ombra, che lentamente calava sui marciapiedi, delle mandorle si facevano grandi mucchi che, in capaci canestri e corbelli, si portavano nella dispensa. Ora che la madre e le zie si ritiravano in casa per cambiarsi d’abito e preparare la cena, iniziando a far bollire l’acqua nella tannura, Ignazio e i cugini spalavano il marciapiede dalle bucce, che il mattino seguente sarebbero state disperse nei campi.
E mentre si aspettava l’ultimo carico di mandorle e l’aria tutt’intorno si faceva più fresca, Ignazio spendeva il tempo a giocare con i compagni nella strada e, quando da lontano – con l’ultima lama di luce, che stava per essere sopraffatta dalle serali sfumature del grigio e del nero – vedeva il padre con i fratelli, i contadini e gli animali, che portavano gli ultimi sacchi, correva loro incontro, mandando al cielo grida di gioia: il padre lo metteva a sedere sopra il dorso peloso e sudaticcio di una bestia, compensando, in tal modo, una non lieve giornata di lavoro del suo ragazzo.
E Ignazio era felice di fare ritorno a casa sopra un asino o un cavallo per un centinaio di metri. Così passava l’estate. Tutta intera.
Ma giorni restavano ancora – prima dell’inizio dell’anno scolastico – a Ignazio e ai suoi compagni per sognare inesistenti vacanze al mare in montagna in collina in compagnia di femmine belle e di molta carne. E, poi, quando finivano i sogni, l’ultimo scampolo di solleone si trascorreva andando a caccia di verdi lucertole e di neri calabroni e di variopinti serpentelli d’acqua e di macchia.
Ed ore si vivevano all’aperto, sdraiati per terra, ora fissando l’orizzonte di un azzurro assoluto, ora ascoltando il respiro del vento e i frullii degli uccelli, ora sotto l’effetto di soporiferi oppiacei che spontanei crescevano su lunghi steli come piccoli melograni, ora rotolando come umani cilindri – davanti all’occhio indifferente dei cercatori di creta – giù per le oblique scarpate fin nell’incavo di grandi valloni, per risalire contusi e laceri lungo le nascoste serpentine percorse da antichi briganti e ladri di passo in affannosa fuga da uomini di legge e compagni d’armi.
Granchi si cercavano ancora nei punti in cui – come paesaggio di antiche leggende – diventava torrentello il letto del fiume.
Per ricevere alla fine, sulla groppa, un sacco di colpi di scopa a ogni tocco di campana di mezzogiorno, quando, simili a merdosi strapazzieri, la comparsa si faceva di fronte all’uscio di casa. Ma, allora, si era spensierati e un pezzo di pane casereccio con un coccio di zucchero era già un lauto pasto e faceva la gioia anche di quelli che, come Ignazio e i suoi familiari, nel paese, vestivano di nero. Ed erano tanti.Ignazio osservò, poi, il garage: piccolo, bastava appena per una “Topolino”.
Alla sua destra c’era un altro garage della stessa estensione del primo. I due posti macchina, nel passato, erano stati la stalla di animali che, con lavoro non sempre onesto, si erano guadagnati avena e fieno come razione quotidiana e carrube come supplemento straordinario. La stalla aveva avuto una comoda mangiatoia alta a petto d’asino, capace quanto una vasca da bagno di grande dimensione, un solaio sempre ripieno di fieno, un pavimento in terra battuta immancabilmente condito di paglia e cacata.
Decine di asini e di cavalli vi si erano succeduti, secondo il principio adottato dai padroni di comprare un asino se il cavallo acquistato in precedenza si fosse dimostrato stracco, e di non avere mai un mulo perché poteva tirare calci traditori. Non tutti i cavalli si erano dimostrati valorosi nel lavoro, spesso lasciando nei guai i loro proprietari.
Si raccontava di un cavallo di aitante aspetto un episodio che a lungo fu pretesto di ilarità generale. Si era ad ottobre inoltrato, si abbacchiavano e si raccoglievano le olive per portarle al frantoio del paese. Verso sera al cavallo era stato attaccato il carro carico di sacchi e ci si era messi sulla via del ritorno, quando si scatenò un violento temporale, che colse cavallo carro e padroni ancora sulla trazzera. L’animale piegò le ginocchia e non si mosse, nonostante la
tempesta di nerbate che gli si arrovesciava sulla groppa e rischiava di mandarlo all’altro mondo. Rivelatesi inutili anche le imprecazioni e la botta di sancu latru puorcu e assassinu, che uscivano dalle bocche dei padroni che la malaventura rendeva luciferini, si dovette spaiare il cavallo dal carro e, con l’aiuto di parecchi contadini, spingere carro e bestia fino in paese, per non lasciare marcire le olive a causa della pioggia. Ma se la roba fu salva, la reputazione del cavallo e il buon nome dei proprietari andarono in malora. Per anni, anche quando non c’era più, si continuò a parlare di un cavallo tanto fiacco che, ogni sera, dai padroni veniva portato in paese sopra il carro sotto la pioggia. Il cavallo fu messo in vendita e una mattina fu appiccicato a dei forestieri di passaggio, che, del tutto ignari della sua fama, lo portarono dalle loro parti.
Si fece festa, la sera, con il ricavato e si bevve il vino della botte piccola e si andò a letto felici di aver concluso un buon affare. Ma l’indomani mattina, alle prime luci dell’alba, quando il padre di Ignazio uscì di casa per chiamare i fratelli, si ritrovò, davanti alla stalla, il cavallo del buon affare, i compratori del giorno prima e diversi compari di rinforzo con intenzioni non pacifiche. Il cavallo, messo al tiro, si era dimostrato buon incassatore di bastonate, ma cattivo lavoratore, per cui era stato riportato ai suoi vecchi padroni che, vista la mala parata, lo ripresero per venderlo ad altri ignari offerenti.
Ora che il padre di Ignazio e anche i suoi fratelli hanno lasciato per sempre questo mondo, portandosi via un pezzo di storia della comunità – che viveva dei prodotti della terra e che il lavoro l’onestà e il rispetto della legge rese simile all’età dell’oro dell’umanità; ora che il mandorleto è morto e produttivi di miseria sono il carrubeto e l’oliveto; ora che due grigi posti macchina in cemento hanno assassinato la calda stalla dal muro sbrecciato, il vecchio solaio ricco di paglia e fieno e la mangiatoia alta a petto d’asino, rimane il ricordo della via Duca d’Aosta come la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive.Intanto anche la luna era sparita e il buio si era fatto più fitto, e il fresco pizzicava a Ignazio le braccia e il petto.
Come alla fine di un lungo incanto, Ignazio si trovò solo in mezzo alla strada, perplesso, un po’ infreddolito.
La notte aveva favorito il recupero di un altro spicchio di memoria di uomini e cose del mondo lontano, consentendo a Ignazio di vincere, ancora una volta, non tanto la guerra o una battaglia quanto una scaramuccia contro l’oblio, che profonde crepe scava al sentiero del nulla.
Fino a quando Mnemosine – sposa di Zeus, madre delle Muse, soprattutto dea della Memoria – dall’alto del suo lontanissimo regno, concederà a Ignazio il suo conforto, donandogli uno stilo e un rotolo di carta su cui scrivere, per continuare a fare bottino di schegge di luce del tempo che fu?

Antonio Cammarana

 

Una sera

una sera del passato AcateLa sera è scesa all’improvviso, portando via dalla piazza i crocchi di contadini, che si sono fatti vivi in cerca di lavoro nel latifondo. E il calzolaio, che tiene pure scarpe per chi ne può comprare, spegne la lampada del negozio; e il giornalaio, che, all’inizio di ottobre, s’improvvisa libraio per gli alunni delle Elementari e delle Medie, chiude le imposte.
Nel Corso vedo soltanto coloro che dal vizio del fumo sono spinti verso la rivendita di “Sali e tabacchi”, che, a quest’ora, tiene aperta soltanto mezza porta. Poi non scorgo più nessuno; anche i cani – che hanno sostato a lungo davanti alla carnezzeria nella speranza di potere addentare qualche osso – a causa dell’insoddisfatta fame, gagnolando, vanno appresso all’odore di carni varie, che emana dalla pelle e dal pastrano del macellaio, che lascia la bottega e ritorna lemme lemme a casa.

Ora che il buio si fa più fitto, mia madre viene a chiudere le finestre, accende le lampade, sparisce in cucina. Ciò facendo, mia madre non sa di che cosa mi priva. Fin quando io osservo il buio da dietro i vetri, esso non mi fa paura. Non vedendolo più, vivo nel timore che esso mi soffochi, stritolandomi assieme alla mia casa.

Pure oggi ho atteso l’arrivo di questo messaggero della notte con ansia crescente, da quando ho finito di fare i compiti. D’inverno esso giunge di colpo e porta con sé la tenebra, che copre di nero persone e cose. E ora che mia madre ha sprangato le imposte, io vado a sedere vicino a uno spigolo del tavolo appoggiato al muro della sala da pranzo: così almeno creo l’illusione di proteggermi dall’urto della tenebra, che di già circonda la mia casa.

E aspetto.

Attesa vana non è la mia, né lunga: silenziosa mi raggiunge la paura, in punta di piedi insinuandosi nel mio corpo fino a farlo fremere come quello di una persona, che soffre a causa del freddo intenso. Dalla cucina, intanto, vengono delle voci, che mi fanno riprendere il contatto con la realtà. E’ arrivato mio padre, dopo una giornata trascorsa in campagna: possediamo un appezzamento di terra non molto distante dal paese e lui, dall’alba al tramonto del sole, segue il lavoro di alcuni contadini presi a giornata. Io vorrei correre dal mio vecchio, salutarlo, abbracciarlo. Sentire il suono della sua voce mi libererebbe da questa stretta, che mi farà uscire di senno. E, però, non posso farlo, perché mio padre mi permette di avvicinarmi a lui soltanto all’ora di cena.

Fuori, frattanto, il buio si è fatto più fitto e la tenebra starà serrando in una morsa la mia casa. Il mio cuore batte forte. La mia paura cresce ancora, s’ingigantisce, diventa sgomento, angoscioso spasmo del corpo e della mente, animo che si decompone.

E’ terrore panico il mio?

Mi sento avviluppato come in una spirale, che mi trascina verso l’orlo di un abisso! Mi faccio piccolo piccolo, premo il petto contro il tavolo, solo ora mi accorgo che sopra di esso c’è il tappeto di velluto rosso brillante che prediligo. Questo colore così vivace mi sarà di qualche aiuto?

C’è tanta nebbia nella mia testa! Tanta nebbia, che ora s’infittisce, ora si dissolve, ora s’addensa, ora si dirada, Che cosa può essermi successo? Chi mi ha derubato del pensiero, della memoria, dei sogni? Chi ha privato la mia vita di ogni bellezza futura? Ora che non riesco a muovermi come gli altri, un uomo e una donna molto avanti negli anni mi portano in giro per la casa sopra una sedia a rotelle e, quando fuori si fa buio, mi sistemano dietro la finestra, che, da tanto tempo, ha le imposte aperte giorno e notte. Dietro i vetri, io vedo l’alba spuntare e la sera scendere, la luce del giorno e l’oscurità della notte e m’addormento con dolcezza, quando il sonno vince le mie ore di veglia. Non so dire chi siano la donna e l’uomo che si occupano di me, anche se mi sembra di vedere i loro volti da sempre: volti familiari, dove scolpiti sono un dolore terribile e un infinito amore.

Antonio Cammarana
La morsa del nulla: linea ultima
dell’infamie trompeuse de la vie.

“Notte serena”, la poesia di Antonio Cammarana con il commento di Salvatore Stornello

Salvatore Stornello - Antonio  Cammarana
Notte serena

Notte serena,
il nero tuo manto,
sulla terra,
al riposo chiama
le umane creature,
le viventi specie
di piante di animali.
Notte serena,
alla veglia io sono.
Una malinconia antica,
mistero sconosciuto
insondabile,
mi accarezza e mi stringe
il cuore.
Fiaba della memoria,
fiaba lontana,
fiaba arcana.
Notte serena,
al riposo chiamami.
La fiaba arcana,
la fiaba lontana,
la fiaba della memoria
dalla mia mente
allontana.
Notte serena,
al mio cuore
dài quiete.

Antonio Cammarana

Al Castello dei Principi di Biscari, il 27 dicembre 2011, in occasione del 30° Anniversario dell’AVIS provinciale di Ragusa, è stata illustrata da Salvatore Cutraro, Vicepresidente di questa nobilissima Associazione di volontari di Acate, la silloge “Fiaba d’inverno e altre poesie” del prof. Antonio Cammarana, presenti i responsabili locali (Salvo, Spada, Cancellieri) e il direttore Sanitario, Giovanni Garozzo.
“Notte serena”, ultima lirica della raccolta, è una felice immagine simbolica di poetica musicalità, che si apre con la descrizione del manto notturno, che chiama al riposo uomini piante animali; prosegue con la sensazione di indefinita “malinconia antica”, che la memoria restituisce, per un fuggevole attimo, come “mistero sconosciuto” e “insondabile”; si conclude con una domanda di quiete.
I versi liberi, lo stile essenziale, il viaggio di metafore sembrano creare, con lo sguardo del cuore, l’incanto di una realtà senza tempo.

Salvatore Stornello
dott. in Psicologia

San Vincenzo, la Festa che fu

Acate Palio San Vincenzo 60

Acate – Corsa degli Anni Sessanta con cavalli appaiati, “Arisa”

La festa che Ignazio, da piccolo, prediligeva di più era quella di San Vincenzo martire, protettore del paese, perché andava avanti per diversi giorni.
Cominciava il venerdì, alle undici, dopo lo sparo di un mortaretto, con la fiera del bestiame; ma già, nei giorni precedenti, per le strade del paese, c’era grande movimento di animali (soprattutto asini, muli, cavalli) e di uomini:
tanti di questi ultimi indossavano pantaloni e giacche di fustagno, avevano fazzoletti rossi al collo, li chiamavano i “firuoti”, coloro che fanno affari in fiera.
Era uno spettacolo seguire da vicino – il venerdì e il sabato – le discussioni estenuanti dei venditori e dei compratori, che stavano in mezzo a quadrupedi che ora scalpitavano, ora defecavano, ora mandavano peti; non riuscendo, però, a capire se, dopo il lungo tira e molla sul prezzo, a guadagnarci o a rovinarsi fossero i venditori o i compratori. Ignazio mai era stato portato ad una fiera del bestiame, per timore che si prendesse un calcio di mulo; ma lui, la fiera, da un buon punto di osservazione, l’aveva potuto seguire: un’enorme macchia mobile grigio-scura, che si stagliava in quella zona bassa del paese (la contrada Fontanella), dalla quale il Castello dei Principi di Biscari appariva una linea difensiva arroccata su un picco, su un’altura, su uno sperone di roccia, come se dovesse proteggere ancora gli abitanti da un attacco nemico: i mai dimenticati saraceni o brandelli superstiti di truppa spagnolesca alla macchia o i lanzichenecchi di manzoniana memoria.
Il venerdì pomeriggio iniziavano pure le corse dei cavalli: cinque il venerdì, sei il sabato, otto la domenica, perché – alle sette di rito – se ne aggiungeva una (l’ultima) dedicata a San Vincenzo, con i cavalli che correvano appaiati e i fantini che, per tutto il Corso Indipendenza, si stringevano la mano.
Terminate le corse, all’imbrunire della domenica, la folla superava le transenne di corda e dai marciapiedi brulicava nel Corso. Sembrava la piena di un fiume di voci e di colori, che lo sparo di un mortaretto chiamava dalla strada principale al Piano San Vincenzo, dove sorgeva la Chiesa. Tante persone, paesani e forestieri venuti da centri vicini e lontani, dei mortaretti, all’uscita di San Vincenzo, sentivano soltanto l’eco; molte altre, del Santo protettore, vedevano soltanto il Fercolo d’oro splendente di luce, che – con due carabinieri ai lati e con il maresciallo, il sindaco, il parroco (le autorità militari, civili e religiose) davanti – veniva portato a spalla lungo il percorso stabilito. Tutte potevano osservare, anche se da lontano, due alti principeschi pesanti stendardi colore rosso e azzurro l’uno, colore avorio e verde l’altro, che aprivano la processione e che erano tenuti dritti da uomini che, pur nerboruti, rischiavano di procurarsi un’ernia.
Quando la processione scendeva dall’alto del Corso era accarezzata dal sibilo schioccante di decine di fiaccole che – come fontane ardenti di fuoco – da tanti balconi altoborghesi inondavano di luce e di fumo i larghi marciapiedi, che, in prossimità del Centro cittadino, avevano diverse bancarelle con bomboloni avvolti in carta rossa o verde, torrone bianco, gelato di campagna e zucchero filato.
Non mancando, in un angolo dei Quattro Canti, il rudimentale scaffale  dell’improvvisato libraio, che esponeva – tra gli altri – “I miserabili” di Victor Hugo, “Quo vadis?” di Enrico Sienkiewicz, “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre, nelle popolari e illustrate Edizioni Lucchi e Nerbini.
E, intanto, la banda del paese, rinforzata da un corpo musicale fatto venire, per la ricorrenza, da una città vicina, intonava marce sinfoniche, che aprivano il cuore a sentirle; mentre il rumore di migliaia di piedi faceva da sfondo sonoro alla processione dei fedeli, che accompagnava San Vincenzo fino alla Chiesa sia per devozione, sia per assistere allo spettacolo dei fuochi d’artificio, che fu sempre impressionante, vuoi in tempo di vacche grasse, vuoi in tempo di vacche magre, tanto con le amministrazioni comunali garibaldine, quanto con le amministrazioni comunali degasperine. Tornando a casa stanchi, si diceva che ne era valsa la pena; ma chi potrà mai dimenticare il patimento di coloro che, per voto, avevano seguito il Santo a piedi nudi?
L’indomani mattina, mentre gli uomini – tranne gli artigiani – andavano a lavorare, le donne camminavano ancora, per la fiera del lunedì, al Piano San Vincenzo e davanti al Castello dei Principi di Biscari, dove si concentravano i venditori di oggetti casalinghi, che esponevano, per terra, pentole piatti coltelli forchette e una gran varietà di oggetti di rame, di ferro e di alluminio. E c’erano pure le bancarelle, che facevano bella mostra del San Vincenzo a cavallo di creta con il fischietto.
Ignazio raramente si recava alla fiera del lunedì, considerando già tutto finito la domenica sera, dopo che San Vincenzo era rientrato in Chiesa e, per le strade, si respirava un residuo odore di polvere di mortaretti, di zucchero cotto e di carbone semiacceso, che davano una sensazione di reale appagamento e di vago malessere a un tempo. Ma era la festa che finiva, erano le strade che si vuotavano di gente, erano le bancarelle in disarmo con i dolci che venivano ritirati e con le lampadine che venivano spente. E c’era anche la folata di vento primaverile, che sollevava polvere e carta, nel Corso: sembrava rivolgere un estremo saluto agli ultimi venditori ambulanti, che raccoglievano – da impassibili e muti tentatori – le lacrime e i singhiozzi di quei bambini a cui i padri di famiglia, con un’occhiata di mite rimprovero, negavano, una volta ancora, di comprare il palloncino colorato .

Antonio Cammarana

La tradizione e la leggenda del martire crociato
di cui parla il poeta e scrittore Carlo Addario
e
la memoria dolorosa del diacono martire di
Saragozza documentata dallo storico, parroco
don Rosario Di Martino,
vivono da sempre nella realtà della grande festa
di popolo di San Vincenzo.

A.C..

Odradek

Odradek

La madre superiora ha donato a noi bambini del collegio delle Suore di Maria che, per un mese di seguito, abbiamo fatto i bravi e abbiamo detto le preghiere del mattino e della sera, inginocchiati davanti all’altare della Vergine, un rocchetto, un elastico e due bastoncini di legno, uno corto e uno lungo, dicendoci di fare un giocattolo.
Noi bambini tenevamo in mano i tre oggetti e ci guardavamo l’un l’altro senza sapere da dove cominciare. La madre superiora, allora, ci ha sorriso bonariamente, quindi con un coltello dalla lama tagliente ha inciso le rotondità laterali del rocchetto, trasformandolo in due stelle a otto punte, ha infilato l’elastico in un foro del rocchetto, facendolo fuoriuscire dall’altro e ha fissato alle estremità dell’elastico i due bastoncini di legno, girando con un dito quello più lungo, mentre teneva fermo quello più corto. Poi ha poggiato il rocchetto per terra e questo ha cominciato a muoversi in avanti ora lentamente ora velocemente, a volte fermandosi e ripartendo nervosamente, spesso sbandando a destra e a sinistra, arrestandosi, infine, su due punte di entrambe le stelle.

Uno dopo l’altro noi bambini abbiamo accarezzato il rocchetto, l’abbiamo chiamato Odradek e, con l’aiuto della madre superiora, ne abbiamo fatto uno ciascuno.

Dopo avere detto le preghiere del mattino e della sera, facendo i bravi e con la madre superiora accanto, abbiamo giocato con Odradek un minuto un’ora un giorno un mese un anno due tre…
Odradek andava avanti nel pavimento delle stanze, urtava contro i piedi delle sedie, si fermava, aggirava l’ostacolo, ripartiva, si nascondeva dietro le poltrone e negli angoli bui dove arrivavano lamelle di luce che filtravano dalle fessure delle porte e delle finestre chiuse, saliva sulle ringhiere, scendeva gli scalini rotolando e rimettendosi in piedi, percorreva lunghi corridoi vuoti, arrivava davanti all’altare della Vergine Maria.
E, intanto, perdeva le punte delle sue due stelle, l’elastico si rompeva e si accorciava, i bastoncini si ferivano e si amputavano.
Odradek andò sempre avanti e accompagnò tutta la nostra infanzia, ma un giorno sparì dai nostri giochi, dalle nostre mani, dai nostri occhi: dalla nostra vita.
Assunse una forma strana: dapprima fu sommesso fruscìo di secca foglia che cade dal ramo, spettrale figura senza centro né periferia, orlo di deserto senza piste; dopo fu strùscio della mente, assenza, silenzio.
Infine, oblio?
Odradek è il dono all’infanzia, che non ha giocattoli.
Odradek è il nome, che i bambini danno agli anni in cui si gioca con i bottoni rotti e le strisce di stoffa incolore o dai colori vivaci; e al giocattolo, che costruiscono con le proprie mani e che non costa niente.
Odradek è l’eterna infanzia giocosa, che si lascia accarezzare, ma non irretire del tutto dall’oblio: in qualsiasi spazio, in qualsiasi tempo.
Ma, ora, io non riesco più a raccontare, chiudendo il mio quaderno di scrittura e lasciandomi scivolare sullo schienale della poltroncina a braccioli dello studio.
Essendo entrato in una situazione interiore di stanchezza e di perdita dello spirito, io torno a frugare tra la nebbia dei ricordi: in mezzo a trenini e camioncini di latta, asinelli e cavallucci di legno, pupi bambole e palle di pezza, Odradek, per un attimo, si sottrae all’oblio, facendosi catturare come scarabocchio della memoria e protocollo del nulla.
Simile a lampo di luce, che abbaglia. Nella notte buia.

Antonio Cammarana

Quando la gallina in brodo odorava di cannella.

San Giuseppe Acate
Il giorno di San Giuseppe, quando era piccolo, alle otto del mattino, Ignazio era già fuori dal letto. Lesto lesto si lavava si vestiva e raggiungeva in piazza i musicanti, che controllavano per l’ultima volta i loro strumenti, prima che il maestro li mettesse tutti in fila e desse il colpo di bacchetta per l’inizio della prima marcia: perché, per suonare per le vie del paese, si deve essere tutti ordinati in riga uno davanti e accanto all’altro, come tanti soldatini che debbono sfilare innanzi al loro comandante.
Quando il serpentone musicale si muoveva, Ignazio correva a mettersi dietro l’ultima fila e, con il corpo bandistico, faceva il giro del paese; e vedeva, in una volta sola, tutte le abitazioni e le strade per le quali, nel corso dell’anno, non passava mai: case basse dai muri sbrecciati; stradine mal tenute con tanto di buche nel terreno, ove si formavano pozzanghere d’inverno; cacate di vacca, larghe quanto impanate di pane, che gli spazzini, nel giorno di festa, non eliminavano; galline dentro larghe gabbie di legno, collocate sopra i marciapiedi accanto alle porte di casa; asini muli cavalli legati alla “boccola”. Uno spettacolo, che si ripeté sempre durante l’infanzia e la fanciullezza, che ogni anno rendeva felice Ignazio, perché lo metteva a contatto con la realtà sconosciuta e marginale del paese, ove l’umanità che ci viveva non trovava strano, né incivile essere tutt’uno con l’animale e i suoi escrementi.

Poi, dopo che i musicanti avevano finito di fare il giro del paese, Ignazio andava in piazza a trovare i compagni e, assieme a loro, passeggiava per i vialetti della villa comunale, ai genitori dando a credere di essere in Chiesa, come un ragazzino devoto. Terminata la funzione religiosa, mentre la Chiesa si svuotava e i fedeli affollavano il Corso del paese per fare bella mostra dell’abito nuovo, Ignazio con i compagni si metteva in mezzo a quella piccola folla e ci restava fino al tocco della campana di mezzogiorno.
Quindi il gruppo si scioglieva e Ignazio andava a casa sua, felice, perché sapeva che quel giorno, a tavola, ci sarebbe stata la gallina in brodo, che odorava di cannella: anche sua madre teneva le galline nella gabbia di legno vicino alla porta, ma nella strada parallela alla via principale.
Ora Ignazio non andava più appresso alla banda del paese, perché si era fatto grande e a tavola, a mezzogiorno, non c’era più il brodo, né la gallina che odoravano di cannella. Dacché la madre era morta, la gallina in brodo era diventata soltanto un ricordo del passato, un passato lontano, di quando il paese era ancora piccolo e attorno ad esso vi era il “bosco” e i più piccini giocavano nel tratto di strada di fronte alla propria casa e si viveva tutti raccolti attorno alle piccole cose, che rendevano felici e la felicità costava quattro soldi.

Nel pomeriggio della domenica di San Giuseppe, c’era pure la “cena” e il santo raccoglieva molto in offerte sia in denaro che in natura.
E sotto un sole che, a marzo, non era ancora cocente, Giuseppe Occhipinti, di cui si tace il soprannome passato alla storia, membro della commissione della festa, sopra un palco di legno costruito per l’occasione, levava in alto le offerte al santo e – “Cento lire uno, cento lire due, cento lire tre, aggiudicato! Viva san Giuseppe!” – i paesani portavano a casa ora una torta di ricotta con codette colorate, ora un mazzo di asparagi, ora un canestro di pane casereccio, ora un’altra delle tante diavolerie, che le nonne e le mamme riuscivano sempre ad inventare, per rendere la famiglia più devota al santo e il santo più disposto verso la famiglia: perché quelli erano tempi avari per tutti e il buon cuore generoso, dimostrato verso il santo, che si vede soprattutto quando si vive in ristrettezze, poteva voler dire, per il piccolo proprietario, il miracolo di una buona annata e, per il contadino, molte giornate di lavoro durante l’anno.
Così, una dopo l’altra, le offerte venivano alzate al cielo, ché tutti potessero vederle e ognuno potesse comprare quella che più gli piaceva.
Era un via vai continuo di uomini dalla piazza verso casa con le cose acquistate e dalla casa verso la piazza per le offerte; e la “cena” andava seguita fino all’ultimo, tutti tenendoci a sapere quanto avesse fruttato, perché l’ingenuità popolare era solita collegare il ricavato della cena al rumore e alla quantità di mortaretti, che sarebbero stati fatti esplodere la sera sia all’uscita che al rientro del santo, di fronte alla Chiesa Madre.

Antonio Cammarana

Il narratore porta a consapevolezza
universale i contenuti particolari, che dormono
nella memoria della comunità
A.C.

La figura di Ipazia, la prima donna scienziato assassinata.

Ipazia

All’inizio del terzo millennio 190 Stati membri hanno chiesto all’UNESCO di “creare un progetto internazionale”, che favorisca “piani scientifici al femminile”, per realizzare “un migliore equilibrio nella partecipazione di entrambi i sessi alla scienza e al progresso”. Questo progetto internazionale è stato chiamato dall’UNESCO con il nome di IPAZIA. Ma chi era Ipazia?
Ipazia (370 – 415 d.C.) fu la prima donna scienziato barbaramente assassinata da una turba di monaci fanatici nel marzo del 415 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Per Ipazia, che da sempre rappresenta, secondo Margherita Hack, “il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza”, il prof. Antonio Cammarana ha scritto “Ipazia, fiaccola della conoscenza”.
Fonti antiche – sia di tradizione ellenica, sia di tradizione bizantina, sia di tradizione alessandrina, sia di tradizione cristiana – concordano nel dire che IPAZIA fu donna di rara bellezza, di grande saggezza, di eccezionale intelligenza; che fu astronoma, matematica, filosofa; che realizzò l’astrolabio, l’idroscopio, l’aerometro; che – come leggiamo nella voce biografica della SUDA (o SUIDA, lessico enciclopedico bizantino, secolo X) – fu autrice (anche se delle sue opere non è rimasto nulla) del Commento all’Aritmetica di Diofanto, del Commento alle Coniche di Apollonio di Perga, del Canone Astronomico; che dall’ideale classico dell’educazione acquisì autocontrollo, franchezza, imperturbabilità nell’eloquio, diventando una maestra del modo di vita ellenico (hellenike diagoge), mai in contraddizione violenta con il rispetto delle opinioni altrui, nel quadro di un equilibrato pluralismo, che risaliva alla tradizione dell’antica AGORA’ greca.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nel 370 d.C. Dal padre, il matematico Teone, che curò il Commento all’Almagesto di Claudio Tolomeo e l’edizione degli Elementi di Euclide, fu iniziata agli studi di Matematica e di Filosofia; e, ben presto, più ricco di quello di Teone, si rivelò il di lei pensiero, sul piano filosofico e sul piano scientifico, tanto da diventare la degna erede della sua dottrina e della “Scuola Alessandrina, la più importante comunità scientifica della storia, dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo e tutti i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale” (Petta, 2009).

Ipazia teneva le sue lezioni in sedute pubbliche (DEMOSIA) e insedute private (IDIA). Sedute pubbliche erano quelle legate alla sua pubblica cattedra nella rinata Scuola del “Museo”; sedute private erano quelle che Ipazia teneva nella sua abitazione, situata a non molta distanza dal Centro cittadino, ad una ristretta cerchia di alunni, che facevano parte del suo circolo esoterico – “l’elite dei suoi discepoli” – figli dei rappresentanti sia della classe dominante, sia della classe governativa della città. Oltre ad impartire lezioni pubbliche e lezioni private, Ipazia portava l’insegnamento fuori della scuola, tra la gente, per le strade della città; e indossava il TRIBON (nell’antichità il mantello filosofico tout court); che, in età protobizantina e tardoantica, non era più il mantello di ruvida cappa grezza da portarsi sulla nuda pelle, già comune ai filosofi di varie scuole e agli Spartiati della società spartana, ma una veste ufficiale, protocollare, che ricadeva fino ai piedi (Ronchey 2010).

Una scelta di vita, quella di Ipazia, definita da Luciano Canfora, nella sua “Storia della letteratura greca” (2001), una scelta maschile, di un ruolo tradizionalmente maschile, che si configura come sfida dell’establishment cristiano e radicale rottura della tradizione. Non solo. Ipazia é una donna, che rifiuta di annullarsi ed anzi si mette a fare un mestiere degli uomini (predicare alla gente) pur essendo, appunto in quanto donna, lo strumento del peccato e di perdizione che tanta letteratura patristica ravvisa nel suo sesso. Inoltre Ipazia è accusata dagli ecclesiastici di influire negativamente sul prefetto imperiale Oreste, provocando diffidenza avversione inimicizia nei confronti del vescovo Cirillo.

Cirillo, diventato vescovo di Alessandria (412 d.C.), sa già che la partita per il potere si gioca tra la comunità cristiana, la comunità pagana e la comunità ebraica. Con il pretesto di vendicare un agguato notturno contro i cristiani da parte degli ebrei, il vescovo Cirillo usa i parabolani, monaci dei monti di Nitria (ad Alessandria sono la sua milizia privata) per aizzare il popolo cristiano all’assalto e al saccheggio delle case degli ebrei, i quali, spogliati dei loro beni, sono costretti a lasciare in massa la città. Alla dura protesta mandata a Costantinopoli dal prefetto augustale Oreste, il vescovo risponde con l’assalto al corteo del prefetto, che viene colpito alla testa dal monaco Ammonio, il quale, arrestato, morirà sotto tortura, ma di cui il vescovo tesserà l’elogio funebre, chiamandolo Taumasio, cioè il mirabile, offendendo apertamente il prefetto. Quando si rende conto che l’ala più moderata degli ecclesiastici si schiera dalla parte di Oreste, il vescovo chiede udienza al prefetto, portandogli in dono il libro dei Vangeli, ma Oreste non dà alcun segno di mettere da parte il suo risentimento. Così il contrasto tra il prefetto imperiale e il vescovo continua in modo più esacerbato di prima.

In questo clima di ostilità si colloca l’orribile fine di Ipazia, di cui il mondo tardoantico ci ha lasciato due fondamentali testimonianze: quella dello storico Damascio e quella dello storico Socrate scolastico. Secondo la prima il vescovo Cirillo, esasperato “alla vista dell’enorme folla, che si accalcava davanti alla porta di Ipazia per la SALUTATIO (visita di cortesia, omaggio), tramò la sua uccisione, crimine empio tra tutti i crimini (Canfora, 2001)”. La seconda testimonianza insiste sulla causa politica del crimine, fondata sul convincimento, da parte del clero di Alessandria e del vescovo Cirillo, dell’influenza di Ipazia sul prefetto imperiale d’Egitto, Oreste, e, di conseguenza, sulla persuasione del pericolo da lei rappresentato in una città inquieta e importante come Alessandria” (Canfora, 2001).

La spedizione per eliminare Ipazia è capeggiata da un certo Pietro, lettore della Chiesa di Alessandria. Pietro il lettore e una moltitudine di monaci parabolani aspettano il rientro di Ipazia da una delle sue pubbliche apparizioni; e, quando la donna ferma la sua carrozza davanti alla sua abitazione, la tirano giù in modo violento, la trascinano prima dentro la grande chiesa, chiamata Cesareo, illuminata da centinaia di lampadari a trilumi e dalle torce accese dai
monaci; poi davanti all’altare; quindi le strappano di dosso il mantello, le squarciano la tunica bianca e ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia non viene violentata. Secondo la terminologia pagana, Ipazia è sacrificata.
Secondo la terminologia cristiana, Ipazia è martirizzata.

Se Damascio chiama gli uccisori di Ipazia hoi sphageis, i macellai, gli immolatori, Socrate scolastico e Filostorgio usano il verbo diaspao, fare a brandelli, tecnico per indicare lo smembramento rituale della vittima (Ronchey 2010).

Nella sua “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88)”, lo storico Edward Gibbon afferma che “Ipazia fu disumanamente macellata dalle mani di Pietro il lettore, che le cavò gli occhi; e da quelle di una ciurma di selvaggi e di implacabili fanatici”, che servendosi di cocci taglienti di terracotta, prima le strapparono la pelle e la carne dalle ossa, poi la eviscerarono e la smembrarono, infine bruciarono ciò che rimaneva del suo corpo nel Cinerone della città di Alessandria.

La morte di Ipazia, nel V secolo dopo Cristo, non costituisce la fine di un’epoca, ma come avevano intuito sia Denis Diderot, sia Reneé Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia diventa una fiaccola della conoscenza, la cui luce illuminerà il cammino delle idee di altre donne, di altri uomini; fiaccola che arriverà all’Umanesimo con la centralità della “dignitas hominis” nel mondo; all’Illuminismo con la centralità della “ragione” come guida critica del pensiero e dell’azione dell’uomo; a tutte le altre correnti di opinione, che hanno fatto di Ipazia, come dice Margherita Hack, il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, un’icona della libertà di pensiero.

Antonio Cammarana

Ipazia, fiaccola della conoscenza
All’umanità: In ogni tempo, presso ogni luogo,
il male, anche se orribile, è preferibile subirlo, piuttosto che farlo.

A.C.