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Natale 1914: lo spontaneo sentimento di pace sui campi di battaglia della prima guerra mondiale

Natale 1914

Alla data del 25 dicembre 1914, dallo scoppio della Prima guerra mondiale erano trascorsi 151 giorni. Il conflitto, che tutti gli Stati europei belligeranti vevano creduto di potere condurre e risolvere in modo rapido e travolgente, si era trasformato da guerra di movimento in guerra di posizione e aveva già fatto milioni di morti di feriti e di mutilati.
Da una trincea all’altra si sperava nella fine della guerra o almeno in una tregua. E quando, sul fronte occidentale, ai soldati dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia) e degli Imperi Centrali (Germania e Austria- Ungheria) fu chiaro che non ci sarebbero state nè l’una nè l’altra accadde quello che gli alti comandi delle due coalizioni in guerra mai avrebbero ritenuto possibile: spontaneamente soldati inglesi e tedeschi uscirono dalle trincee e cominciarono a camminare nella terra di nessuno, terra che odorava ancora di brandelli di carne umana in putrefazione e di polvere da sparo, ma nell’aria non si sentirono risuonare né colpi di fucile né raffiche di mitragliatrice.
Quelli che fino a un momento prima si consideravano nemici irriducibili da uccidere si trovarono faccia a faccia lungo i cinquanta cento duecento metri che separavano una trincea dall’altra. E un incontenibile desiderio di umana fratellanza universale spinse il soldato tedesco e il soldato inglese a stringersi la mano e a scambiarsi gli auguri di Buon Natale in un’atmosfera che niente pareva avere di reale e di concreto. Ma chi erano quegli uomini che da oltre cinque mesi sentivano quotidianamente il rombo del cannone, le raffiche delle mitragliatrici, il fischio delle pallottole di fucili, o vedevano i corpi dei compagni disintegrati dalle granate o trafitti dalle baionette, se non uomini comuni strappati al calore all’affetto e all’amore dei familiari e al lavoro quotidiano, uomini che facevano i contadini gli artigiani gli impiegati i professionisti e che erano stati scaraventati da un giorno all’altro nella fornace incandescente di una guerra che non avevano voluto, una guerra che oggi li faceva eroi, domani li faceva vigliacchi, oggi li alienava, domani li mutilava o li uccideva.
Mentre gli uomini di governo e degli alti comandi militari, che la guerra avevano voluto e scatenato e che li mandavano a morire per la conquista di poche decine di metri di terreno, che sarebbero state perdute alcune ore o alcuni giorni dopo, trascorrevano il tempo lontani dalle trincee e dai campi di battaglia tra discorsi oziosi e manovre politiche idiote o inconcludenti, pranzi, baciamano, musiche e balli con signore dell’aristocrazia o della ricca borghesia industriale bancaria e imprenditoriale, bicchieri di champagne e di cognac, salutati dall’immancabile “prosit” alla faccia dell’umile fante, che schiacciava pulci e pidocchi all’interno del pantano della trincea o cadeva colpito da un cecchino quando meno se lo aspettava o nel corso di un attacco o di un contrattacco.
Come scrive Martin Gilbert, uno dei più autorevoli storici della Prima e della Seconda guerra mondiale, tutto cominciò la sera della vigilia di Natale e proseguì nel corso della giornata del Santo Natale.
“Quel Natale, pressochè ovunque nella terra di nessuno, in prossimità delle linee inglesi e in alcuni settori delle linee francesci e belghe, i soldati fraternizzarono con i tedeschi. A dare il via erano sempre questi ultimi, o con un messaggio o con un canto. Nei pressi di Ploegsteert un ufficiale britannico, il capitano R.J. Armes, che parlava tedesco, dopo avere ascoltato con i suoi uomini un soldato nemico cantare una serenata, lo invitò a continuare e il tedesco intonò “I due granatieri di Schumann”.
Allora da entrambe le linee gli uomini uscirono dalle trincee e si incontrarono nella terra di nessuno”. Per tutta la giornata del 25 Dicembre 1914, in diversi punti del fronte, il nemico strinse la mano al nemico augurando Buon Natale, scambiando sigari e tavolette di cioccolato, stellette e distintivi, bottoni delle divise militari, bicchierini di whisky, facendo provviste di paglia e di legna da ardere, seppellendo i morti che si trovavano tra le opposte trincee, mentre ora cappellani inglesi ora cappellai tedeschi leggevano le preghiere e ci si irrigidiva sull’attenti quando i miseri resti dei corpi dei militari inglesi francesci belgi e tedeschi venivano calati all’interno delle fosse scavate in quel giorno santo.
Per un giorno, un solo giorno, per tutta la durata della Prima guerra mondiale, quella che cominciò ad essere la terra di nessuno fu la terra di tutti e il silenzio non fu il silenzio di piombo che precedeva un attacco o un contrattacco, ma il silenzio del giorno della nascita del Salvatore, rotto soltanto dalle voci ritornate amiche di uomini che da un giorno all’altro erano diventati nemici per volontà di sovrani ministri diplomatici e plenipotenziari.
Quando gli alti comandi dell’Intesa e degli Imperi Centrali furono informati che i soldati fraternizzavano diedero ordine agli ufficiali di fare rientrare, come pecore negli ovili, le truppe nelle rispettive trincee, convalidando la tesi che l’odio tra le genti d’Europa lo alimentavano coloro che la guerra non la facevano e se ne stavano lontani dal fronte, ormai diventato un immenso formicaio sia sotterraneo che alla luce del sole.
Già nella giornata di Santo Stefano, il 26 Dicembre 1914, i combattimenti riprendevano sotterrando, nella terra di nessuno, quello slancio spontaneo di fratellanza, che aveva visto il nemico stringere la mano al nemico, camminandogli accanto anche per pochi metri, respirare un’aria non infettata dalla polvere da sparo, dai gas e dall’odio che avrebbe portato lentamente alla rovina i popoli dell’Europa nel volgere dei successivi quattro anni di guerra.

Antonio Cammarana

Prima Guerra Mondiale. Perchè fu ucciso Francesco Ferdinando?

Corriere Sera Arciduca Sarajevo
L’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe e designato erede al trono d’Austria-Ungheria, in occasione della sua visita a Sarajevo, in Bosnia, il 28 giugno 1914, venne assassinato da un giovane studente serbo, Gavrilo Princip, che faceva parte di un “gruppo di fuoco” – in tutto sette attentatori, armati di rivoltelle e di bombe a mano – affiliato all’Associazione “Giovane Bosnia”, che poteva contare sull’appoggio di ufficiali serbi.
Perché questo assassinio, in cui perdette la vita pure la moglie dell’arciduca d’Austria-Ungheria?
A cento anni di distanza dallo scoppio della “Grande Guerra” o Prima Guerra Mondiale lo storico scrive sia sulla scorta di una valida e solida documentazione, sia per una oggettiva esposizione dei fatti in cui le parole hanno anche la funzione di scrostare contenuti da calcinacci di comodo legati a tempi e ideologie ormai obsoleti.
Francesco Ferdinando era ritenuto un elemento pericoloso sia all’interno della compagine dell’impero austro-ungarico, sia all’esterno di essa. Perché era il “sostenitore convinto del sistema trialistico, secondo il quale si sarebbero dovuti associare gli Slavi agli Austriaci e agli Ungheresi nel governo dell’Impero”(Morghen).
Nel sistema trialistico, portato avanti da Francesco Ferdinando, la Croazia, la Dalmazia, la Slavonia e la Bosnia avrebbero dovuto essere riunite come Terzo Stato(slavo) autonomo e alla pari(cioè equiparato costituzionalmente) con l’Austria e l’Ungheria, sotto la corona degli Asburgo, che sarebbe venuta così a fondarsi su tre gruppi etnici(Tedeschi, Magiari, Slavi).
Ricevendo, in questo modo, la stessa dignità e la stessa rappresentanza, gli stessi diritti e gli stessi doveri, degli Austriaci e degli Ungheresi, tutte le nazionalità presenti all’interno dei confini dell’Impero avrebbero contribuito a cementare e a rendere unitaria e indissolubile quella che si sarebbe presentata come una compagine federale(e supernazionale) sul modello degli Stati Uniti d’America, piuttosto che creare motivi di divisione di tensione e di dissoluzione.
A questo grande progetto di riforma del sistema vigente portato avanti dall’erede al trono si opponevano:
– l’ottantenne imperatore Francesco Giuseppe, che, nella seconda metà del milleottocento, inasprì sempre più le forme di governo autoritario e si rese sordo e cieco di fronte alle richieste paritarie dei sudditi di nazionalità non austriaca e non ungherese;
– la burocrazia imperiale, l’aristocrazia, il clero e l’esercito, che appoggiavano l’antico privilegio dell’imperatore austro-ungarico di emanare leggi durante le vacanze del Parlamento; e che concordavano per soluzioni che reprimessero, con la forza delle armi, ogni movimento di autonomia o d’indipendenza delle nazionalità slava e italiana all’interno dell’Impero;
– le Associazioni Nazionalistiche Serbe(che propugnavano la formazione di una “Grande Serbia”), le quali temevano che i Serbi i Croati gli Sloveni i Dalmati dell’Impero Austriaco, una volta accontentati nelle loro aspirazioni dalla riforma portata avanti da Francesco Ferdinando, non sentissero più la necessità di staccarsi dall’Impero austro-ungarico e di riunirsi in un unico regno balcanico di razza slava;
– l’Impero russo degli zar, che aveva stretto un patto di alleanza con la Serbia, la quale rappresentava la “Longa Manus” delle antiche aspirazioni che aveva dovuto subire, senza essere in grado di reagire militarmente, due colpi di mano da parte dell’Impero austro-ungarico: il primo, nel 1878,
al tempo del congresso di Berlino, quando gli Austriaci avevano occupato militarmente la Bosnia-Erzegovina; il secondo, nel 1908, quando gli Austriaci avevano trasformato questa occupazione militare in annessione di fatto del territorio occupato.
Quando l’Austria-Ungheria, il 23 luglio del 1914, inviò l’ultimatum alla Serbia con l’obbligo di risposta entro quarantottore, il Presidente della Repubblica Francese (Poincarè) e il Presidente del governo francese (Viviani) erano a Pietroburgo. Entrambi assicurarono allo zar l’appoggio militare della Francia, nel caso in cui l’Impero russo fosse accorso in difesa della Serbia invasa dagli Austriaci.
L’Europa prese fuoco nel giro di pochi giorni e questo fatto dimostra che nessuno degli Stati europei volle buttare acqua in quell’incendio, che sarebbe diventato mondiale, per spegnerlo. Non lo fecero:
– l’Austria-Ungheria per dare una dura lezione(ma non solo) alla Serbia;
– l’Impero russo per difendere i Serbi, ma in realtà per muovere contro gli Austriaci allo scopo di realizzare le sue aspirazioni espansionistiche nei Balcani;
– l’Impero germanico per tenere fede all’alleanza con l’Austria-Ungheria, ma soprattutto per fare straripare, oltre i confini tedeschi, quello che era il più potente e disciplinato esercito d’Europa;
– la Francia per non venire meno all’alleanza con la Russia, ma principalmente per cancellare con le armi l’umiliazione subita, nel 1870, con la disastrosa sconfitta e invasione del suo territorio ad opera del Regno di Prussia(che sarebbe diventato la Germania imperiale) e per riprendersi i territori dell’Alsazia e della Lorena, che aveva dovuto cedere;
– la Gran Bretagna per difendere la neutralità del Belgio invaso dai Tedeschi, ma per salvaguardare, in primo luogo, il suo predominio su tutti i mari, che considerava indiscutibile.
E l’Italia?
Tante volte, nel corso dei miei anni d’insegnamento(Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), feci mia, e condivisi con i miei alunni di Scuola Media e degli Istituti superiori, una intelligentissima frase dello storico Raffaello Morghen: “Come al solito, l’Italia era rimasta sorpresa dagli avvenimenti europei dell’estate del 1914”.
E, nella condizione di dovere prendere gravi decisioni, il 2 Agosto del
1914 dichiarò la sua neutralità.
L’avesse mantenuta per tutta la durata della guerra! Quante rovine e lutti avrebbe evitato agli Italiani!
Le gravi decisioni, che prese in seguito, la portarono scendere in guerra il 24 maggio del 1915, a combattere contro gli antichi alleati tedeschi e austro- ungarici, schierandosi a fianco dei francesi degli inglesi e dei russi.
Facendo conoscere a centinaia di migliaia di fanti e a decine di migliaia di sottoufficiali e ufficiali fango pulci pidocchi, densa e appiccicosa melma, epidemie di tifo, filo spinato trincee camminamenti, attacchi e contrattacchi, tempeste di granate, gas venefici, lamenti di uomini, monconi di braccia e di gambe, brandelli macabri di carne e di ossa, orrende mutilazioni, crani trapassati, frammenti di divise, carcasse di cavalli di buoi di pecore e di capre, la natura deturpata e la terra di nessuno che separa il nemico inglese o francese o russo o italiano o americano dal nemico tedesco o austro-ungarico.
Ma dalle macerie e dai bagni di sangue delle vittorie e delle sconfitte scaturirono i capolavori del pensiero universale a testimonianza di una criminale follia distruttiva, sia da parte delle forze dell’Intesa, sia da parte delle forze degli Imperi Centrali, dispiegatasi per diversi anni e non solo nel continente europeo:
– Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque;
– Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu;
– La rivolta dei Santi maledetti di Curzio Malaparte;
– Giorni di guerra di Giovanni Comisso;
– La commedia di Charleroy di Drieu La Rochelle;
– Orizzonti di gloria di Humphrey Cobb ;
– Addio alle armi di Ernest Hemingway.
E, al di sopra di tutto, gli immortali versi dell’uomo ancora vivo e tutto intero; l’uomo che è carne sangue ossa, mente sentimento pensiero: l’umile fante Giuseppe Ungaretti, che ha trascorso la notte nella trincea e che – guardando il cielo lontano sopra di lui, nell’espansione e interiorizzazione della luce del mattino, rasserenatrice e liberatrice – alla fine del lungo dormiveglia e degli opprimenti incubi di morte, che hanno popolato e sconvolto il suo animo, anche per un attimo solo può dire una volta ancora: M’illumino D’immenso.

Antonio Cammarana