Archivi tag: Antonio

I Crimini di guerra americani nei primi giorni dell’operazione Husky. Compendio.

Compendio
Tanti, forti e profondi dovettero essere i sentimenti provati dal nemico invasore, da coloro che difesero la loro terra, e dalla popolazione civile che assistette agli scontri e che ne patì le conseguenze nei primi sei giorni dell’Operazione Husky (“cane da slitta” il nome in codice) nel settore delle truppe del generale George J. Patton (Licata, Gela, Macconi, Ponte Dirillo, Acate, Scoglitti, Vittoria).
Innanzitutto la tensione e la paura generate nell’animo di coloro che vissero l’attesa di entrare in azione in luoghi che non conoscevano o che conoscevano per averli visti soltanto in mappe approssimative e imprecise, fossero essi paracadutisti, soldati di fanteria, di artiglieria o di cavalleria corazzata.
Nel libro di Domenico Anfora e Stefano Pepi, “Obiettivo Biscari, 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’aeroporto 504” (Milano, Mursia, 2013), che il Tenente Colonnello dott. Giovanni Iacono considera “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia” (p.7), leggiamo le parole che descrivono lo stato d’animo dei paracadutisti americani in attesa di lanciarsi nel buio: “Aspettavamo in piedi, le ginocchia che tremavano sotto l’enorme carico, il cuore che martellava contro le costole, i nervi pronti a quel salto nell’oscurità, la mente tesa a tenere lontano ogni funesto pensiero” (Idem, p.43).
E possiamo soltanto immaginare con quanto stress si conviva scendendo dall’alto con il paracadute, per la prima volta in una zona di guerra, vedendo i compagni che stanno vicino colpiti in aria prima di prendere terra o catturati subito dopo aver preso contatto con il terreno o rompersi gli arti o la schiena nell’atterraggio o rimanere per lungo tempo isolati o in piccoli gruppi in un luogo sconosciuto, lontani dall’obiettivo e con il solo pensiero di congiungersi agli altri prima di incappare in una pattuglia nemica.
Sentimenti non dissimili a quelli dei paracadutisti vivono una parte degli uomini della “Thunderbirds”, la 45a Divisione di fanteria americana, che si trova su una nave in avvicinamento alla costa tra Scoglitti e Capo Sgalambro, in attesa di ricevere l’ordine di sbarcare: “I giovani e inesperti soldati dello zio Sam, quasi tutti coscritti, nell’oscurità inciampavano e imprecavano, mentre tastoni cercavano il corrimano e dondolavano abbrancati alle scale a corda sui fianchi delle navi beccheggianti nel mare mosso. Alcuni caddero mentre tentavano di scendere, infortunandosi seriamente. Un fante annegò”. (p. 66).
E ancora al largo di Capo Sgalambro e di Punta Braccetto, “sui mezzi da sbarco che giravano a cerchio a causa del mare grosso” (p.69) e “con la paura che oscurava la ragione e per la nausea” (Ibidem), le stesse emozioni vivevano i fanti che “vomitavano, pregavano e imprecavano, e vomitavano ancora” (Ibidem). E solo quando cominciò “il fuoco di sbarramento della flotta americana verso la costa siciliana, illuminandola al ritmo delle cannonate”(Ibidem), quei
soldati dimenticarono la nausea e “guardarono quelle scie di fuoco e quelle esplosioni con gli occhi sgranati e le dita nelle orecchie”(Ibidem).
Dal momento dello sbarco cominciarono a susseguirsi le esecuzioni sommarie di prigionieri militari disarmati e di civili inermi.
Le truppe americane della Cp “I” del 3°/505° , venute a contatto con il nemico, non avevano motivi validi per fucilare, o meglio per assassinare, i carabinieri che difendevano Passo di Piazza e che si arresero, dopo gli interventi dei cannoni navali della Marina Statunitense.
“In località Passo di Piazza, a Nord del Biviere e a Ovest del Ponte sul Dirillo, a presidio della linea ferroviaria, c’era un posto fisso dei Carabinieri forte di 15 uomini al comando del Vicebrigadiere Carmelo Pancucci. Il carabiniere Antonio Cianci, ventunenne di Stornara (FG), vedendo in avvicinamento un gruppo di soldati sconosciuti, fece fuoco abbattendone uno. Iniziò un conflitto a fuoco tra i carabinieri, armati di soli moschetti e asserragliati nella casa rurale, utilizzata come Caserma, e i paracadutisti americani che la circondavano.
L’intervento dei cannoni navali americani convinse il vicebrigadiere ad alzare bandiera bianca. Nel frattempo erano morti quattro carabinieri. I dodici, che si erano arresi, furono messi al muro e sottoposti a raffiche di mitra, che provocarono la morte di altri quattro militari italiani e il ferimento di uno. I sopravvissuti, tra i quali Pancucci e Cianci furono deportati in Algeria. Gli aggressori appartenevano probabilmente alla Cp “I”, lanciatasi sulla vicina contrada di Piano Lupo”(p.46).
Lo stress emotivo, il non potere dormire, la collera incontrollata causata dalla morte in combattimento dei compagni del Combact Team, una notte intera trascorsa dentro una trincea; l’assunzione di benzedrina “sia per attenuare i malori causati dalla terribile tempesta che aveva investito il Canale di Sicilia, sia per animare i soldati al loro battesimo del fuoco” (p.191); le parole del Generale Patton che incitano a non fare prigionieri, anzi a uccidere ( ” Kill, kill and kill some more”: “Uccidi, uccidi e uccidi ancora”) quelli che egli chiamava, con parole rimaste tristemente famose nella storia dell’esercito statunitense, “Beach of songs”, “Figli di puttana”, sono alla base di un altro aberrante crimine di guerra compiuto dal sergente Horace West . Il “sottoufficiale ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie, perché fossero interrogati dal Servizio Informazioni S-2 del reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati.
Spiegando che avrebbe ucciso quei figli di puttana, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani” (Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia, Milano, Mondadori, 1990, p. 255).
Ancora un altro crimine di guerra si consumava nello stesso giorno dagli “uomini della Cp “C” agli ordini del Capitano Jhon T. Compton”, che, “incontrando una dura resistenza nel settore Est dell’Aeroporto di Biscari, adirati per le perdite subite, fucilarono i 36 militari italiani catturati” (Anfora-Pepi, op. cit., p.185).
Il capitano Compton, “imputato di 36 omicidi, non cercò scuse”, dicendo, “davanti alla Corte Marziale”, che aveva obbedito all’ordine di Patton: “Giusto o sbagliato, l’ordine di un Generale a tre stelle, con una esperienza di combattimento, mi basta. Io l’ho eseguito alla lettera” (Idem, p.191).
“Ripugnante” è l’aggettivo di cui Carlo D’Este si serve per condannare ciò che definisce come “il primo incidente” dell’Operazione Husky, in realtà si tratta di due aberranti crimini di guerra compiuti da un ufficiale ( il Capitano Jhon T. Compton) e da un sottoufficiale (il sergente Horace West) del 180° reggimento della 45aDivisione di fanteria Thunderbird dell’Esercito degli Stati Uniti.
Questi crimini di guerra furono incoraggiati anche dalla “voce”, che circolava tra le truppe di terra della 45° Divisione, quando, nell’area compresa tra Acate, Santo Pietro e Piano Stella, si rinvennero a decine i corpi senza vita dei paracadutisti americani che si trovavano a bordo dei 23 Dakota abbattuti per errore dal fuoco amico della flotta.
La “voce” diceva che “gli italiani avessero aperto il fuoco sui parà prima di toccare terra, violando la Convenzione di Ginevra, o che addirittura avessero giustiziato anche quelli che si erano arresi. Queste voci, del tutto infondate, incoraggiarono comportamenti vessatori o addirittura criminali contro i prigionieri italiani” (Andrea Augello, Uccidi gli Italiani, Milano, Mursia, 2009, p.108 ).
Se si è riusciti a fare luce su questi avvenimenti lo si deve anche al prof. Vincenzo Castaldi di Varese, Docente di Storia e Filosofia, il quale “il 29 gennaio del lontano 1995” inviò “un esposto al Procuratore della Repubblica di Ragusa (copia del quale invierà successivamente anche al giornalista della Gazzetta del Sud Salvatore Cultraro per conoscenza), denunciando un eccidio avvenuto il 14 luglio del 1943 nei pressi dell’Aeroporto di Biscari” (Salvatore Cultraro, I ricercatori ignorati. I meriti del prof. Vincenzo Castaldi, Archivio AcateWeb, 15-11-2013 ).
In verità i crimini di guerra compiuti dal Capitano Compton e dal Sergente West non saranno i soli crimini dei primi sei giorni dell’Operazione Husky.
Mentre rileggo il volume ” Obiettivo Biscari” continua a colpirmi la ricchezza di particolari con cui gli autori hanno ricostruito la fine di Giuseppe Mangano, insegnante elementare e podestà di Acate, di suo figlio Valerio, e la scomparsa di Ernesto Mangano, Tenente del Regio Esercito Italiano, a Vittoria, cittadina della Provincia di Ragusa. E non tanto per una ideale consonanza giovanile di fede politica con l’ideologia del fascismo, che l’inesorabile falce del tempo ha reciso anche con il contributo non indifferente dei figli della Fiamma Tricolore che lasciarono la scomoda “casa (ghibellina) del padre” per la comoda “casa ( guelfa) del potere”; quanto piuttosto per le vili e non documentate parole raccattate in chissà quale sentina da coloro che usurpano il nome di storici.
Fucilato Giuseppe Mangano, assassinato con un colpo di baionetta alla guancia Valerio Mangano, scomparso senza lasciare traccia Ernesto Mangano, “emerge così un’altra storia dei ragazzi Yankee in divisa, da un lato alta e nobile, scritta da combattenti tenaci, generosi e pronti al sacrificio, dall’altra inaccettabile, imperscrutabile, fatta di eccidi di prigionieri inermi, di civili innocenti, di presunti e reali fascisti” (Andrea Augello, op. cit., p.13).
Un’altra storia che è ancora la storia dell’eccidio di Piano Stella del 13 luglio 1943, ricostruita da Gianfranco Ciriacono ne “Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella”( Coop. C.D.B. Ragusa 2003).
E’ ancora la storia del massacro dell’Aeroporto di Comiso. Secondo il giornalista inglese Alexander Clifford, testimone dell’episodio, sessanta soldati italiani e cinquanta soldati tedeschi, “catturati in prima linea, furono fatti scendere dai camion e massacrati con una mitragliatrice” (Anfora- Pepi, op. cit., p.147); secondo la versione americana, “un agente della Military Police della 45a, caricando su un camion un gruppo di prigionieri tedeschi per trasferirli dal fronte al campo di prigionia nelle retrovie, scoprì che nei camion in dotazione avrebbe potuto trasportare solo 200 dei 235 prigionieri nemici. Così egli allineò i 35 prigionieri in eccesso e li falciò con il suo mitra” ( Ibidem).
Se ciò che abbiamo scritto non è stato un inutile esercizio storico-linguistico, prende corpo la tesi che i giorni dal 9 al 14 luglio 1943 rimarranno nella memoria perché rappresentano “l’unico momento in cui gli Italo-Tedeschi rischiarono di vincere, contro ogni logica ed ogni possibile pronostico, come qualche rara volta accade sui campi di battaglia di ogni tempo” (Andrea Augello, op. cit., p.10); e perché vi vengono consumati diversi crimini di guerra, come conseguenza di un deragliamento della ragione, da parte di parecchi fanti americani della 45aDivisione, i quali considerarono il nemico vinto e arresosi non come prigioniero di guerra, ma come “figlio di puttana” da ammazzare, o per una personale e distorta interpretazione del discorso del Generale George J. Patton pronunciato alle truppe prima dello sbarco in Sicilia, o per una criminale ed efferata vendetta per la morte dei compagni caduti negli scontri a fuoco con i soldati italiani e tedeschi.

Antonio Cammarana

“Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”. Inaugurata un’importante mostra ad Acate

Letizia Zaffarana
Inaugurata dal vice sindaco Letizia Zaffarana, alla presenza di un discreto numero di appassionati d’arte, nel castello dei Principi di Biscari, la mostra intitolata “Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”, inserita nel programma del “Settembre a Biscari 2013”. Al tavolo dei lavori Giovanni Bosco di Vittoria, titolare della galleria polifunzionale “Edoné”, che ha sottolineato che la mostra ha come obiettivo di promuovere l’arte nel territorio siciliano e favorire così l’approccio all’arte pittorica, l’assessore alla Cultura, Luigi Denaro, promotore dell’interessante iniziativa culturale, che ha ringraziato i pittori, i relatori e il comitato organizzatore e spiegato le tappe che hanno reso possibile l’evento, lo storico Antonio Cammarana, la scrittrice Maria Teresa Carrubba (pubblichiamo le due relazioni), il critico d’arte Alfredo Campo, che ha presentato i pittori e si è soffermato sul significato delle opere, il vice sindaco Letizia Zaffarana e il presidente del Consiglio comunale, Isaura Amatucci, che hanno messo in evidenza che la straordinaria mostra dà spessore alla cultura e pregio ad Acate.

innaugurazione mostra arte acate
Il prof. Giovanni Lantino ha coordinato i lavori. Il percorso artistico della mostra comprende il Futurismo, il Pixeling, l’Arte Figurativa, la Transavaguardia, l’Arte Informale, l’Arte Povera e lo Spazialismo con le opere di Lucio Fontana, Piero Dorazio, Antonio Corpora, Mino Maccaniri, Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Alberto Sughi, Remo Vespignani, Giuseppe Migneco, Renato Guttuso, Michelangelo Pistoletto, Emilio Vedova, Giulio Turcato, Mauro Reggiani, Mario Schifano, Franco Angeli, Ugo Nespolo, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Mimmo Germanà, Tano Festa, Felice Casorati, Fausto Pirandello, Antonio Bueno, Fiorenzo Tomea, Antonio Nunziante, Fabrizio Clerici, Jean Calogero, Giulio D’Anna, Pippo Rizzo, Fortunato Depero, Marianna Sallemi, Federica Meli e degli artisti iblei Arturo Barbante, Vincenzo Napolitano, Maurizio Cugnata, Francesco Iacono e Gino Baglieri. Le numerose opere della mostra potranno essere visitate dal 4 al 13 ottobre, dalle ore 18 alle ore 22 nei giorni feriali, e dalle ore 10 alle 12,30 e dalle 16 alle 22 nel giorno di domenica.

Redazione (Acateweb)

Il Novecento: un itinerario storico, di Antonio Cammarana

Non è semplice indicare sinteticamente i tratti dominanti ed essenziali del Novecento, anche perché parliamo di una Storia non completamente sistematizzata e ancora soggetta ad una pluralità di contrastanti interpretazioni.
Alcuni storici definiscono il Novecento “secolo delle ideologie”, altri “secolo delle avanguardie”, altri ancora “secolo della tecnologia”. Definizioni che, assieme alle altre, confluiscono, secondo me, nella rappresentazione del Novecento come Apogeo e Simbolo della Modernità.
Antonio Cammarana innaugurazione mostra arte acate
Il Novecento si apre con “un segnale telegrafico, la lettera S, tre punti nell’Alfabeto Morse”, che, per la prima volta, ad opera dello scienziato italiano Guglielmo Marconi, attraversa l’Oceano, “viaggiando nell’etere, e non lungo un cavo sottomarino, alla velocità
di 300.000 chilometri al secondo, cioè alla velocità della luce”, gettando le basi per la grande rivoluzione delle comunicazioni transatlantiche a beneficio dell’Umanità, tanto da meritarsi nel 1909 il Premio Nobel per la Fisica.
Si afferma il fascino della velocità, di cui è simbolo l’automobile, che è venuto ad appagare il bisogno di emozione, di avventura, di rischio, secondo il proclama del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, apparso a Parigi nel 1909 nel quotidiano “Le Figaro”.
Dal nuovo mondo arriva una grande forma artistica d’Avanguardia, il Cinema, considerato “la decima Musa, che, a differenza delle sue sorelle della mitologia greca, non abita sul monte Elicona, ma in un regno tutto suo, chiamato Hollywood”, la cui figura più grande è quella di Charlie Chaplin, che ci darà due pellicole di rara bellezza: “Tempi moderni” nel 1936 e il “Grande Dittatore” nel 1940.
Nel 1914 e nel 1939 l’Europa precipita, per ben due volte, nella catastrofe della guerra, che vede prima una Germania guglielmina e imperiale, poi una Germania hitleriana e nazionalsocialista impegnata in quello che è stato chiamato “l’Assalto al potere mondiale”( Fritz Fischer,1961).
Sia nella prima come nella seconda guerra mondiale, l’umanità è stata vicinissima alla distruzione universale, ha visto i campi di sterminio e l’Olocausto, la figura più tragica inquietante e criminale del Novecento, portando milioni di esseri umani ad affermare: “Ad Auschwitz Dio non c’era!”.
Ad Auschwitz Dio non c’era, ma non c’era nemmeno ad Hiroshima e a Nagashaki, soprattutto non c’era nella mente di quei fisici nucleari americani che, a Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico, guidati dal fisico Robert Hoppenheimer, direttore dei laboratori atomici, fecero la bomba atomica e la consegnarono al Presidente americano Truman per scopi militari.
Leonardo Sciascia, nel saggio “La scomparsa di Majorana”, afferma che si comportarono da uomini liberi, e furono uomini liberi, gli scienziati tedeschi che con Werner Heisemberg non fecero l’atomica, perché ne intravidero gli effetti catastrofici per l’umanità e
ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia. E, secondo me, furono filosofi, filosofi della vita, anziché essere scienziati, scienziati della morte.
Si comportarono da schiavi, e furono schiavi, gli scienziati americani che proposero l’atomica, vi lavorarono, la consegnarono al Presidente Truman, che ordinò di farla cadere in due città del Giappone accuratamente e scientificamente scelte per poterne valutare gli effetti distruttivi: “che l’obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse un’alta percentuale di edifici in legno; che non avesse, fino a quel momento, subito bombardamenti, in modo da potere accertare con la massima precisione gli effetti di quello che sarebbe stato l’unico e il definitivo”.
Nel 1941, Renato Guttuso, pittore dal forte impegno sociale, dipinge “Crocifissione”, in cui rappresenta, non solo la crocifissione di Cristo, ma la crocifissione di tutta l’umanità, resa martire dalla guerra.
L'”Osservatore romano” e il Vaticano considerano Renato Guttuso “pictor diabolicus” (pittore diabolico, pittore del diavolo) e condannano il dipinto giudicandolo eretico soprattutto per la presenza della figura della Maddalena nuda e lo propongono per la messa all’Indice dei Libri e delle Opere proibite dal Tribunale del Sant’Uffizio.
Nel 1945 l’umanità si salva dalla rovina della guerra, ma assiste impotente, alla divisione del mondo nei due blocchi contrapposti del Capitalismo e del Comunismo e al sorgere di quella realtà, che è stata chiamata “la guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica: uno “status” di forte competizione e confronto tra le più grandi nazioni del mondo che si scontrano, si attaccano, si danneggiano con ogni mezzo, politico economico propagandistico, escluso il mezzo militare.
Nel 1947 l’India, la “perla dell’Impero britannico”, ottiene l’Indipendenza dal dominio coloniale inglese, sotto la guida spirituale di Gandhi, chiamato il Mahatma, la “grande anima”, che propugna i grandi temi della non violenza e del pacifismo.
A Gandhi si ispira Martin Luther King, il “redentore dalla faccia nera”, per l’affermazione della parità dei diritti civili tra Bianchi e Neri negli Stati Uniti. Indimenticabile il suo discorso più famoso pronunciato nel 1963 al Lincoln Memorial di Washington, che incomincia con le parole ” I have a dream” -“Io ho un sogno: che un giorno questa Nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Nel 1964 gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace.
A Ghandi si ispira anche Nelson Mandela, uno dei più prestigiosi uomini politici africani, guadagnandosi, nel 1993, il Premio Nobel per la Pace per aver posto fine all’odioso regime dell’Apartheid, nel Sudafrica.
“Nel 1955 si ebbe la conferma che un nuovo mondo – il Terzo Mondo – era nato e si poneva come Terza Grande Forza accanto al blocco statunitense e al blocco sovietico.
I rappresentanti di 29 Paesi africani e asiatici, che avevano ottenuto l’Indipendenza, si incontrarono a Bandung, in Indonesia, e proclamarono la fine di ogni forma di colonialismo, dell’arretratezza e del sottosviluppo, soprattutto il rifiuto di schierarsi con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica. Nascevano in questo modo, i Paesi Non Allineati”.
Nel 1963 muore Giovanni XXIII, “il Papa buono”, il Papa che, con il suo linguaggio semplice e diretto, si era rivolto a tutti gli uomini di buona volontà e aveva affermato la centralità dell’uomo nel mondo: “Ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e doveri che sono universali, inviolabili, ineliminabili”.
Nella seconda metà del Novecento vive combatte e muore Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come Che Guevara, o semplicemente il Che. Diventato per milioni di intellettuali di studenti di lavoratori il Mito per eccellenza della difesa dei poveri e degli oppressi, della rivoluzione e della guerriglia del XX secolo, davanti al quale si inchinano tutti coloro che hanno vissuto, di persona e non a parole, la” Battaglia delle idee”, nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, nelle Università, in tutti i luoghi di lavoro.
Nel 1968 dai Campus delle Università americane arriva in Europa e in Italia il “Vento della contestazione”, che sfocia nell’occupazione delle facoltà universitarie da parte degli studenti in lotta, che rifiutano di subire le varie forme del potere come dominio di pochi privilegiati, concetto sintetizzato dal “Time” con queste parole:” Il rasoio che ha separato per sempre il passato dal presente”.
Tutti i partiti politici – dalla Destra alla Sinistra – furono colti di sorpresa, nessun partito politico – dalla Destra alla Sinistra – capì che cosa spingeva un’intera generazione di studenti universitari e degli istituti superiori a mettere a rischio il loro futuro e la loro incolumità personale.
Mentre continua, negli Anni Ottanta, la contrapposizione tra le due Superpotenze si afferma, in ogni campo, “anche in quelli che nulla hanno a che fare con le Arti”, il Postmoderno, non tanto come nuovo movimento quanto come negazione di tutti i principi, i valori, i giudizi, che erano stati propri del Moderno, avendo in comune uno  Scetticismo Essenziale, un Relativismo Radicale, un Nichilismo Assoluto, che erano stati portati avanti soprattutto da Federico Nietzsche e da Martin Heidegger.
Alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, alla riunificazione della Germania, alla dissoluzione del Comunismo in Unione Sovietica e nei Paesi del Patto di Varsavia, alla fine della “guerra fredda” hanno contribuito in modo determinante Michail Gorbaciov e Papa Giovanni Paolo II. L’uno propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka (rinnovamento) e alla Glasnost (trasparenza); l’altro, gigante della Chiesa Cattolica, con la sua instancabile azione politica e diplomatica, in campo internazionale. Questi grandi avvenimenti di fine secolo hanno dato agli Stati Uniti, per almeno un decennio, la coscienza di potere essere, nel campo militare, “l’Impero planetario”; primato che, sul piano economico, è stato messo in discussione dall’irruzione, nei mercati internazionali, della Cina e dell’India, che contano la metà della popolazione mondiale. Anche se la scienza e la tecnica ci hanno fatto guardare la terra dalla luna, si continua a non accorgersi delle sofferenze fisiche e spirituali di tanta parte dell’umanità, che, per tutta la sua lunga vita, ha cercato di alleviare quella che è considerata l’EMBLEMA del secolo che si è chiuso: Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace nel 1979, che, dall’alto della sua grandezza, ha voluto considerarsi sempre una PICCOLA MATITA nelle mani di Dio.
Sembra ieri, invece sono passati anni, decenni dall’inizio del Novecento, secolo di guerre, di distruzioni, di olocausti, come pure d’invenzioni, di conquiste, di risorse; secolo che si è chiuso lasciando aperti tanti problemi, che rimarranno sempre irrisolti se si continuerà ad ignorare che tutto nel mondo parte dall’uomo, fa riferimento all’uomo, ritorna all’uomo in modo positivo o negativo, nel bene o nel male.

Antonio Cammarana

____________________________________________

IL XX SECOLO nell’arte, di Maria Teresa Carrubba

Prima di ammirare i dipinti di questo meraviglioso percorso artistico ritengo sia necessario e indispensabile conoscere tutto ciò a cui i loro autori si sono ispirati. A volte ci si chiede cosa si può trovare di interessante nelle opere d’arte di questo magnifico itinerario oltre al bello artistico?
Vi si trova la storia, la vita, i sentimenti dell’uomo, dell’artista che vive il suo tempo. Vi si trova la giusta dose di ironia intelligente che sorregge il tema dei quadri, capace di congelare in una sola immagine LE NOTIZIE DELLE QUOTIDIANITA’.
Si raccontano attraverso la pittura le tappe fondamentali del cammino dell’umanità in un secolo, il novecento, fatto di contraddizioni e perciò complesso e tanto articolato.

teresa carrubba innaugurazione mostra arte acate
Il sogno dell’Italia unita, la pace rincorsa da una grande schiera di uomini travagliati da una crisi profonda, fu un miraggio per chi visse in un secolo segnato da due guerre, e avvertì dentro di se forte il peso di una società ingiusta e crudele.
La condizione dell’individuo sviluppò una coscienza che dava l’amara constatazione dell’assurdità della vita e dell’impossibilità di cambiarla. Spesso non vi si riusciva a trovare la connessione di una vita sociale, della comunicazione con gli altri; contemporaneamente si avvertiva l’impossibilità di sfuggire alle convenzioni, in quanto fuori da esse la vita diventava impossibile.
L’uomo comune, ma anche e ancor più l’intellettuale e l’artista, si sentiva assalito da sentimenti contrastanti, a volte avvertiva l’instabilità della propria condizione, a volte alimentava la voglia di esaltare quotidianamente la vita, a volte diffondeva nella coscienza il sapore amaro della solitudine e dell’alienazione. Essi, tutti quanti, subivano fatalmente la realtà, ma ognuno da quella realtà traeva fuori una sua verità, del tutto soggettiva e quindi diversa da quella degli altri. Molti, come i futuristi, maturarono una coscienza ribelle, un’esasperazione dell’animo, provocate da un forte senso di delusione che serpeggiò e dilagò rapidamente.
Ci si sentiva proiettati in situazioni nelle quali la linea di confine tra il sacrificio e la crudeltà era sottilissima. Posto ogni momento davanti alla necessità di dover scegliere se subire la morte o procurarla, l’uomo avvertì l’incertezza del proprio destino. La coscienza appariva insofferente a lasciarsi sottomettere da qualsiasi schema razionale, appariva angosciata e rifiutava la vita così come gli si prospettava. Per venire fuori da questo stato di cose, alcuni decisero di prendere in mano la propria sorte, di vivere fuori dalla banalità della vita comune, come gli esistenzialisti. Si andò spesso alla ricerca di una propria verità da trovare in se stesso, legata alla propria vita in particolare. Vi furono anche quelli che rivendicavano una vita fortemente individualista, rifugiandosi magari nella natura che offriva quiete e tranquillità, ritenuta l’unica capace di rasserenare gli animi angosciati.
Tra l’artista e la natura si stabiliva talvolta un’intesa perfetta, perché dal contatto e dall’osservazione di essa si traeva l’ispirazione per rappresentarla. Ma l’arte del novecento non consisteva in questo o quel tema, non aveva un motivo dominante come quella del secolo precedente, essa stava in una contrapposizione di temi, in un mobile gioco in cui la caratteristica era l’instabilità di ogni singola unità e la somma di tanti motivi. Accanto alla perpetua ricerca di un riparo riaffiorava sempre l’aspirazione all’eterna evasione da esso, al desiderio di spazi limitati e quieti si contrapponeva l’improvvisa nostalgia di vasti e diversi orizzonti, alla ricerca del tempo perduto faceva da contrasto l’infanzia ritrovata, il desiderio di una vita reale. In questa mobilissima concatenazione di contrasti, dal rifugio all’evasione, è da cercare forse l’autenticità di quest’arte fatta appunto da un continuo passaggio di temi. La maggior parte degli artisti nascevano da una crisi che portava a vedere il mondo senza significato, la loro arte manifestava una negazione estrema, un’ estrema decisione che riempiva di significato metafisico i particolari più semplici e comuni come la rappresentazione di povere creature o grandi simboli o immagini scarne e immediate, colte isolatamente. All’arte del XX° secolo si chiedeva tutto: ragioni di vita e di fede, dimenticanza e consolazione, l’orgoglio di stare solo e la forza di amare, la fiducia nell’azione al di là di ogni limite, lasciando aperto all’ispirazione tutto il sentire dell’animo.
Contro la vanità del mondo restava l’esaltazione dell’arte, ed ecco che lo scacco, il limite umano veniva esteso a tutto fuorché all’arte. Sosteneva D’Annunzio “Il mondo non è del vano conquistatore, ma dell’artefice solitario, il mondo non fu creato se non per essere convertito dall’arte in forme sovrane e immortali”. E poi accanto alla storia che faceva il suo corso camminavano gli uomini del secondo novecento, arrivarono gli anni sessanta carichi di ventate rivoluzionarie, del pluralismo, delle grandi svolte. Gli anni degli intrecci tra gli Stati Uniti, i poteri locali. Il tempo triste e buio della guerra era ormai lontano, ma c’era ancora chi nascondeva i suoi pensieri, i suoi segreti nel dipingere. La luce delle opere create, ancora il loro valore artistico rivelava la realtà interiore vissuta e rivissuta intensamente, ancora si metteva in luce nei volti dipinti la realtà di tutti i giorni, ma anche la dolcezza del temperamento.
L’artista della seconda metà del secolo in questione era antieroe per eccellenza, sempre povero, ma carico di ideali. In questo contesto incontriamo i “quattro grandi siciliani”, Guttuso, Fiume, Mignego e Caruso. Gli italiani vanno dove li porta il loro realismo, e i siciliani tanto di più, unici nella loro insularità psicologica prima che geografica. La loro arte è fatta di volti scomposti, patetici, sereni. Alcuni sono riflessivi, altri concettuali, immagini esilaranti, in cui vi si può leggere anche la follia quasi ordinaria della vita nei manicomi.
Sono tesori, un vero e proprio viaggio nel mondo e nella società di cui sono il frutto, sono esigenza di tutte le persone che vivono in un tessuto sociale come il nostro appunto che fa parte di un popolo la cui storia è così antica, così bella, ma anche dolorosa. L’arte dunque come medicina che curi l’apatia dell’uomo vittima della politica e dei fatti storici. Un’arte che fa riflettere e lascia in bocca un retrogusto persistente, il retrogusto della verità.

Maria Teresa Carrubba

Ignazio Biscari

Ignazio Biscari
Avevo preso a frequentare una bottega di libri rari dal giorno in cui avevo visto il nome e il cognome di Gesualdo Bufalino, scrittore di Comiso e mio professore d’Italiano all’Istituto Magistrale ” Giuseppe Mazzini” di Vittoria nella seconda metà del XX secolo, guardando per caso dei bigliettini da visita, sparsi dentro una scatola rettangolare di legno, in parte scheggiata da colpetti di unghie non sempre innocue, in parte cenericciata da migliaia d’impronte di polpastrelli dalla dubbia lindura e che, orgogliosa delle sue ferite e del suo grigiume, stava posta al centro di un vetusto scagno.
Così puntualmente il martedì e il giovedì, alle undici, dopo le prime due ore d’insegnamento a scuola, passavo dall’antiquario per scambiare quattro chiacchiere e avere suggerimenti da intenditore per l’acquisto di qualche testo che mi avrebbe potuto interessare, ma soprattutto per gettare uno sguardo all’ingresso della bottega –con quel misto di attrazione e di paura, che, in determinati momenti della vita, è il preludio di grandi sventure– su un segnalibro gigante di sapore kafkiano in cartone bianco, raffigurante un uomo che strozzava con le sue mani quello che a me parve sempre essere un nero avvoltoio, a cui seguiva, nello spazio sottostante, la scritta “Libreria antiquaria Giancarlo Gatto succ. Berruto”- 10123 Torino, via S. Francesco da Paola 10 Bis, tel. 011836636, e che si concludeva con l’invitante e ardimentosa frase “Si acquistano Libri e Intere Biblioteche”.
La mia visita al “Gatto succ. Berruto” era diventata tanto un’abitudine che, in quei due giorni della settimana, io non riuscivo ad andare alla Biblioteca Nazionale di Piazza Carlo Alberto, dirimpettaia del Sardo-Piemontese Palazzo Carignano, se prima non avessi fatto questa tappa di cultura antiquaria, immancabilmente salutato dal sempre più spaventevole e ripugnante segnalibro gigante con l’uomo che strangolava l’avvoltoio nero.
Di tanto in tanto acquistavo un libro, sia perché avevo un reale bisogno per il mio lavoro d’insegnante e di ricercatore, sia perché il suo formato e la sua copertina suscitavano il mio interesse, sia perché potevo continuare a sfogliare, senza stare sullo stomaco del libraio, vecchi volumi le cui pagine ingiallite e imperlate di verdastre chiazze di muffa portavano evidenti segni delle stagioni passate.
Io notai un giorno, all’interno della bottega, un anziano signore, il cui viso, somigliantissimo al mio, mi ricordò subito un uomo che io incontravo ogni mattina quando andavo a prendere il tram per recarmi a scuola o nel primo pomeriggio, ritornando a casa, e che io avevo preso a ritenere il mio Doppio.
La mia sede di lavoro era in provincia, a Carmagnola. Io facevo sempre la stessa strada, prendevo il medesimo tram, salivo persino sull’identico treno. Non ho mai chiesto il trasferimento a Torino, perché mi trovavo a mio agio con gli alunni e in esaltante contrapposizione ideologico-politica con i colleghi, vecchi tromboni del ’68, e perché il viaggio in treno mi permetteva di leggere di riflettere di scrivere. E, poi, in fondo, tornavo a ripetere le stesse cose, non disdegnando di considerarmi “un pigro freudiano”, avendo fatto mio uno dei principi fondamentali della psicoanalisi: “ricercare soltanto ciò che porta piacere ed eliminare ciò che comporta dolore”.
I titoli dei libri da scorrere con l’occhio negli scaffali mi distrassero dall’osservare l’uomo che mi assomigliava tantissimo e che io non vidi più nella libreria, dopo che mi rivolsi all’antiquario per pagare, secondo me a buon prezzo, un testo, che ritenevo ancora valido sulle “Epopee” degli antichi popoli europei, su cui da tempo avevo soffermato la mia attenzione.
Mi diressi, quindi, alla Biblioteca Nazionale, compilai la carta d’entrata 0949 e andai ad occupare uno dei tavoli della sala di lettura. Io cercavo di fare, senza peraltro riuscirci, qualche scarabocchio su dei fogli, dove brevi ma numerose linee d’appunti letterari contendevano un dito di spazio a veloci e scarni giudizi globali sui miei alunni, quando l’uomo, che credevo il mio Doppio e che avevo visto, non molto tempo prima, nella bottega del “Gatto antiquario”, venne a sedersi proprio di fronte a me. Tirò fuori dalla sua borsa dei libri che sistemò alla sua sinistra, poi dei quaderni certamente di non antica data, perché, se il loro bordo era di un rosso stantio, le loro copertine erano invece di un nero zigrinato ancora ardito. E cominciò a sfogliarli.
Chiunque avesse sbirciato da lontano quest’uomo, che aveva un’aria strana inconsueta, avrebbe pensato subito che fosse sprofondato nella lettura, ma io che sedevo proprio davanti a lui mi resi conto che girava stancamente le pagine dei suoi quaderni, dopo averle soltanto fissate distrattamente. Notavo nel suo volto malinconia delusione sconforto, come se le parole scritte su quei fogli, che non mostravano ancora i segni del tempo, fossero il risultato di un lavoro rivelatosi, alla fine, non solo inefficace, ma anche inutile.
Pure io avevo sfogliato le pagine dei miei quaderni a quel modo, chiedendomi spesso se mai avessero potuto diventare pagine di libri. La mia iniziale indifferenza nei confronti del mio Doppio diventò dapprima turbamento, poi commozione, ragion per cui decisi di rivolgergli la parola: “Sono seduto, forse, di fronte a uno scrittore?” Il mio Doppio sollevò lo sguardo, che teneva sopra i quaderni, e, come se rientrasse nella realtà quotidiana da un metafisico mondo iperuranio, mi diede una occhiata insocievole, che manifestava lo stupore e il fastidio di colui che aveva dovuto interrompere una fantastica navigazione ad occhi aperti.
“Ho chiesto se lei è uno scrittore”- ripetei con un filo di voce.
Ancora a disagio nel suo impacciato imbarazzo, il mio Doppio riuscì a dire soltanto: “Uno scrittore? No, sono semplicemente uno che scrive, uno che ha scritto tanto”.
Per cercare di farlo uscire definitivamente dal suo intorpidimento mentale, velato ora di amarezza, ora di abbattimento profondo, che lui non faceva niente per nascondere agli occhi di chi lo osservasse, continuai: “Non ha mai pensato di pubblicare le sue pagine?”.
Mi parve che il mio Doppio, in un primo momento, cercasse di prendere una posizione più comoda, nella sedia che occupava, in realtà si lasciava scivolare all’indietro lentamente e, nel suo volto, c’era dipinta una pensierosa espressione di reale mestizia.
Io dissi ancora: “Ho proferito qualche parola di troppo? L’ho forse turbata?”.
Lasciando gradualmente la coda di quello che era ormai soltanto un impacciato imbarazzo, il mio Doppio riprese: “Sono sulla soglia dei settant’anni. Credo di aver vissuto la mia vita in modo unico, irripetibile. Leggendo le pagine di centinaia di libri di giornali di riviste, osservando le azioni degli uomini e su di esse riflettendo, ho creato una prosa che ritengo originale, ma non interessante per il mercato editoriale: una prosa debole, in cui si muovono personaggi deboli, che affermano una filosofia debole della vita e del mondo. Ma non è detto che i miei concetti inediti esprimano contenuti meno validi di quegli degli autori di successo. E’ stata certamente la lettura poco meditata delle pagine da me scritte, da parte dei critici, a condannarmi all’anonimato. Ma io, che non ho avuto il privilegio della pubblicazione, io Ignazio Biscari, ultimo rampollo di un principesco casato siciliano che vive in dignitoso orgoglio la decadenza e l’attesa della fine, leggerò a lei, perché so che cerca di farsi strada nel campo della letteratura –senza scendere a compromessi con nessuno dei potenti di turno– le linee essenziali del mio pensiero”.
Allora aprì il primo dei suoi quaderni e cominciò a leggere brani di quanto aveva scritto. Io ascoltavo e catturavo come un magnete di rara potenza, incollandoli nella mia memoria, i contenuti culturali di quest’uomo, che aveva trascorso tutta la vita nella lettura e nella ricerca di una via personale alla letteratura.
E fu come se il tempo, per me, nella Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto, si fermasse; ed io mi facessi famelico e rapace avvoltoio di parecchi lacerti letterari scritti da Ignazio Biscari da rielaborare su nuove basi e da vivificare dandogli vitalità e vigore. Tanto che quando il mio Doppio si alzò e andò via, io continuai a fissare a lungo la sedia vuota che lui poco prima aveva occupato, nello stesso tempo avvertendo una interiore sensazione di pienezza tematica e concettuale mai avuta prima, che attendeva soltanto di imboccare la strada maestra di una scrittura che rappresentasse la realtà naturale e la condizione umana con uno stile di notevole forza espressiva.
Io non passo più dalla bottega dell’antiquario, non vado più alla Biblioteca Nazionale, non compro più libri recenti o rari. Leggo i testi che gli editori piccoli medi grandi mi fanno pervenire con preghiera di una recensione e quelli che, ogni anno, mi pubblicano. Non ho più rivisto quell’uomo di cultura con cui parlai un giorno in Biblioteca, quell’Ignazio Biscari che mi fece dono della lettura dei suoi originali concetti di “letteratura debole” diventati i fondamentali “contenuti forti ” delle mie opere.
Mi sono trasferito in provincia, dove la vita e la mentalità senza dubbio meno frenetiche e più flemmatiche, un po’ monotone e forse anche più sonnacchiose rispetto alla città, a me sortiscono l’effetto di far sembrare le giornate più lunghe. Ho lasciato l’insegnamento, vivendo con la pensione datami dallo Stato e i diritti d’autore dei miei libri e di quanto vengo scrivendo sui quotidiani sui settimanali sui mensili.
Un giorno trovandomi in città per parlare con il direttore di una rivista di cultura, che mi aveva proposto di stendere un lavoro sulla via della solitudine interiore dello scrittore guerriero, decisi di passare dalla bottega di quel “Gatto antiquario”, che avevo frequentato per così lungo tempo, quando ero ancora un inseguitore di sogni letterari, prima di raggiungere la notorietà. Ma nella libreria non entrai. Poggiata la mano sulla maniglia esterna della porta a vetri rividi, tra gli altri, che scorrevano i titoli dei vecchi libri collocati negli scaffali, proprio Ignazio Biscari, il mio Doppio misterioso con il quale ero venuto in culturale contatto nella Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto anni prima. Anzianissimo ormai, bianchi tutti i capelli, una sciarpa verderame con righe giallo zolfo al collo sopra un pesante cappotto nero, gli occhiali dagli spessi vetri rotondi, un berrettino simile a quello dei fuochisti francesi tra le due guerre mondiali, che lo accostavano tanto agli scrittori mancati della letteratura universale, con i quali la vita è stata sempre avara di riconoscimenti culturali.
Ignazio Biscari sfogliava le pagine di un antico e prezioso testo rilegato in tela di seta rossa con fregi blu cobalto.
Gli scaffali della bottega dell’antiquario segnati dai morsi delle tarme, la luce fioca che doveva favorire la consultazione e l’acquisto dei libri da parte degli amatori, l’età avanzata del ” Gatto antiquario” dei lettori e di quell’uomo, Ignazio Biscari, così assorti assorbiti quasi perduti tutti nella lontananza epocale di chissà quale prosa o verso d’autore, mi diedero l’impressione di trovarmi davanti alla muffa e alla polvere opprimente di una vecchia casa rugosa e fatiscente in abbandono.
Dopo il primo momento vissuto in preda a vivo stupore, anche se avevo aperto la porta, mi convinsi ancora di più a non entrare nella libreria.
“Certamente il mio Doppio avrà ripreso ad inseguire il miraggio di una pubblicazione!” – dissi ad alta voce, ridendo in modo sconsiderato.
Dall’interno della bottega tutti i presenti mi guardarono profondamente meravigliati schifati a causa di quelle parole di dileggioso sarcasmo pronunciate e della mia fragorosa sguaiata risata.
Ignazio Biscari sollevò gli occhi dal testo che teneva tra le mani e mi osservò con quella che, a me, parve l’umile e tremula espressione di amarezza e di dolore propria della persona nobile e colta, che ha commesso l’imperdonabile errore di leggere le linee essenziali del suo pensiero a un borghese istruito, figlio legittimo dell’ingratitudine.
Io rimasi fermo davanti alla porta a vetri in tutto simile a colui che avesse preso una terribile botta in testa, né mai più riuscii a dimenticare ciò che successe quel giorno.
Comprendendo in seguito, sempre più, che da quel momento qualcosa mi causava vuoto nella mente, facendo ineluttabilmente svanire quelle linee essenziali del pensiero che Ignazio Biscari mi aveva letto e di cui io mi ero fatto rapace avvoltoio in un lontano mezzogiorno di alcuni anni prima. Perché da quegli occhi, solo apparentemente inoffensivi del mio Doppio, emanava un così potente magnetismo che generava dentro di me la sconcertante impressione che Ignazio Biscari succhiasse dal mio cervello ogni contenuto creativo che mi aveva elargito e che successivamente mi mettesse al collo le sue scarne e ossute mani, strozzandomi come faceva l’uomo con l’avvoltoio di kafkiana memoria del segnalibro gigante che, senza patire i segni del tempo, stava ancora davanti alla libreria antiquaria del “Gatto succ. Berruto”.
Da allora la mia attività di scrittore si è interrotta, i rapporti con il mio editore si sono guastati. Ogni volta che mi sono seduto al tavolo del mio studio per cominciare un lavoro nuovo, io sono stato sopraffatto dalla fortissima sensazione che Ignazio Biscari fosse davvero l’uomo che si riprendeva, con i suoi occhi, i pensieri che io avrei voluto esprimere e che strangolava con le sue scarne e ossute mani l’avvoltoio predatore ingrato quale io mi ero dimostrato nei suoi confronti.
Così io sono caduto in una miseria spirituale e materiale profonda, oscillando il mio vivere quotidiano nella condizione umana ora del fannullone, ora del vagabondo, ora del clocard, e senza più anima mi trascino sotto i portici della Cittadella Universitaria o faccio avanti e indietro all’interno e all’esterno della stazione ferroviaria, i miei abiti e il mio corpo sempre più divenendo simili ad un ammasso di letame in cui trovano nutrimento e dimora stanziali colonie di insetti parassiti, che giorno dopo giorno mi vanno riducendo a quattr’ossa rinsecchite dentro una lamina di ruvida pelle, non lontano preludio d’immondo carcame e di protocollo del nulla.

Antonio Cammarana

 

1943-2013: Lo sbarco degli americani nella memoria degli acatesi: fu invasione o liberazione?

Corso indipendenza 1943 Acate
La campagna d’Africa complessivamente è “costata alle forze dell’Asse 1 milione di uomini fra morti, feriti e prigionieri, 8 mila aerei, 6200 cannoni, 2500 carri armati, 70 mila veicoli e 2 milioni e mezzo di tonnellate di naviglio mercantile. Dalla sola inutile campagna di Tunisia erano stati inghiottiti 300 mila uomini” (p.245, Petacco). Così Arrigo Petacco conclude il suo libro “L’armata nel deserto. Il segreto di El Alamein”, dopo aver messo in evidenza – con la citazione del bollettino di guerra n°1083 del 13 maggio 1943 – che “l’onore dell’ultima resistenza” (che mandò in bestia Adolf Hitler e l’OberKommando germanico) delle forze italo-tedesche contro gli Angloamericani è stato tutto italiano e che il generale Giovanni Messe (nominato Maresciallo d’Italia per aver tenuto alto l’onore dell’esercito italiano) ha firmato la resa soltanto per ordine di Benito Mussolini.
Quasi due mesi, dal 13 maggio al 10 luglio 1943, separano la perdita reale dei territori dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia e successivamente Pantelleria, l’isola fortificata che sbarrava il Mediterraneo), già in possesso dell’Italia, bersaglio dell’attacco nemico delle forze Anglo-americane al “ventre molle dell’Asse”(definizione dell’Italia data da Winston Churchill nel corso della Conferenza di Casablanca, tenutasi dal 14 al 24 gennaio del 1943) a cominciare dalla punta estrema della Sicilia; attacco, a proposito del quale, una parola fu sulla bocca di tutti:
INVASIONE, parola che rimase nella mente di coloro che si trovarono testimoni di quell’avvenimento, fin quando una diversa realtà politica, intinta di colore rosso, non venne a sovrapporre la parola LIBERAZIONE (cara al socialcomunismo nazionale e internazionale) alla parola INVASIONE; sporcando le pagine dei libri di storia con il tentativo mal riuscito di cancellazione del sangue dei caduti italiani e tedeschi, che combatterono (anche se non sempre onorando le divise dei loro eserciti) con armamento inferiore, ma con valore almeno pari a quello degli americani, i quali in Sicilia conobbero il combattimento vero e il vero battesimo del fuoco.
Ma a settant’anni da quegli eventi, che cos’è rimasto nella memoria dei più anziani?
Nella memoria degli Acatesi di uomini e donne, di vecchi e ragazzi, sono rimasti incancellabili i ricordi del bombardamento del 9 luglio 1943, dei combattimenti tra militari americani e antiparacadutisti italiani (NAP), cui si unirono parecchi civili del paese e del contado; dei crimini di guerra a cominciare da quello perpetrato contro i componenti maschi della famigGiuseppe Mangano Podestà di Acatelia del podestà Giuseppe Mangano (nella foto a sinistra) a Vittoria, per continuare con le stragi di civili a Piano Stella e dei soldati italiani e tedeschi fatti prigionieri all’aeroporto di Biscari, degli scontri dell’11 luglio nel territorio di Acate e per le strade del paese.
Ignazio Albani, di Acate-antica Biscari, nel suo libro “Il mio dodicesimo anno tra Acate e Gela 1942-1943” ha narrato fatti luoghi persone, riuscendo a coinvolgerci e a farci partecipi di una tragedia che sconvolse il mondo. Nel rielaborarli a distanza di tempo ha cercato di mantenere intatto, per quanto gli è stato possibile, il valore di semplice testimonianza, raccontando un’esperienza di guerra vissuta da un ragazzo di 12 anni, che vive osserva incide nella memoria momenti ed emozioni di quei giorni.
A proposito del bombardamento del 9 luglio ad Acate così scrive: “Giunto a metà strada da casa, spuntarono nel cielo, a relativa bassa quota, tre aerei da caccia pesanti, che non ebbi difficoltà a riconoscere: erano inglesi” (pp.90-91). Ignazio arrivato a casa, ubicata tra via Marconi, via Umberto I e via Mazzini con i familiari sentì “il sibilo della picchiata dell’aereo e, subito dopo, il fischio della bomba che cadeva” (idem, p.92).
Lo spostamento dell’aria, provocato dallo scoppio, fece spalancare gli infissi, vibrare le porte interne, oscillare i lampadari, far cadere i vetri esterni, scendere dal soffitto calcinacci e polvere.
Ignazio Albani e i suoi familiari non si erano riavuti ancora dallo spavento, quando “fragore” e “terrore” provocarono la caduta di una seconda e di una terza bomba, seguiti da “un silenzio che sembrava irreale” (idem, p.93).
Dopo diversi minuti, si udì prima il vocio di alcune persone, poi il rumore e le grida di tanta gente, che, “spaventata e ansiosa, correva in tutte le direzioni per avere notizie dei parenti” (idem, p.93).
La famiglia Albani lasciò Acate per contrada Santissimo, dove aveva proprietà e casa. In campagna apprese che “una bomba era caduta nel Corso Vittorio Emanuele, ora Indipendenza, all’incrocio con il Vico Tripoli; un’altra bomba era caduta in Via Emanuele Filiberto tra le vie Marconi e Roma. La terza bomba era caduta su un edificio compreso tra Corso Vittorio Emanuele, la via Marsala e la via Mameli.
Comandante francesco di Geronimo AcateProprio questo ordigno aveva provocato la morte del sessantaduenne Comandante dei Vigili Urbani, Francesco Di Geronimo (nella foto a sinistra), dell’ottantenne tabaccaio Filippo Battaglia, della bambina Rosaria Bongiorno di dieci anni e del bambino di appena un mese, figlio di Linuzza e Salvatore Traina, calzaturiero, genero del Comandante dei Vigili.
Quella che avrebbe dovuto essere la quinta vittima, la tredicenne Maria Catania aveva in braccio il figlio di Linuzza e Salvatore, parenti) fu estratta viva dalle macerie” (idem, p.94). Adagiata nella barella è dapprima trasportata nella postazione della Croce Rossa in Piazza Libertà, poi, messa sull’ambulanza, “inizia il suo viaggio della speranza. Anche il padre Giuseppe disperato, per assistere alle fasi iniziali del ricovero, raggiunge l’ospedale con la sua imenta, che non legata con le redini ad alcuna boccola ritorna da sola ad Acate, quasi per rassicurare gli altri familiari rimasti in paese. I medici disperano di salvarla. Il dottor Bombi, tenente colonnello in servizio, alla vista di quel carbone ardente, di quel tizzone più che corpo umano, irriconoscibile, coperto di polvere nerastra, interamente ustionato e con gravissime ferite svia i primi soccorsi e dà ordine di non soccorrere le persone anziane, ma i feriti più giovani.
Nessuno credette che, in quel corpicino, si nascondesse quello di una preadolescente tredicenne e non di una vecchia novantenne. Molti furono quelli che strapparono dalle mani del padre il medico che inizialmente si era rifiutato di curare quella figlia sfortunata. Tutti si impegnarono per averne la guarigione. E così fu.
Catania Maria tredicenne AcateDopo due mesi di degenza quella ragazzina (nella foto a sinistra Maria Catania, deceduta nel 2005) ritornò a casa più bella che mai. Il volto era bello, i capelli ondulati, di un biondo timido, un viso ingenuo, soave. Maria, la fanciulla di tredici anni sepolta dalle macerie era scampata miracolosamente al bombardamento aereo del 9 luglio del 1943″ (Giovanna Laura Longo, La guerra è morte, altera i sentimenti, La Sicilia, 6 luglio 2007, pag.36).
Per quanto riguarda l’invasione Ignazio Albani così continua: “Verso le 22,30 i cani cominciarono ad abbaiare in modo strano ed insistente, per cui mio padre fu costretto ad uscire fuori per zittirli.
Grande fu la sorpresa quando, guardando nella direzione verso cui abbaiavano, vide, alla fioca luce di quel primo quarto di luna, centinaia di paracadute scendere dal cielo” (Ignazio Albani, op.cit., pag.96 ). Quando rientrò in casa, comunicò ai familiari quello che aveva visto ed essi uscirono tutti “nello spazio antistante” e videro “una fungaia di paracadute scendere piano piano dal cielo” (idem, pag.96).
Era dunque cominciata l’invasione?
Certamente. Paracadutisti caddero in contrada Canalotti-Fondo Niglio. Piero Occhipinti, acatese, in “Biscari Primo ‘900 1895-1950, parte II, così riferisce: “Quella notte il signor Gianninoto Santo, viscarano sposato a Vittoria, scelse di dormire nell’aia. Doveva fare la guardia al suo frumento, da poco mietuto; il frumento che l’indomani avrebbe messo al riparo per garantirsi il nutrimento di tutto un anno. La moglie, per volontà del marito, dormiva a casa” (pag.107). Nel corso della notte, verso le due, il Gianninoto “sentì tutt’intorno un frastuono strano. Dal cielo scendeva gente attaccata ad enormi palloni. Uno dopo l’altro. Non fece in tempo a mettersi a sedere e a sfregarsi gli occhi che si vide cadere addosso una pesantissima cassa di ferro che gli troncò le gambe e gli tolse il respiro. Immediati e strazianti le sue grida di dolore. I suoi lamenti lacerarono la quiete e il silenzio nero della notte. E l’animo di chi le sentiva. Immobile e sanguinante don Santo urlava ed urlava senza posa. I paracadutisti, parecchio spaventati, liberatisi dal pesante fardello di morte che si portavano appresso, a passi svelti l’avvicinarono e gli tapparono la bocca con le mani: Zitto! Tedeschi sentire! Zitto! Ma il poverino nella spirale del dolore e dello spavento gridava e gridava. E quelli, terrorizzati dall’idea di vedersi assaliti da un momento all’altro, d’istinto gli tagliarono la gola con la baionetta e lo lasciarono al suolo, lungo com’era” (idem, pp107-108).
Ad Acate, intanto, era entrato in azione il Nucleo Antiparacadutisti(NAP) stanziato al Convento dei Cappuccini al comando del tenente Orazio Dauccia, dapprima in Contrada Santissimo, dove fu ucciso il caporale Filippo Currò, poi in Contrada Canale, nel tentativo di aggirare il nemico. Nello scontro a fuoco che ne seguì furono uccisi due paracadutisti americani, ma perdettero la vita anche il tenente Dauccia e il sergente Gaetano Galletta. Il nucleo antiparacadutisti ripiegò ad Acate, nelle sue posizioni di partenza. Alcune ore dopo, assieme a un forte contingente di tedeschi, che potevano contare sull’ appoggio di due carri Tigre, cominciò per le strade di Acate una vera e propria caccia all’uomo, affrontando e uccidendo gli americani che provenivano, suddivisi in piccoli gruppi, dalla Contrada Canalotti- Fondo Niglio, dalla Contrada Canali e dalla Contrada Santissimo.
Combattimenti si svolsero ancora in contrada Bosco Grande, non molto distante da Casa Platanìa, nel quartiere delle “Tre Croci”, nel quartiere del “Carmine”, nella piazza antistante la Chiesa Mscheggiature chiesa Madre Acateadre (nella foto a sinistra le scheggiature presenti nella vecchia pavimentazione), all’interno della Villa Margherita, attorno al Castello dei Principi di Biscari, nel quartiere San Vincenzo, in contrada Vampalavuri, in Contrada “Fontane”.
Quale fu la prima cittadina ad essere liberata?
La prima città della Sicilia che gli Americani conquistarono per capitolazione fu Vittoria. Alle 16,40 del 10 luglio il colonnello Tommaso Franceschelli, che non aveva le forze necessarie per difendere la città “alzò bandiera bianca e si consegnò con 80 uomini” (Domenico Anfora-Stefano Pepi, Obiettivo Biscari, Ugo Mursia Editore, Milano 2013, pag.90).
Nel medesimo lasso di tempo si consumava, sempre a Vittoria, la tragedia del podestà di Acate Giuseppe Mangano “d’animo nobile e gentile, maestro di Scuola Elementare, capomanipolo e sciarpa littorio, esempio di vita” (idem, pag.96 ), di suo figlio Valerio, di suo fratello ErnCapitano Medico Ernesto Mangano Acateesto, capitano medico (nella foto a sinistra). Suona offesa alla dignità umana e alla leale onestà l’ inciso “la giacca del pigiama a dire del suo convulso abbandono del campo” attribuito, senza rigore di documentazione storica (una testimonianza non verificata!), a Giuseppe Mangano, come se lo stesso volesse sottrarsi codardamente al suo dovere di capo dell’amministrazione comunale del suo paese, Acate-antica Biscari, con una fuga inconsulta e precipitosa. Inciso che ripeto, ancora una volta nella mia memoria, da quando, nel febbraio del 2004, in esso ebbi la ventura di inciampare, dopo aver acquistato e letto il libro dal titolo “In Sicilia” di Matteo Collura, edito dalla Casa Editrice Longanesi, di cui riporto lo stralcio . “Non sapevano ancora bene dove si trovassero e cosa fare di tutta quella gente in movimento lungo le strade, i Ranger che a Vittoria, la mattina del 10 luglio, nel loro primo posto di blocco dopo lo sbarco, imposero l’alt a un’automobile con a bordo una famiglia. Poco prima c’era stato un breve, concitato conflitto a fuoco tra gli occupanti del paese e un drappello di soldati tedeschi in ritirata. Dall’auto, sotto i mitra spianati dei soldati americani, scesero il podestà di Acate, Giuseppe Mangano, la giacca del pigiama a dire del suo convulso abbandono del campo, la moglie Melina, il figlio Valerio, diciassettenne, il fratello del podestà, Ernesto, capitano dell’Esercito, in borghese anche lui, e un’amica di famiglia, un’insegnante sfollata da Messina. Erano diretti
a Modica, paese ritenuto più sicuro presso un altro fratello del podestà” (Matteo Collura, In Sicilia, Longanesi, Milano, 2004, pag.212 ).
Ma qual è la sua opinione sull’episodio?
Valerio Mangano AcateSulla tragedia dei Mangano ho letto le versioni di Alfio Scuderi, di Nunzio Vicino, di Gianfranco Ciriacono, di Giovanni Iacono, di Giovanni Bartolone, di Piero Occhipinti, di Fabrizio Carloni, di Ignazio Albani, di Andrea Augello, di Domenico Anfora e Stefano Pepi e sono arrivato alla seguente conclusione:
– il 10 luglio del 1943, prima dell’ arrivo degli Americani ad Acate, il podestà decise di trasferire a Modica, presso la casa, ritenuta più sicura, del fratello Gaetano, vicesegretario comunale, la moglie Melina, il figlio Valerio (nella foto a sinistra), la maestra Latteri e la domestica Pina;
– il podestà chiese a suo fratello Ernesto in licenza dall’Ucraina di accompagnarlo fino a destinazione;
– i Mangano, all’altezza di contrada Capraro, furono fermati da una pattuglia di Americani, ma fatti proseguire per la presenza di donne in macchina;
– i Mangano, arrivati a Vittoria in via Cavour, presso casa Scuderi, al numero civico 338, furono trattenuti da un’altra pattuglia di Americani;
– le tre donne furono fatte entrare in casa Scuderi, mentre gli uomini furono portati dai soldati americani verso Piazza Italia da via Cavour.
Da questo momento tutto ciò che riguarda le donne può essere oggetto di ricostruzione storica, perché fondato su testimonianze certe; tutto ciò che concerne gli uomini ha come fondamento sia ipotesi, sia spiegazioni non documentate.
Che cosa è rimasto di indelebile nella memoria collettiva degli Acatesi?
Innanzitutto il modo in cui è stato ucciso Valerio (un colpo di baionetta gli inflisse una ferita mortale, partendo dall’orecchio sinistro e fermandosi al collo); una pietra, lanciata o tentata di lanciare da Valerio contro il suo uccisore, trovata nelle immediate vicinanze del cadavere del giovane, abbracciato al padre Giuseppe Mangano o presso il corpo di lui; nessuna traccia di Ernesto, fratello del podestà; la scomparsa delle pietre preziose, che si trovavano all’interno della Lancia Augusta mai ritrovata.
Nel momento in cui gli Americani vengono a contatto con le truppe italo-tedesche che difendono la Sicilia meridionale, cominciano ad apprendere che cosa sia il vero combattimento tra forze armate contrapposte.
Nel NoBernard Low Montgomery Acaterd-Africa gli Americani sono stati a fianco degli Inglesi del generale Bernard Low Montgomery (nella foto a sinistra) e le difficoltà, le battute d’arresto come le avanzate, che hanno portato alla vittoria nel deserto libico e in quello tunisino, sono state vissute insieme a soldati che hanno una pluricentenaria esperienza militare terrestre e navale.
Nella Sicilia meridionale le truppe americane, anche se avevano ricevuto un addestramento che era considerato perfetto e completo, come forze combattenti – nel loro settore – sono sole e con tutti i problemi di un esercito, che deve sbarcare uomini e mezzi, costruire teste di ponte, mantenere i nervi saldi, sostenere il contrattacco, oltre che italiano da parte di un nemico, il tedesco, il cui semplice suono del nome incuteva terrore panico e riverente rispetto.
Per questi motivi quando parliamo delle stragi di Piano Stella e dell’aeroporto di Biscari – Santo Pietro, non possiamo tacere il fatto che esse furono compiute da contingenti di truppe che erano ritenute le migliori unità dell’Esercito americano. Sia per l’addestramento (la Thunderbird “era in quel momento una delle divisioni più addestrate” – Domenico Anfora-Stefano Pepi, op.cit., pag.33) a cui erano state sottoposte, sia per l’armamento (“ottimamente armata ed equipaggiata”, idem, pag.33) di cui erano state dotate e che si rivelarono ben poca cosa di fronte alla realtà del combattimento vero, ingaggiato contro un nemico vero, in un lasso di tempo certamente non breve ( dal 10 al 14 luglio) che mise a dura prova la tempra dei soldati statunitensi, logorando la loro capacità di resistenza fisica e soprattutto psichica. Illuminanti sono le seguenti parole: “Nonostante l’accurato addestramento e l’ottimo equipaggiamento il comandante di divisione Middleton e i tre comandanti di reggimento non erano sicuri che i loro soldati, ancora non provati al fuoco, avessero superato la prima operazione reale e attendevano preoccupati di vederli mettere i piedi sulle spiagge” (idem, pag.66).
George Junior Patton AcateSiamo ancora nei momenti immediatamente precedenti lo sbarco e, secondo me, le parole ingiuriose e assassine pronunciate dal generale George Junior Patton (nella foto a sinistra) “Uccidete quei figli di puttana” contro i soldati italiani sono già lontane. Esse saranno richiamate nuovamente alla memoria soltanto quando la paura del nemico italo-tedesco diventerà sia gesto ultimo, alla fine di un vittorioso combattimento vissuto interamente con terrore panico ( fucilazione, da parte della cp “I” del 3°/ 505°, con raffiche di mitra dei carabinieri di Passo di Piazza, a nord del Biviere e a ovest del ponte sul Dirillo, di cui sopravvivono soltanto Pancucci e Cianci, deportati poi in Algeria. Anfora-Pepi, pag. 46), sia diritto di criminale vendetta contro un nemico che ha tenuto in scacco per lungo tempo un “combact team” con i nervi a pezzi in una terra che non conosce (strage di militari italiani e tedeschi all’aeroporto di Biscari-Santo Pietro, da parte del capitano Compton e del sergente West; strage di civili a Piano Stella).
La Germania ha fatto della guerra l’esperienza millenaria di un popolo e, con il primo e secondo conflitto mondiale, ha messo in atto quello che ben a ragione è stato chiamato “assalto al potere mondiale” (Fritz Fischer, Einaudi, Torino), il cui fallimento se da un lato ha ridimensionato, sul piano militare la potenza tedesca, dall’altro ha posto le basi sia per la fine di una vecchia filosofia della storia, sia per l’inizio di una nuova filosofia della storia.
Al vecchio SIN QUI proprio della filosofia hegeliana (sin qui, in terra germanica, è giunto lo spirito del mondo, ma in questa visione della realtà non vi sarà posto per una nuova storia) subentra il nuovo DI QUI (che fa partire il nuovo corso della storia universale dalla fine del secondo conflitto mondiale) proprio della filosofia della storia dell’ “Aquila americana”, che non consente dilazioni alla domanda il cui fondamento razionale risiede nell’intrinsecità della sua realtà.
Quali sono i Limiti della potenza americana? O meglio, nel nuovo ordine universale, la potenza americana può avere dei limiti?
A questa domanda non può rispondere lo storico, perché lo storico arriva sempre in ritardo rispetto a ciò che accade e dell’accaduto fa il terreno della sua indagine. A questa domanda può rispondere, io credo, soltanto l’UOMO COMUNE, l’uomo che quotidianamente svolge il suo lavoro manuale o intellettuale, che con il suo elementare buon senso sa dove andare, senza avere bisogno di escogitare eufemismi per affermare che l’Intelligenza costruttiva e l’Idiozia distruttiva sono i due estremi della ” Balance of Life” : quella che ha il suo centro nel Pensiero Pensante dell’uomo che lavora e che con il suo lavoro è ” FABER FORTUNAE SUAE”, anzi “FABER SUI IPSIUS”.

Antonio Cammarana

Una lezione di storia francese

rousseau
Nel libro che ha come titolo “Le Confessioni” Gian Giacomo Rousseau (Ginevra 1712 – Ermenonville 1778) parla, con dovizia di particolari, di un incontro con un contadino francese intorno al 1780, pochi anni prima che, in Francia, scoppiasse la rivoluzione del 1789, che fece conoscere al mondo sia gli “immortali principi” di libertà uguaglianza fratellanza, sia tutto ciò che un popolo, rovinato dalle tasse e affamato da una classe dirigente impomatata imbelle e
vanesia, sapeva fare con una ghigliottina.
Il filosofo ginevrino un giorno non riuscì a ritrovare la strada maestra, dopo avere camminato a lungo in aperta campagna. Per questo motivo “stanco e morto di sete e di fame”, entrò nella casa di un contadino, “la sola che si vedesse in quei luoghi”. Rousseau chiese da mangiare, naturalmente pagando ciò che gli sarebbe stato dato. Il contadino “offrì latte scremato e del rozzo pane d’orzo, dicendo che non aveva altro”. Il filosofo bevve “il latte con voluttà” e mangiò “quel pane, ma questo non poteva ristorare un uomo esausto dalla fatica”. Il contadino, vedendo che gli stava davanti un “bravo e onesto giovanotto, incapace di tradirlo”, si diresse verso una botola nel pavimento, la sollevò, discese e, non molto tempo dopo, riapparve alla sua presenza “con un buon pane bigio di puro frumento, un prosciutto molto appetitoso, una bottiglia di vino, la cui vista rallegrò il cuore” dell’ospite inatteso. A tutto questo poi aggiunse “una frittata ben grossa”, facendo fare in questo modo “un pasto quale può immaginare chi viaggia a piedi”.
Il benessere che Rousseau provò lo spinse a chiedere subito quanto gli dovesse, ma quello rifiutava il suo denaro, mostrando nel volto e nei gesti “un turbamento strano”. E, soltanto, dopo molte domande da parte di Rousseau, il contadino disse che “nascondeva il suo vino per causa dei dazi, il pane per le taglie (cioè per le tasse) e che egli sarebbe stato rovinato, se si fosse sospettato che non moriva proprio di fame”. Il filosofo Gian Giacomo Rousseau conclude il brano dicendo: “Quest’uomo agiato non osava mangiare il pane guadagnato con il sudore della fronte e poteva salvarsi dalla rovina soltanto simulando la miseria” allo scopo di pagare meno tasse.
Nella Francia prerivoluzionaria del diciottesimo secolo, pagava le tasse soltanto il “Terzo Stato”, di cui facevano parte commercianti, banchieri, industriali, uomini di lettere di medicina di scienza, avvocati, ingegneri, così come coloni, bottegai, contadini: in pratica tutti quelli che non erano né nobili, né preti, una maggioranza schiacciante a fronte di una risibilissima minoranza di “porcelli”.
Nobili e preti, in passato, erano stati anche guida del popolo, ma nello scorcio del 1700 erano visti ormai come sfruttatori, parassiti e sanguisughe ed oggetto soltanto di odio da parte dei meno (e non) abbienti.
La situazione prerivoluzionaria, in Francia, precipitò in una rivoluzione vera e propria, in verità anche per altre cause, ma la miccia che provocò l’incendio fu la gravissima crisi finanziaria, che l’ottusità cronica della nobiltà, del clero e della monarchia (cioè la casta e il palazzo) provocò con la seguente soluzione: fare pagare altre (e più pesanti) tasse a coloro i quali erano stati portati prima alla rovina economica, poi alla rovina fisica, togliendo loro non solo la camicia, ma anche la stessa la pelle del corpo.
Gli Stati, che vivono una situazione prerivoluzionaria simile a quella della Francia del diciottesimo secolo, dalla Storia non traggono nessuna lezione, continuando a strozzare i cittadini, che hanno avuto la cattiva ventura di non nascere e crescere altrove, inermi prigionieri e vittime di un vortice fiscale e di un sistema di riscossione, che sono un crudele ritrovato di criminale tortura della mente umana.

Antonio Cammarana

La lirica “L’arcobaleno” commentata da Salvatore Stornello

L'Arcobaleno
L’arcobaleno

Vivace, brillante, policromo,
assieme al sereno spunta,
come fuoco di corpi in amore
alla terra aderisce
con mille colori

Antonio Cammarana

Nella brevità dei versi della lirica “L’arcobaleno”, che troviamo nella silloge “Fiaba d’inverno e altre poesie” di Antonio Cammarana, si scopre una raffinata e devastante profondità spirituale coniugata con una dimensione figurativa, che trova il suo momento culminante nella similitudine col fuoco che si libera dai corpi in amore.
“L’arcobaleno” è una scheggia poetica, dove convergono i ricordi di un’infanzia trascorsa a contatto con la natura e un frammento di esaltazione della bellezza dell’universo. L’arcobaleno spunta assieme al sereno, dopo lo sconvolgimento causato dalla tempesta degli elementi, e, con la sua multicolore adesione alla terra, annuncia la ripresa dell’attività umana.

Con questa iconografia, che è nello stesso tempo struggente ricerca interiore e musicale letizia, l’Autore eleva il proprio io alla sommità della Natura, creando un nesso inscindibile tra l’eleganza letteraria e i temi portanti del Romanticismo e del Naturalismo, nesso che si fissa in un felice effetto pittorico impressionistico di solare luminosità.
La brevità lapidaria del componimento, infine, mette in evidenza una reale padronanza degli strumenti artistici espressivi, tutti accentrati intorno ad un’unica immagine: lo spuntare dell’arcobaleno.

Salvatore Stornello

 

A. P.

alunno problematico
Conosco veramente A.P. nel mezzo della traversata dell’anno scolastico. Mentre diversi Capi d’Istituto delle Scuole Superiori illustrano, in classe, le discipline più impegnative, che gli Alunni affronteranno nel prosieguo degli studi.
E il mio cuore si fa improvvisamente triste.
Irrimediabilmente triste.
A.P. segue i contenuti proposti, ma io leggo nei sui occhi afflizione e sconforto, a causa della situazione in cui è caduto, e provo un senso di ribellione interiore contro una società rappresentata da una classe dirigente dalla zucca vuota.
Perché la condizione sociale di A.P. è diventata condizione umana di rassegnata disperazione.
Il padre di A.P. è un meccanico, che ha perduto il lavoro e che passa le giornate attaccato ad una bottiglia di vino.
La madre di A.P. è una casalinga, che fa le pulizie nelle case dove la pietà la chiama.
A.P. non fa più i compiti, non studia il programma svolto, libera i negozi e i supermercati da cartoni minutaglie ferrivecchi.
A.P. è diventato muto.
La Costituzione della sua Repubblica lo ha defraudato della parola, di se stesso, della famiglia, dei compagni di strada, di quelli della classe e della scuola.
A.P. nega la speranza. Ha già alle spalle l’attesa e lo svilimento, che conducono allo scacco.
A.P. è una testa piegata sul petto. Ha la forma che assumono le cose nell’oblio.
A.P. è un protocollo del nulla: in questo tempo, sotto questo cielo, con questa mia scrittura.
Perché A.P. è l’Alunno Povero, figlio della Famiglia Impoverita e fermo davanti all’abisso del niente.
Ma, Lui, A.P. è pulito.
Anche se calza un paio di scarpe di pezza smunta con strappi, sopra i calzini incolori con rattoppi. Anche se indossa una camicia e un Jeans d’imprecisata storia. Il lindore di A.P. è indubbio: lindore nel fisico, soprattutto lindore nello spirito.

Antonio Cammarana

Il portaordini

MotoE’ partito di notte per sentieri che lui solo conosce, ha superato fiumi sopra ponti di barche di legno di cemento, ha attraversato valli piccole e grandi, colline e montagne non hanno fermato lui, il portaordini.
E né la pioggia battente e il vento impetuoso, né la tormenta di neve e il gelo pungente, né il sole cocente e l’aria soffocante hanno avuto ragione di lui, il portaordini, che la sete e la fame ha vinto con una borraccia d’acqua e un pane raffermo, arrivando, infine, davanti alla tenda del comando supremo.
Lui, il portaordini, ha una benda all’occhio destro e una fasciatura all’avambraccio sinistro, che tiene al petto per mezzo di una striscia di tela che gli scende dal collo.
Lui, il portaordini, è provato nel fisico, ma è nelle migliori condizioni di spirito guerriero di sempre, perché veterano di cento battaglie e di tutti i fronti di guerra e ora ha il compito di portare l’ordine ultimo del comando supremo ai fanti delle Red Hills, le più lontane trincee.
Ma dalla tenda del comando supremo l’ordine ultimo non viene consegnato e lui, il portaordini, continua a stare sopra la ZKF 37 VIS, la vecchia motocicletta con la quale ha compiuto innumerevoli missioni nelle guerre tra popoli della stessa terra, finite per fare fronte comune contro i nemici del Mondo Oltre.
Così scende la notte e spunta l’alba, il sole sorge e si fa alto nel cielo, viene il crepuscolo, arriva la sera, è notte di nuovo.
Lui, il portaordini, è sempre sopra la vecchia ZKF 37 VIS.
Ora ricorda i camerati, che lo hanno preceduto nello sconfinato sentiero del nulla; ora pensa ai fanti delle Red Hills, che i continui attacchi delle Esistenze Ombra vanno respingendo nelle ridotte delle Lande Terminali; e che sognano di vedere spuntare lui, con l’ordine ultimo di sganciarsi dal nemico, per non diventare i fantasmi memoriali della prima guerra contro il Mondo Oltre.

Antonio Cammarana

Festa al Circolo Agricolo per i 110 anni della fondazione: la relazione del prof. Antonio Cammarana

Festa circolo Agricolo Acate 110 anni
I centodieci anni di vita del Circolo Agricolo sono stati festeggiati solennnemente sabato sera nella sede di via XX Settembre, presenti Autorità, soci ed amici. Ha condotto i lavori il prof. Emanuele Ferrera, il quale, dopo la sua sobria e pregnante introduzione, ha invitato il sindaco Giovanni Caruso a porgere le felicitazioni dell’Amministrazione Comunale. Subito dopo ha preso la parola il dottor. Giovanni Frasca, segretario del sodalizio, con un efficace intervento nel quale ha citato anche un noto brano di Lucio Battisti, imperniato sull’amore per la campagna. A seguire il prof. Antonio Cammarana ha illustrato la sua dotta e meticolosa ricerca storico-sociale sul Circolo (che pubblichiamo più giù). Dopo i ringraziamenti commossi del presidente Giovanni Raffo a tutto lo staff di Eventi Acatesi, (Pietro Mezzasalma per la mostra fotografica e l’organizzazione della manifestazione, Franco Sallemi per il video, Emanuele Ferrera per il coordinamento), sono intervenuti il presidente del Circolo di Conversazione, prof. Giovanni Pignato (che ha donato al collega Raffo una stampa del Castello) e don Girolamo Bongiorno, figlio di uno dei fondatori. Prima dell’aperitivo Pietro Mezzasalma ha recitato una poesia sul tema sull’agricoltura, scritta da Vito Gatto.
Ecco il testo ella relazione del prof. Antonio Cammarana.

Redazione (Acateweb-EventiAcatesi)

Momenti storici e azione sociale del Circolo Agricolo di Acate

Antonio Cammarana2
Quando assieme all’amico maestro Pietro Mezzasalma – questo “assieme” sta diventando, sempre più, un luogo dell’intelligenza produttiva di cultura storica – entrai nel Circolo Agricolo, ho visto tante persone sedute ai tavoli della sala grande dell’Associazione, persone che discutevano, che giocavano a carte e che amichevolmente risposero al nostro saluto. Per un istante mi estraniai, tornai indietro nel tempo e con la memoria mi trovai nella sala del mio Circolo, il Circolo di Conversazione di Acate – antica Biscari, quando un tempo era piena di sodali: c’era chi leggeva il quotidiano e il settimanale inseriti nelle stecche; chi giocava a poker, a scala quaranta, a stop ballerino; chi stava seduto sul sofà; mentre tutti quanti erano osservati da Edmondo Leone, in piedi al centro della sala, con l’immancabile sigaro, che pendeva fumante dalla sua bocca. Immagini usuali, che popolano ancora di ricordi la mia mente e di altri soci del sodalizio più carico di storia di Acate.
Un colpetto alla spalla da parte di Pietro mi richiamò alla realtà e, subito dopo, lui, il presidente del Circolo Agricolo Giovanni Raffo ed io ci trovammo seduti nella stanzetta , che, secondo gli Antichi Atti, fu di proprietà del comune di Biscari. Con la sua esperienza pratica, Pietro prese accordi per la Celebrazione del 110° Anniversario dalla fondazione del Circolo ed io mi trovai con diversi quaderni in mano e un impegno da mantenere.
Tornato a casa fu tutt’uno sfogliare e leggere le pagine di quel materiale prezioso, che mi avrebbe permesso di ricostruire e di raccontare eventi, momenti di vita, le tappe più significative di questa storica realtà locale fin dalla sua nascita: un lampo nella notte oscura della comunità di Biscari, che si affacciava al Millenovecento, luce su un mondo sopra cui c’erano solo tenebre.
Per completezza e rigore di metodo affiancai, alla documentazione affidatami, la consultazione dell’Archivio storico della Biblioteca civica ” Enzo Maganuco ” e precisamente le delibere del Consiglio Comunale, che vanno dal 15-8-1902 al 10-11-1902, Registro n.8, delibere antecedenti all’Atto di nascita del Sodalizio, consultazione favorita dalla gentilissima Direttrice Graziella Sansone e dalle sue valide collaboratrici. Dalla lettura del materiale storico ebbi ben chiara la situazione storica politica ed economica del periodo in esame.
Il territorio di Biscari, per l’ingrossarsi delle acque del fiume Dirillo ( o Dorillo o Dorilli o Agate), a causa delle fitte e violente piogge, andava soggetto a ricorrenti straripamenti e inondazioni, provocando notevoli danni a uomini animali campagne e case della vallata omonima.
Una terribile alluvione (che non riguardò soltanto Biscari, ma tutta la Contea di Modica e la città di Modica in particolare) fu quella del 25 e 26 settembre del 1902, tanto che fu oggetto di discussione nella seduta del Consiglio comunale del giorno 8 ottobre dello stesso anno, in cui si misero in evidenza “i sacrifici personali e l’indefesso lavoro dell’ Ill/ mo Signor Sindaco Digeronimo”, il quale “non curando né fatiche, né strapazzi e tralasciando le sue molteplici occupazioni” percorse “l’intera vallata del Dirillo per constatare DE VISU ( di persona) i gravi danni cagionati dalla mai vista piena del nostro fiume Agate ( Dirillo )”, conseguente a “fatale e funesto nubifragio”, che “gettò nel lastrico tante povere famiglie di coloni e di piccoli possidenti i quali così, in poche ore, videro perduti gli stenti e i sudori”.
Il disastro ambientale e agricolo spinse quei lavoratori della terra e i piccoli proprietari a riunirsi a discutere e ad associarsi per trovare – se non la soluzione definitiva ai loro malanni – almeno un PUNTO DI FORZA, che potesse servire come difesa dei frutti del loro lavoro. In questo modo, dopo varie discussioni e accordi preliminari, “l’anno millenovecentotre, il giorno 15 marzo, alle ore 18, nel locale sociale sito in via Venti Settembre, previo avviso pubblicato nella sede, previo segnale datone con l’esposizione della bandiera alla porta”, si riunì l’Assemblea generale per “deliberare l’approvazione dello Statuto fondamentale del Circolo”.
Il Direttore, Gallo Biagio farmacista, al quale fu “affidata la redazione dello Statuto “, lesse “dal primo articolo fino all’ultimo”.
L’Assemblea, dopo” qualche lieve obiezione ” da parte di alcuni soci, applaudì l’operato del signor Direttore “e” a voti unanimi “approvò lo Statuto, che diventò l’Atto di Nascita del Circolo della Borghesia, vidimandolo con un timbro di forma ovale a inchiostro color viola, riproducente la denominazione del Sodalizio, che presentava, al suo interno, “una stretta di mano”, simbolo di solidarietà sociale, che si esprime nella forma e nella sostanza della collaborazione, della condivisione e dell’assistenza reale e concreta nella sventura, nella sofferenza e nel dolore.
Primo presidente fu Manusia Mariano, primo segretario Modica Gaetano, primo direttore Gallo Biagio.
Dal giorno della Fondazione l’Attività del Circolo della Borghesia si volse alla difesa e all’assistenza dei soci e del loro lavoro, sia quando si verificarono disastrose calamità naturali che distrussero i raccolti; sia quando si protestò contro l’antico metodo di ricavare fondi a disposizione del Consiglio Comunale, tassando maggiormente alcuni e alleggerendo del peso fiscale altri; sia quando si fecero voti ai signori dei latifondi inondati dalle acque del Dirillo.
Il Circolo della Borghesia, nel primo dopoguerra, non rimase estraneo alle lotte contadine, ora con la costituzione – il 2 maggio 1920 – della Cooperativa agraria guidata da un comitato provvisorio formato da cinque soci (Spada Giuseppe fu Biagio, Di Modica Giuseppe fu Giambattista, Falconieri Giovanni di Gaetano, Catania Vincenzo di Biagio, Cicero Antonino fu Salvatore) , ora con l’adesione “all’agitazione agricola del paese” nominando due membri (Spada Giuseppe fu Biagio e Di Modica Giuseppe fu Giambattista) su invito, ricevuto mediante lettera, del Circolo Socialista locale, che avrebbe portato all’occupazione delle terre incolte dei latifondi.
La lotta tra opposte fazioni politiche, violenta a Biscari, come in tutto il territorio nazionale, raggiunse il suo culmine con l’assassinio di Vincenzo Ferlante.
La tornata elettorale del 7 novembre 1920 aveva dato la maggioranza, nel consiglio comunale, alla sinistra socialista, al cui interno la quasi totalità degli aderenti si riconosceva nella linea riformista di Filippo Turati, di Claudio Treves e di Giacomo Matteotti, mentre una sparuta minoranza seguiva le idee massimaliste di Amedeo Bordiga e di Antonio Gramsci. In seguito alla scissione di Livorno, che determinò la nascita del partito comunista d’Italia, a Biscari i socialisti massimalisti aderirono alla linea rivoluzionaria comunista, alimentando gli scontri con gli uomini di opposte ideologie. I comunisti di Biscari, in una riunione segreta, votarono il crimine politico: l’assassinio di Vincenzo Ferlante, da tutti conosciuto come Vincinzinu Pirricchiu.
Il Ferlante aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale. La trincea, gli attacchi, i contrattacchi, i morti, i feriti ne avevano fatto un soldato coraggioso, un Ardito, una ” camicia nera ” ( le camicie nere non furono un’invenzione di Benito Mussolini: le camicie nere, con il pugnale fra i denti e con il tascapane pieno di bombe a mano, furono la punta di diamante del Regio Esercito Italiano, dopo la sconfitta di Caporetto: l’evoluzione dei Reparti d’Assalto, nel senso elitario dell’estremo coraggio e dell’azione suicida, contro il nemico invasore austro-ungarico e tedesco: i FEGATACCI, di cui mi parlò a lungo, a Milano, nel triennio 1974- 1975-1976, il capitano comandante Gianni Cordara, Presidente dell’A.N.A.I., l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia).
La mattina del 19 Maggio il “Pirricchiu”, mentre scriveva frasi ingiuriose sulla facciata del Comune di Biscari contro il socialcomunismo, fu colpito alle spalle da un colpo di fucile sparato da Giuseppe Stracquadaini, assistito, nell’azione criminosa, da Giovanni Bongiorno e da Gaetano Stornello, entrambi carrettieri.
Il fallimento della sempre conclamata rivoluzione rossa, “il fare in Italia come in Russia”, mai portata a termine ( o, almeno tentata), la presa del potere da parte di Benito Mussolini ( ottobre 1922) e il suo passaggio per la via XX Settembre a Biscari (aprile 1924), l’emergere della figura dell’Avv. Vincenzo Bellomo, tra i fascisti del paese, convinsero i soci del Circolo della Borghesia a costituirsi in Sindacato Nazionale Fascista dei Massari il 24 maggio del 1925. Con questa denominazione il Circolo visse tutti gli altri anni del fascismo al potere, fin quando venne chiuso in seguito allo sbarco anglo-americano in Sicilia nel luglio del 1943.
Il giorno 8 del mese di agosto del 1943 i signori Pinnavaria Giuseppe fu Carmelo, Carrubba Vincenzo di Francesco ed Amorelli Giuseppe di Benedetto riaprirono il Circolo, prospettando a tutti gli intervenuti alla riunione “la futura possibilità di vita sotto gli americani”, i quali promettevano “la libertà”. Giuseppe Pinnavaria fu eletto Presidente.
La vita del Circolo ebbe, però, breve durata, perché il sodalizio fu chiuso per ordine del Governo Militare Alleato, in seguito ad attriti con le autorità locali da parte dell’allora Presidente. Ottenute le dimissioni, il Commissario prefettizio di Acate, rag. Vincenzo Paladino, fece opera di intercessione per la riapertura del Circolo presso il Comando Militare Alleato, che la consentì con la seguente motivazione da parte del C.A.O.A. HARRIS CAPT.
“Non ho nessun desiderio di intromettermi nei piaceri e fini del popolo di Acate, ma è stato portato alla mia conoscenza che certa condotta disordinata ha avuto luogo nei locali del Circolo della Società degli Agricoltori.
Su richiesta del Sindaco Paladino ho proceduto alla riapertura della Società e spero che si andrà incontro a queste mie concessioni con la buona condotta da parte dei membri. Sono sicuro che non sorgeranno più nel futuro motivi di lamentela”.
Il secondo dopoguerra vide i soci del Circolo e i suoi dirigenti impegnati nell’opera di rimpatrio dei prigionieri di guerra con il contributo di mille lire; negli accomodamenti con il Dazio; nella richiesta di revisione dell’imposta di famiglia da determinarsi “con spirito di imparzialità e reale valutazione dei redditi imponibili dei cittadini”; nella protesta contro la tassazione dei prodotti agricoli di “maggiore produzione, cioè, il vino, le mandorle, le carrube, le arance, i carciofi”, fatta a scapito di tantissime famiglie di agricoltori e con l’esclusione di seicento altre, appellandosi al senso di giustizia e di imparzialità del Prefetto della Provincia; nella difesa vigile ed energica dei diritti degli iscritti al Circolo.
L’indagine che ho condotto è stata interessantissima e ha permesso di ampliare la nostra conoscenza, che è soprattutto quella degli uomini e delle cose in senso lato, del territorio di Acate-antica Biscari.
Nel corso della ricerca ho rivisto i fantasmi di uomini bruciati dal sole e dal gelo, che nella campagna nacquero, nella campagna faticarono, con la campagna nel cuore chiusero gli occhi per sempre; ho rivisto i fantasmi di donne, che la fatica e il dolore resero vecchie anzitempo, donne che questi uomini – i loro uomini – attesero, ogni giorno, con ansia e trepidazione, prima di accendere, nell’annerita tannura, con paglia canne e frasche quel fuoco – spesso più fumo che fuoco – sopra cui mettere una pentola per bollire l’acqua con cui cuocere una minestra serale di fave o di lenticchie o di ceci o di fagioli, che rinfrancasse una giornata di lavoro duro nei campi dall’alba al tramonto del sole; soprattutto ho rivisto il fantasma di un mondo circoscritto a poche case (dove sovente vivevano assieme e senza vergogna persone e animali), a poche strade (spesso sterrate e poco praticabili soprattutto nei mesi autunnali e invernali): era il mondo del popolo della campagna che la sera si raccoglieva attorno a una magra tavola di cibo umile ma sano; e in questo raccogliersi e in questo esserci – raccogliersi ed esserci, che era proprio di tutta la famiglia non di rado patriarcale – si perpetuava quell’antico rito religioso diventato quotidiano vangelo della vita, che cominciava dalla distribuzione del pane, che il capofamiglia spezzava con le proprie mani e dava a partire dal più piccolo per arrivare, se bastava, a lui, che era il più grande.

Festa Circolo Agricolo pubblico

Alla Comunità del Circolo Agricolo di Acate, erede dell’orgoglio e della dignità di antiche generazioni di gabellotti e di piccoli proprietari, che spesso furono derubati dei frutti del proprio lavoro sia dalle calamità naturali, sia dalla rapacità di insulsi signori del latifondo, sia dall’infame politica di parte, vada il mio ringraziamento per essere stato onorato a presiedere, assieme agli altri autorevoli relatori, alla Celebrazione del 110° anno dalla fondazione del Circolo della Borghesia di Biscari, avvenuta il 15 Marzo del 1903.

Antonio Cammarana

Una benemerenza, una protesta, una supplica. Dal registro del circolo agricolo, già della borghesia

Circolo Agricolo Acate
Degna di attenzione ritengo l’ammissione, come Socio Benemerito, al Circolo della Borghesia di Biscari, del Dottor Masaracchio Antonino.
L’Assemblea dei soci del 22 Gennaio del 1905 – presidente il signor Manusia Mariano, segretario il signor Modica Gaetano, direttore il signor Gallo Biagio –su domanda inoltrata dal signor Bellomo Biagio e firmata da dieci soci– con voto unanime, ammette “il Distinto Egregio Dottor Masaracchio Antonino a Socio Benemerito” con la seguente motivazione: “Perché veramente possiede quei doni di Benemerenza, specialmente nel soccorrere i poveri non solo con la professione, ma anche con denaro e con quale gentilezza di conforto nei confronti di tutti; veramente degna persona della famiglia Nobile che egli appartiene ed in Biscari si è distinto per morale, per virtù e per meriti”.
Uno dei punti sul quale l’Assemblea del Circolo della Borghesia di Biscari è chiamata a pronunciarsi il primo gennaio del 1906 è la protesta contro l’aumento della tassa sul Bestiame, presa dalla Giunta Municipale di Biscari il giorno 29 Dicembre 1905.
La Giunta per tagliare il dazio “sulla minuta vendita del vino” non aveva trovato di meglio che “eccedere al massimo la tassa sul bestiame”, favorendo alcuni e danneggiando altri.
Il socio Modica Gaetano, chiesta e ottenuta la parola, fece osservare all’Assemblea dei soci che “il territorio di Biscari –nelle contrade Canalotti Fondo Niglio, Chiappa, Dirillo, Peniata, Macchione, Baudarello, Litteri, Piano di Giunco e Biddini- è posseduto per la massima parte da proprietari di Vittoria”, i quali non pagano la suddetta tassa (tassa che, quindi, viene meno al Comune di Biscari); che “la eccedenza al massimo di questa tassa” danneggia l’interesse dei soli agricoltori di Biscari; che un “accertamento rigoroso” è giusto, senza “fare bassamane” nel calcolarla.
Particolarmente interessante, per i contenuti dolorosi che vi sono presentati e per il pathos morale che li anima, è il verbale della seduta che i soci del Circolo della Borghesia di Biscari tengono il 22 gennaio del 1906.
Il presidente Garraffa Vincenzo fa presente all’Assemblea che, da diversi anni, gli agricoltori della Valle del Dirillo hanno il raccolto devastato dalla piena del fiume omonimo e che pure nell’anno appena cominciato –il 1906 – la furia delle acque non ha risparmiato i prodotti della terra. Gli agricoltori si trovano, quindi, nell’impossibilità “per manco (mancanza) di mezzi finanziari” di continuare la coltivazione dei terreni rovinati dal Dirillo, di cui sono “gabellotti”.
Ascoltata la relazione del presidente – e possiamo capire anche con quale stato d’animo demoralizzato di padri di famiglia, che un destino avverso da anni, priva del frutto delle campagne – l’Assemblea del Circolo della Borghesia all’unanimità ” fa voti ” al Principe di Mazzarino e agli Eredi del Principe Mirto affinché si degnino di attenuare la miseria incombente, che grava su questa benemerita classe di agricoltori, che coltiva i terreni di proprietà delle loro Signorie, accordando a essi “un abbuono in fitti” proporzionale ai danni ricevuti.
In quel “fa voti” a me pare di ravvisare da un lato la “sacralità” dei potenti e lontani signori, che detenevano il possesso della terra; dall’altro l’umiltà, ma anche la dignità degli agricoltori feriti da eventi naturali più grandi di loro e contro cui nulla si poteva.
Ancora cinquant’anni dopo, nel tempo in cui – ragazzino di sette nove undici anni – lavoravo nella sala da barba di mio zio Giovanni Carrubba, al numero 119 di Corso Indipendenza, quanti discorsi sconsolati e tristi ascoltai sulle terre sui raccolti sulle calamità naturali (‘u jelu, i rannili, ‘u sciroccu) e sulle piene distruttive e ricorrenti (calau ‘a china) del fiume Dirillo da parte di coloro che entravano nella sala per “fare barba e capelli”!
Eppure le facce di quegli uomini, per quanto mi consentono la mia memoria di oggi e la mia capacità di comprensione di allora, così tanto provati dalla sventura, sempre più mi pare di ricordarle (Mnemosine, dea della memoria, ancora mi assiste) come appartenenti ad un diverso consorzio umano e civile: anche segnati dalla sofferenza e dal dolore quegli uomini si dimostrarono forti nella temperie e solidali nella sventura, perché credevano in una vita migliore, sostenuti, forse, da una diversa fede, ma certamente confortati dalla ragionevole speranza di una più equa condizione economica futura.

Antonio Cammarana