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Una sera

una sera del passato AcateLa sera è scesa all’improvviso, portando via dalla piazza i crocchi di contadini, che si sono fatti vivi in cerca di lavoro nel latifondo. E il calzolaio, che tiene pure scarpe per chi ne può comprare, spegne la lampada del negozio; e il giornalaio, che, all’inizio di ottobre, s’improvvisa libraio per gli alunni delle Elementari e delle Medie, chiude le imposte.
Nel Corso vedo soltanto coloro che dal vizio del fumo sono spinti verso la rivendita di “Sali e tabacchi”, che, a quest’ora, tiene aperta soltanto mezza porta. Poi non scorgo più nessuno; anche i cani – che hanno sostato a lungo davanti alla carnezzeria nella speranza di potere addentare qualche osso – a causa dell’insoddisfatta fame, gagnolando, vanno appresso all’odore di carni varie, che emana dalla pelle e dal pastrano del macellaio, che lascia la bottega e ritorna lemme lemme a casa.

Ora che il buio si fa più fitto, mia madre viene a chiudere le finestre, accende le lampade, sparisce in cucina. Ciò facendo, mia madre non sa di che cosa mi priva. Fin quando io osservo il buio da dietro i vetri, esso non mi fa paura. Non vedendolo più, vivo nel timore che esso mi soffochi, stritolandomi assieme alla mia casa.

Pure oggi ho atteso l’arrivo di questo messaggero della notte con ansia crescente, da quando ho finito di fare i compiti. D’inverno esso giunge di colpo e porta con sé la tenebra, che copre di nero persone e cose. E ora che mia madre ha sprangato le imposte, io vado a sedere vicino a uno spigolo del tavolo appoggiato al muro della sala da pranzo: così almeno creo l’illusione di proteggermi dall’urto della tenebra, che di già circonda la mia casa.

E aspetto.

Attesa vana non è la mia, né lunga: silenziosa mi raggiunge la paura, in punta di piedi insinuandosi nel mio corpo fino a farlo fremere come quello di una persona, che soffre a causa del freddo intenso. Dalla cucina, intanto, vengono delle voci, che mi fanno riprendere il contatto con la realtà. E’ arrivato mio padre, dopo una giornata trascorsa in campagna: possediamo un appezzamento di terra non molto distante dal paese e lui, dall’alba al tramonto del sole, segue il lavoro di alcuni contadini presi a giornata. Io vorrei correre dal mio vecchio, salutarlo, abbracciarlo. Sentire il suono della sua voce mi libererebbe da questa stretta, che mi farà uscire di senno. E, però, non posso farlo, perché mio padre mi permette di avvicinarmi a lui soltanto all’ora di cena.

Fuori, frattanto, il buio si è fatto più fitto e la tenebra starà serrando in una morsa la mia casa. Il mio cuore batte forte. La mia paura cresce ancora, s’ingigantisce, diventa sgomento, angoscioso spasmo del corpo e della mente, animo che si decompone.

E’ terrore panico il mio?

Mi sento avviluppato come in una spirale, che mi trascina verso l’orlo di un abisso! Mi faccio piccolo piccolo, premo il petto contro il tavolo, solo ora mi accorgo che sopra di esso c’è il tappeto di velluto rosso brillante che prediligo. Questo colore così vivace mi sarà di qualche aiuto?

C’è tanta nebbia nella mia testa! Tanta nebbia, che ora s’infittisce, ora si dissolve, ora s’addensa, ora si dirada, Che cosa può essermi successo? Chi mi ha derubato del pensiero, della memoria, dei sogni? Chi ha privato la mia vita di ogni bellezza futura? Ora che non riesco a muovermi come gli altri, un uomo e una donna molto avanti negli anni mi portano in giro per la casa sopra una sedia a rotelle e, quando fuori si fa buio, mi sistemano dietro la finestra, che, da tanto tempo, ha le imposte aperte giorno e notte. Dietro i vetri, io vedo l’alba spuntare e la sera scendere, la luce del giorno e l’oscurità della notte e m’addormento con dolcezza, quando il sonno vince le mie ore di veglia. Non so dire chi siano la donna e l’uomo che si occupano di me, anche se mi sembra di vedere i loro volti da sempre: volti familiari, dove scolpiti sono un dolore terribile e un infinito amore.

Antonio Cammarana
La morsa del nulla: linea ultima
dell’infamie trompeuse de la vie.