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Memory

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Uscii di casa in ritardo, percorsi in fretta via Duca D’Aosta e arrivai finalmente all’interno della palestra all’aperto della Scuola elementare “Capitano Puglisi” di via Balilla. Trovai parecchi miei compagni di classe.
Due di essi parlavano animatamente non di quale cinema fosse migliore in paese, ma dei film che si proiettavano alla comunità. Erano i primi anni Cinquanta e la visione di un film in bianco e nero, in seguito anche a colori, affascinava grandi e piccini.
Di recente, il cineteatro Eden del commendatore Morale aveva proiettato “Guerra e Pace”, un film cinemascope e technicolor della durata di quattro ore con scansione in quattro tempi, tratta dall’omonimo romanzo storico dello scrittore russo Leone Tolstoj.
E uno dei miei compagni di classe ne magnificava l’eccezionalità per gli attori, per i colori, soprattutto per le scene che riscostruivano l’ambiente climatico e la catastrofe della Grande Armata di Napoleone Bonaparte sulla strada del ritorno da Mosca al ponte della Beresina al territorio europeo vero e proprio fino alla disfatta finale a Waterloo.
Ma non aveva fatto i conti con l’altro mio compagno di classe, che aveva la fortuna di potere vedere gratuitamente tutti i film che venivano proiettati al cinema di don Salvatore Castiglione sia d’inverno che d’estate. E che, come una mitragliatrice in piena azione di contenimento di un assalto alla baionetta di una trincea, cominciò a sparare a raffica titoli di film e contenuti in modo stupefacente. Da “Sansone e Dalila” a “La tunica” a “I dieci comandamenti”, da “I figli di nessuno” a “Roma città aperta” a “Catene”, pellicole che rappresentavano il momento “clou”, di massimo interesse al cinema Castiglione, quelle per cui si mandavano i ragazzini a chiedere alla moglie del titolare, donna Giovannina, se quella sera stessa si proiettasse un film di “cianciri”, cioè che faceva piangere.
Lei invariabilmente e puntualmente rispondeva: “Cà sicuru, dall’inizio alla fine” e “Purtati i seggi di casa, perché stasera (da leggere “come al solito”) i posti non basteranno”. Intanto arrivava il maestro, che, gridando e roteando la bacchetta, si sforzava di “raccozzare” (proprio come fa il Griso con i Bravi ne “la notte degli imbrogli” de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni) tutti gli alunni della classe, che si schieravano ora a favore di un compagno ora dell’altro. E finalmente, dopo essere stati messi in fila per due, uscivamo dalla palestra scoperta e ordinati e composti come bravi soldatini entravamo nell’edificio scolastico dal portone di via Balilla, lasciando alla nostra sinistra una schiera di alunni che cantavano – musicato da Giacomo Puccini tre anni prima dell’avvento del Fascismo – “L’inno a Roma”: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”.
L’Italia stava uscendo faticosamente dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale; contadini braccianti agricoltori faticavano, dall’alba al tramonto del sole, nei campi, con zappe e aratri, muli cavalli e asini. Eppure l’inno a Roma, esaltazione e celebrazione dell’Urbe (la città per antonomasia), era ancora lì – nella scuola elementare di via Balilla – a ricordare alla neonata nazione democratica (1946) le antiche origini di romano popolo guerriero di tradizione regia repubblicana e imperiale, inno che mi spinge oggi – 28 aprile 2014 – oggi, che sono ritornato indietro nel tempo con la memoria, in odore di malinconico Amarcord, a pormi una domanda perentoria e che non ammette più dilazioni:
“Quando è finito veramente il Fascismo ad Acate – antica Biscari?”
Si affacciava, intanto, siamo nel 1953, nella vita del paese – che assisteva alla grande ondata migratoria nelle regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) – un potentissimo strumento di unità civile e culturale (ma non solo) delle genti italiane: la televisione, che, nei suoi primi anni di vita, ebbe anche un ruolo di positiva azione educativa e didattica, contribuendo ad eliminare una parte notevole di analfabetismo con programmi come “Non è mai troppo tardi”; e che radunò e inchiodò allo schermo televisivo milioni di persone con le puntate settimanali del capolavoro di Alessandro Manzoni, “i Promessi Sposi”; con i programmi pomeridiani dei ragazzi di “Zurlì, mago del giovedì”; con le serate del “Lascia o Raddoppia” di Mike Bongiorno; con “La domenica sportiva”, che di sera aggiungeva le immagini alla semplice radiocronaca pomeridiana di “Tutto il calcio minuto per minuto”, che immancabilmente si concludeva con lo spot pubblicitario: “Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock; se la squadra del vostro cuore ha perso, consolatevi con Stock. Stock 84, il signore si che se ne intende”; con la tribuna politica diretta da Jader Iacobelli.
Ricordo che il locale al chiuso del cinema di don Salvatore Castiglione, per tutto l’inverno e parte della primavera, a mezzogiorno, funzionava come mensa scolastica per gli alunni delle famiglie bisognose di Acate, mensa da tutti conosciuta come “la refezione”; di sera, diventava sala cinematografica al coperto; per tutta l’estate e parte dell’autunno, per mezzo di uno schermo gigante in pietra, intonacato di bianco e innalzato nella palestra all’aperto attigua alle Scuole elementari e al Collegio delle suore, si trasformava in Arena Castiglione.
Il cinema di don Salvatore Castiglione, il cine-teatro Eden del commendatore Morale e l’Arena argentina dell’ingegnere Traina
riempirono i miei spazi vuoti serotini degli Anni Cinquanta e Sessanta. E io non dimenticherò mai una sera dell’estate del 1962, quando venne proiettato “Il pozzo e il pendolo”, un film del 1961, diretto da Roger Corman e tratto da un racconto di Edgar Allan Poe.
Nel silenzio dell’oscurità, tutto preso dalle scene del film, un vero classico del terrore e dell’orrore, mentre una mano insanguinata spuntava da una tomba, spostando lentamente la lastra di pietra che la ricopriva, per la paura e per l’emozione, accesi maldestramente una nazionale esportazione dalla parte del filtro e cominciai a tossire fortemente e ininterrottamente. Ad un certo punto, nel silenzio, rotto soltanto dai colpi di tosse, si levò una voce acida e risentita: “A ci ni sunu miegghiu di tia o spitali!”, che trasformò un ambiente attentissimo alla visione e all’ascolto in un luogo di bassa ilarità e di rumorose flatulenze.
A partire però dalla proiezione di film di un certo spessore culturale quali “West side story”, “Scandalo al sole”, “I due volti della vendetta”, “I magnifici sette”, “Assassinio sul treno”, il cinema Morale attrasse come una calamita il gruppo di amici che si era costituito attorno a Pippo Puglisi, a Rosario Manusia, a Gigi Albani, a Carmelo Pinnavaria (Dollar Man), quest’ultimo da tutti chiamato “il professore”, perché, fin dalle prime sequenze di un film giallo, indovinava chi fosse l’assassino.
Il gruppo era attratto soprattutto dal film del giovedì, quasi sempre un giallo, che i fratelli Morale non facevano mai mancare in quel giorno settimanale, anche se (come spesso accadeva) lavorassero per niente, essendo equivalenti per loro la spesa e il ricavo.
Il gruppo evitava (con la mia sola eccezione), le proiezioni della domenica, seguite da vere e proprie fiumane di persone di tutte le età che, per almeno quattro ore di seguito, seguivano il cinegiornale della settimana Incom, le reclame, il primo e il secondo film, spizzicando simenta e calacavisi, e ruminando fave abbrustolite e pastiglie secche, infine raschiando la gola con bottiglie di gassosa e dissetanti caramelle carrubba.
In seguito avrebbe preso piede ad Acate il cinema del professore Vincenzo Lantino, con elegante galleria e accogliente tribuna, ma io potei apprezzare poco sia la bellezza del locale, sia i film che vi si proiettavano.
L’iscrizione all’Università di magistero di Catania mi allontanò a poco a poco, ventenne, dalle sale cinematografiche di Acate; come la frequenza dell’istituto magistrale mi aveva già allontanato, ancora quattordicenne, dal campo di calcio, in cui non avevo intravisto alcun futuro.
Rimaneva la televisione, che, dopo preadolescianziali entusiasmi, cominciai a trascurare, considerandola una monotona trasmissione di programmi e notizie, che spersonalizzavano lo spettatore conformandolo alla piattaforma ideologica del potere. Buona, comunque, per pappagalli politici e professoricchi ripetitori, che comunicavano, nella loro rampante ascesa, concetti e nozioni sulla scia del manovratore di turno rosso bianco o nero.

Antonio Cammarana