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Il Gobbo. Racconto a due voci

Il Gobbo
Prima voce
Quadrata è la mia testa, un cerchio è il mio collo, ho il tronco a trapezio, due cilindri sono le mie gambe, due triangoli i miei piedi.
Sono davvero deforme.
Non solo.
Alto un metro appena, mi considero meno di un uomo. E mi riterrei il più sfortunato dei mortali, se madre natura non mi avesse fatto nascere con una gobba sulle spalle. Che mi fa essere più di un nano.
Vanto illustri antenati, resi immortali dalla letteratura. Un solo esempio valga per tutti: Quasimodo, il gobbo di Notre Dame de Paris: naso tetraedico, bocca a ferro di cavallo, occhiuzzo sinistro coperto da un sopracciglio rosso e cespuglioso, occhio destro nascosto dietro un’enorme verruca, denti sbrecciati come i merli di una fortezza, labbro carnoso, mento forcuto.
Ma se Quasimodo è un misto di malizia, di stupore e di tristezza, io sono un insieme di bontà, di indifferenza e di allegria. Se Quasimodo è il re dei folli, io sono il re dei saggi.
Perché: quando un uomo una donna un ragazzo vogliono toccare la mia gobba, convinti che ciò porterà loro fortuna, io li lascio fare a patto che comprino la mia frutta e la mia verdura.
Io, il gobbo, prototipo della deformità e venditore ambulante.

Seconda voce:
Io ricordo bene coloro che hanno accarezzato la gobba: uno ha perduto un dito, un altro una mano, un altro è diventato storpio, a qualcuno manca un occhio, a qualcun altro una parte del naso o delle labbra. E ognuno di loro ha la testa profondamente piegata sul petto: il loro essere spirituale e fisico è venuto meno a poco a poco, riducendosi ad icona della deformità.
Io li riconosco tutti, perché, da quando ho perduto entrambi i genitori, lui, il gobbo, mi porta sempre con sé per strade e paesi a vendere frutta e verdura con un carro a quattro ruote.

Antonio Cammarana