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Al Castello la prima edizione del “Premio Gabriele Carrubba”: il riconoscimento all’insegnante in pensione Maria Iemmolo

Premio Gabriele Carrubba Acate

Si è svolta sabato 19 aprile, nella suggestiva sala consiliare del settecentesco Castello dei Principi di Biscari di Acate, la Prima Edizione del “Premio Gabriele Carrubba”.
Una iniziativa fermamente voluta dalla famiglia del compianto illustre concittadino e, in modo particolare, dalla figlia, la professoressa Maria Teresa Carrubba. “Un premio nato con l’intento di strappare all’oblio pezzi di vita, mettendo in risalto l’operato di un cittadino esemplare, che ha dato un grande contributo alla crescita civile, sociale, politica ed amministrativa di Acate”.
E, in effetti, il direttore Carrubba ha rappresentato sempre, per la piccola cittadina iblea, un valido punto di riferimento.
Indimenticabile il suo costante impegno che spaziava dalle attività culturali, sociali e religiose a quelle politicoamministrative.
In passato, fu più volte consigliere comunale dell’allora Partito Socialista Italiano, ricoprendo le cariche di assessore, vice sindaco e, nel 1994, presidente del Consiglio Comunale, durante l’amministrazione Masaracchio. Negli anni ’70 del secolo scorso diede il suo valido contributo quale assessore alla Cultura, per la realizzazione di opere importanti per la nostra cittadina quali la costruzione del plesso scolastico “Carlo Addario” di Via Neghelli, l’acquisto del castello dei Principi di Biscari e la crescita gestionale ed organizzativa della Biblioteca Civica, “Enzo Maganuco”.
Quindi, nel suo intervento introduttivo, Maria Teresa Carrubba ha spiegato al numerosissimo pubblico presente in sala, compresa una delegazione della Guardia di Finanza, guidata dal dottor Giovanni Raffo, dell’Associazione Trasporto Dializzati e delle signore Maria Carmela La Lisa e Rosalba Carnemolla in rappresentanza dell’Ufficio Postale di Acate, le motivazioni che hanno indotto la sua famiglia ad istituire questo prestigioso premio, riservato a personalità cittadine, che si sono particolarmente distinte per qualità ed ingegno.
Ad inaugurare la prima edizione del “Premio Gabriele Carrubba”, la signora Maria Iemmolo, maestra in pensione, definita da Maria Teresa Carrubba “simbolo ed emblema della scuola in generale e dell’insegnante in particolare. Una vera colonna portante della Scuola acatese, quella scuola alla quale la Iemmolo ha dedicato più di 42 anni della sua vita, prima nella veste di insegnante ed educatrice e successivamente di coordinatrice e responsabile dei servizi scolastici comunali. Una maestra, ma soprattutto una donna coraggiosa, di cui abbiamo rilevato molte affinità con mio padre, due persone che hanno sempre amato mettersi in gioco”.
Anche l’altra figlia del direttore Gabriele Carrubba, l’insegnante Ginetta, ha voluto ricordare la figura del compianto genitore, soffermandosi su quelli che ha definito “i ricordi più belli”, legati agli anni in cui Gabriele Carrubba ricopriva l’incarico di direttore dell’Ufficio Postale di Niscemi. “In quel periodo – ha tenuto ad evidenziare la signora Ginetta – seguivo mio padre passo dopo passo, facendo tesoro dei suoi insegnamenti e dei nobili valori che mi inculcava, in modo particolare, quelli legati al concetto di libertà”.
Parole di elogio nei confronti dei due “protagonisti” della serata, il direttore Carrubba e la maestra Iemmolo, sono state espresse dal sindaco di Acate, professor Francesco Raffo, che, unitamente alla giunta comunale (presente al completo all’evento oltre al presidente del Consiglio Comunale e a numerosi consiglieri, sia di maggioranza che di minoranza), ha voluto assicurare il patrocinio dell’Ente Comune alla manifestazione culturale.

Visibilmente emozionato, il primo cittadino ha brevemente ricordato la figura del direttore Carrubba, definendolo “un preziosissimo collaboratore per la ricchezza dei suoi suggerimenti politico-amministrativi”, con un chiaro riferimento al periodo in cui entrambi si ritrovarono ad operare politicamente, Raffo nella veste di sindaco di una amministrazione di centrosinistra e Carrubba in quella di suo vice ed assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione.

Non sono mancate, poi, parole di elogio anche per la signora Iemmolo definita, sempre dal sindaco Raffo, “insostituibile protagonista della vita culturale acatese”. Quindi il primo cittadino ha tenuto a mettere in risalto l’importante ruolo del Castello dei Principi di Biscari, “vero e proprio tempio della cultura e quindi sede naturale per ricordare ed omaggiare personaggi, che hanno dato lustro alla città di Acate”.

Un breve ricordo sull’esperienza comune, vissuta quali componenti dell’apposito comitato, istituito in occasione della traslazione delle spoglie di San Vincenzo Martire, è stato tracciato dalla Delegata alla Cultura e Pubblica Istruzione, insegnante Immacolata Licitra.

Il professore Antonio Cammarana ha presentato un dettagliato profilo biografico di Gabriele Carrubba, partendo dalla sua esperienza adolescenziale fino agli ultimi anni della sua vita, percorrendo le tappe fondamentali dell’ attività lavorativa, culturale, politica, sociale al servizio della comunità acatese.
L’ultimo percorso doloroso dell’esistenza del direttore Carrubba è stato ricordato dal cognato, l’insegnante Biagio Mezzasalma. “Un tragico momento vissuto sempre con dignità, senza mai abbattersi, ma rifugiandosi, al contrario, negli affetti della famiglia e nelle attività culturali e letterarie della figlia Maria Teresa. Suo unico rammarico quello di non poter leggere personalmente le opere della figlia a causa delle sue ormai precarie condizioni di salute”.
“Un personaggio ed un cittadino esemplare che ha dato tantissimo alla sua Acate, di cui andava estremamente fiero ed orgoglioso”. Queste le parole iniziali dell’intervento dell’altro cognato, il professore Gaetano Masaracchio, il quale ha concluso dicendo che “Gabriele era un galantuomo. Per il suo carattere mite, che lo contraddistingueva, egli rappresentava non solo la saggezza, ma la mitezza personificata”.
La lunga militanza politica del direttore Carrubba, nelle file del Partito Socialista, è stata ricordata dal giornalista pubblicista Salvatore Cultraro, che ha definito l’illustre concittadino, “un alfiere della pace”.
Il ricordo del direttore Carrubba si è concluso con la commovente lettura del commiato in occasione dei funerali, che la professoressa Giovanna Laura Longo ha definito:” Una pagina sublime di cristiano commento, di rara bellezza e di intensità emotiva, quella che il reverendissimo Parroco don Rosario Di Martino rivolge a Gabriele Carrubba per affidare alla memoria il legame profondo che lo ha unito alla sua famiglia, per la quale ha profuso tutta la sua carica affettiva, insieme ad Ada, la compagna della sua vita; i tratti esemplari che ha lasciato alla comunità; il ricordo del suo essere stato padre, amico, fratello, compagno, ma soprattutto per chiedere alla tenerezza di Dio di accogliere, nella sua infinita Misericordia, l’anima di un Giusto alla fine del suo cammino terreno. Un commiato dal pathos trascinante e sofferto, che, con la levitas della parola, porta conforto ai suoi cari e trasmette vere ed autentiche emozioni, che toccano il cuore di tutti”.
Prima di passare alla consegna materiale del premio a Maria Iemmolo, due sue ex alunne hanno voluto ricordare brevemente la figura della loro amata maestra. Per l’insegnante Biagia Gravina, che si è definita con orgoglio una delle prime alunne, la Iemmolo è stata “una educatrice rigorosa, ma allo stesso tempo tenera e gentile, sempre pronta a far sue nuove esperienze didattiche e percorsi educativi alternativi”. “Da lei ho imparato la grinta e la determinazione, la forza di raggiungere gli obiettivi al di la delle barriere, al di la delle difficoltà”, ha invece sottolineato l’altra alunna, l’insegnante Biagia Lima. “Oltre che di conoscenza, la maestra Iemmolo ci nutriva di vita ed i suoi insegnamenti ho cercato di trasmetterli sempre ai miei figli”.
Quindi si è proceduto alla consegna alla maestra Maria Iemmolo del “Premio Gabriele Carrubba”, consistente in un’ artistica targa. Anche l’Amministrazione Comunale ha voluto donare alla signora maestra un gentile pensiero consistente in un omaggio floreale offerto dal sindaco Raffo. Visibilmente commossa per le manifestazioni di affetto e di stima, la Iemmolo, dopo aver ringraziato gli organizzatori della manifestazione, ha rivolto affettuose parole “al carissimo amico di sempre Gabriele” ed un elogio alla figlia Maria Teresa per la sua produzione letteraria. Quindi, dopo aver simpaticamente scherzato sulla sua “novantennale” esperienza ed attività, ha concluso il suo intervento con una pillola di saggezza: “Una maestra può insegnare a leggere e a scrivere, ma questo possono farlo tutti. La cosa difficile, invece, è contribuire a far crescere dei futuri cittadini e per fare ciò bisogna metterci il cuore”. A conclusione della serata, la famiglia Carrubba ha voluto ringraziare tutti i relatori, consegnando loro una pergamena ricordo.

Antonio Cammarana
Salvatore Cultraro

“PREMIO GABRIELE CARRUBBA” – 1 Edizione
Castello dei Principi di Biscari – sabato,19 aprile 2014 – ore 18
Intervento prof. Antonio Cammarana
Gabriele Carrubba: biografia

Il 24 luglio del 1925, a Biscari, da Giovanni Carrubba (intarsiatore del legno) e da Teresa Berrafato (ortopedica del popolo), secondo di tre figli, nasce Gabriele.
Fin dall’infanzia dimostra di avere un carattere forte ed estroverso, una intelligenza intuitiva che lo fa apprezzare, negli anni della scuola elementare, sia dal maestro Giuseppe Leone, sia dal poeta Carlo Addario, che nutriranno per Gabriele affetto e stima durature, invitando i genitori a far proseguire negli studi il ragazzo in cui hanno colto capacità intellettuali e desiderio di conoscenza.
La Seconda Guerra Mondiale dà, però, un corso diverso all’esistenza di Gabriele. Il padre viene fatto prigioniero in Africa, il fratello Giovanni, già nel corpo di polizia, viene chiamato alle armi. Sulle spalle di Gabriele, appena adolescente, cade il peso del sostentamento di una famiglia allargata, costituita dalla madre, dalla sorella Maria Rosa, dagli anziani nonni, che non godono di alcuna pensione.
Già accolto nell’Ufficio Postale di Biscari, che, nel frattempo, su proposta di Carlo Addario, dal 1938 ha preso il nome di Acate, Gabriele, per le notevoli doti di telegrafista, accetta pure di fare i turni di notte nel medesimo ufficio; perché qui può arrivare, in qualsiasi ora, dall’aeroporto di Comiso, tramite il telegrafo, il segnale di allarme delle incursioni aeree inglesi ed americane. Ricevuto il segnale Gabriele, per mezzo di un campanello, trasmette a don Pietro Ravidà il pericolo imminente e don Pietro, suonando le campane, invita la popolazione a mettersi al riparo.

Negli anni ’60 Gabriele vince il concorso di Direttore d’Ufficio Postale e dirigerà nell’ordine gli uffici di Fiumedinisi, di Scoglitti, di Niscemi e di Comiso, lasciando sempre un ricordo di professionalità, di competenza e di umanità.
A Fiumedinisi ritornerà con la memoria la figlia Maria Teresa, dando alle stampe il quaderno “Il cuore delle donne , il cuore di mia madre”, in cui traccerà un vivo e toccante ricordo sia di quella terra, sia di persone e cose.

Sentendo il desiderio di dare sempre il meglio al suo paese, anche nella terza età, Gabriele, ormai in pensione, vive all’insegna di una partecipazione attiva e costruttiva nel campo culturale sociale politico.
E’ tra coloro che progettano e realizzano il nuovo Plesso Scolastico di via Neghelli, intitolato nel 2011 al poeta Carlo Addario; l’illuminazione di via del Carmelo dall’angolo di via XX Settembre alla Piazza Francesco Crispi; l’acquisto del Castello dei Principi di Biscari, in seguito restaurato ed aperto al pubblico.
In qualità di assessore alla cultura dedica cure particolari alla Biblioteca Comunale “Enzo Maganuco”, promuovendo l’acquisto di testi, nonché la realizzazione di progetti e di attività culturali.
Come membro del Consiglio Pastorale un ruolo di prim’ordine ha nella vita della Parrocchia “San Nicola di Bari”, facendosi sempre portatore di proposte importanti quali l’acquisto della campana della Chiesa Madre, il restauro e il riordino della Chiesa di San Vincenzo.
Non a caso il nostro Parroco Don Rosario Di Martino, che Gabriele affianca costantemente nel corso degli anni, gli concede l’onore di consegnare al Vescovo Monsignor Angelo Rizzo, la chiave della chiesa stessa in occasione della Consacrazione avvenuta nel 1992.
Con la stessa forza d’animo con la quale era vissuto, affronta con serenità i mali che lo assalgono nell’ultima parte della sua esistenza e le prove durissime a cui il suo corpo deve sottostare e che sostiene (credo di non esagerare dicendo che “stoicamente” sostiene), avendo parole di coraggio per coloro che, a lui vicino, per lui hanno parole di conforto.
Serenamente consegnandosi nelle braccia del Padre Celeste, che tanto in opere gli aveva fatto realizzare e che tanto in sofferenza gli aveva chiesto di sopportare.

Antonio Cammarana

 

 

Acate, celebrati al castello dei principi di Biscari i 150 anni dell’unità d’Italia

150 anni unità ItaliaI 150 anni dell’Unità d’Italia sono stati degnamente celebrati al castello dei Principi di Biscari con una conferenza-dibattito tenuta dai professori Antonio Cammarana e Antonino Masaracchio, che hanno relazionato rispettivamente sul percorso storico dell’Unità e sugli aspetti umani e culturali dell’evento.
La manifestazione è stata organizzata in sinergia dall’Amministrazione comunale e dal circolo di conversazione, dove, in precedenza, era stato inaugurato il nuovo logo dell’antico sodalizio.
Nel corso della serata la Sig.na Silvana Toro ha donato al Primo Cittadino, Giovanni Caruso, copia del Decreto Regio dell’8 Marzo 1861, con il quale il prozio Rosario Di Geronimo fu nominato primo Sindaco della cittadina fino al 1863.

Emanuele Ferrera

 

La relazione del Professore Antonio Cammarana

Il 17 marzo del 1861 Camillo Benso Conte di Cavour, già Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno Sardo-Piemontese, portava al primo Parlamento italiano la legge che proclamava la costituzione del Regno d’Italia.
Per quanto riguarda il titolo, che doveva assumere Vittorio Emanuele II, si manifestarono due tendenze: la tendenza monarchica e moderata, la tendenza repubblicana e democratica.
La prima voleva che il sovrano prendesse il titolo di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia per grazia di Dio, allo scopo di mettere in risalto che l’Unità era avvenuta per iniziativa dei Savoia.
La seconda chiedeva che Vittorio Emanuele II si intitolasse Re d’Italia  per volontà della Nazione, allo scopo di evidenziare le prerogative della sovranità popolare.
Alla fine venne raggiunto un compromesso e il sovrano prese il titolo di Vittorio Emanuele II Re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della Nazione.
Per quanto riguarda la capitale del nuovo Regno essa restava ancora Torino, ma il Cavour dichiarò che avrebbe dovuto essere Roma, perché nessun’altra città d’Italia poteva reclamare gli stessi diritti a ospitare il governo del nuovo Regno.
Meno di tre mesi dopo il raggiungimento dell’Unità moriva Camillo Benso conte di Cavour.
L’Italia non avrà più un grande uomo di Stato della statura politica e della levatura morale di Cavour, sia con gli uomini della Destra storica, sia con gli uomini della Sinistra storica, sia con Francesco Crispi travolto dalla fine dell’avventura coloniale in Africa con la sconfitta di Adua, sia con Giovanni Giolitti, che lo storico Gaetano Salvemini, con una frase entrata nella storiografia internazionale, definì “il ministro della malavita”; ad eccezione di Alcide De Gasperi, l’unico che può stargli alla pari e della cui grandezza storica e del cui ruolo politico in tantissimi ci siamo dimenticati.

Nel campo internazionale, con il raggiungimento dell’Unità l’Italia fa il suo ingresso sia nell’Europa delle Costituzioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, del progresso tecnico e scientifico; sia nell’Europa, che comincia a porre le basi per la distruzione dei principi fondamentali della Ragione umana con la corsa all’espansione coloniale, con la politica imperialistica, con la volontà di potenza e predominio, soprattutto con il contrasto violento, sul piano economi e sul piano militare tra le due maggiori potenze -l’Inghilterra e la Germania (e con i rispettivi alleati)- che tanti lutti devastazioni e rovine porteranno nei primi cinquant’anni del 1900.

Nel campo nazionale con il raggiungimento dell’Unità nascono i grandi problemi del popolo italiano: nasce il problema di risanare il bilancio dello Stato con un elevata pressione fiscale; nasce il problema del Veneto, di Trento e di Trieste, ancora sotto il dominio austro-ungarico: il Veneto sarà conquistato nel 1866 in seguito a quella che gli storici chiamano la terza guerra d’indipendenza; Trento e Trieste rimarranno ancora austriache e diventeranno territori italiani nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale; nasce la questione romana: Roma diventerà capitale d’Italia nel 1870, ma tra lo Stato italiano e la Chiesa si aprirà un conflitto la cui soluzione dovrà aspettare il 1929 con Benito Mussolini, che firmerà i Patti Lateranenzi, e il 1984 con Bettino Craxi, che firmerà altri patti tra Stato e Chiesa; nasce il problema dei quadri militari garibaldini, cioè degli ufficiali di Garibaldi, che saranno ammessi nell’esercito regolare soltanto con una retrocessione di grado; nasce, soprattutto la Questione Meridionale e, a questo proposito, una precisazione va fatta: Tra il 1200 e il 1250, esattamente seicento anni prima, al tempo di Federico II di Svevia, tutta l’Italia meridionale, chiamata prima Regno di Sicilia, poi Regno delle Due Sicilie, fu il primo Stato moderno d’Europa nel campo delle lettere, delle scienze, della giurisprudenza, della medicina, dell’università, dell’economia, ma in modo particolare per la tolleranza verso tutti i popoli e verso tutte le religioni.
Quando Garibaldi e i Mille sbarcano a Marsala il Regno delle Due Sicilie non solo era in profonda decadenza, ma era anche guidato da un Re, Francesco II detto Franceschiello, incapace di essere all’altezza della situazione. Anche se aveva un esercito, una marina, una bandiera, una politica interna ed estera, buone relazioni internazionali, i rapporti tra le persone erano rapporti feudali e di vassallaggio, e la popolazione vedeva nello Stato una difesa degli interessi di pochi privilegiati e non di tutta la collettività, a causa di una economia di rapina della fatica quotidiana del lavoratore.
Nel momento in cui viene conquistato dai Mille e consegnato da Garibaldi, nell’incontro di Teano, a Vittorio Emanuele II, il Regno delle Due Sicilie da Regno diventa una Questione, la Questione Meridionale. Dal 1861 non è stata ancora risolta anche se è stata affrontata in vari modi.

Tante generazioni di italiani (e io assieme a loro) abbiamo appreso a scuola un concetto di Risorgimento paludato di retorica e intriso di luoghi comuni, non il Risorgimento quale realmente è stato.
Un esame rigoroso degli orientamenti della storiografia nazionale e internazionale ci consente di affermare con sicurezza che il Popolo non ha partecipato al Risorgimento, il Popolo è stato IL GRANDE ASSENTE del Risorgimento.
La mobilitazione patriottica alla diffusione delle idee, alla lotta, al combattimento, alla battaglia, non ha coinvolto gli operai, pochissimi in una società preindustriale come quella della penisola italiana e delle isole; non ha coinvolto i contadini: milioni e milioni di contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, curvavo la schiena a lavorare nei campi dall’alba al tramonto del sole per un pane nero, restando indifferenti ed estranei al moto risorgimentale e all’unità d’Italia. Non sono state le grandi masse popolari a fare la storia del Risorgimento e dell’Unità. Sono state le minoranze politiche (quella monarchica e quella militare, quella moderata e quella democratica).
Per cui sarà sempre nostro dovere civile e morale di uomini liberi ricordare -oltre le grandi figure di Cavour e di Vittorio Emanuele II, di Mazzini e di Garibaldi- quelle minoranze che comprendono
-i tenenti di cavalleria Morelli e Silvati e il generale Guglielmo Pepe;
-il conte Federico Confalonieri, il conte Santor di Santa Rosa, il gruppo del giornale “Il Conciliatore”, foglio scientifico-letterario conosciuto anche come il foglio azzurro dal colore della carta;
-Silvio Pellico, che, dopo vent’anni di carcere duro nella fortezza dello Spielberg in Moravia, scrisse il libro “Le mie prigioni”, che commosse profondamente gli animi e che fu per l’Austria come una battaglia perduta;
-L’eroico prete carbonaro Don Andreoli, Ciro Menotti, i martiri di Belfiore, in particolare il tipografo Amatore Sciesa, che prima di essere condotto alla fucilazione fu fatto passare davanti alla sua casa, alla moglie, al figlio e pronunciò la frase: “Tiremm innanz!” (meglio morire, che tradire!);
-Il giovanissimo Iacopo Ruffini, uccisosi in carcere, per non fare in un momento di debolezza, i nomi dei compagni;
-I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati nel Vallone di Rovito;
-Carlo Pisacane, della cui sfortunata impresa ci rimane la poesia “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini;
-I milanesi delle Cinque Giornate; Brescia, le leonessa d’Italia;
-I cinquemila studenti e professori dell’Università di Pisa e di Siena, che si sacrificarono a Curtadone e a Montanara;
-La carica di tre squadroni di cavalleria dei carabinieri del Maggiore Sanfront, nella battaglia di Pastrengo;
-La giornata di Magenta, che aprì ai Franco-Piemontesi la strada per Milano;
-La sanguinosissima battaglia per la conquista delle alture di Solferino e di San Martino;
-I Mille di Giuseppe Garibaldi.
Né possiamo tacere sull’attività svolta dalle donne:
-la contessa Teresa Casati Confalonieri;
-Matilde Viscontini;
-la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso;
-Anita Garibaldi;
-Jessie White, l’inglese che venne a combattere per l’Italia;
-le donne classiche, le donne romantiche, le donne liberali, le donne che accompagnano le fasi cruciali del Risorgimento dal 1821 al 1861 con le due tappe fondamentali dal 1848-49 e del 1859-60.
Ma due nomi – sopra tutti -, secondo me, e lo affermo con le prime tre parole della poesia “A Zacinto” Né Più Mai, due nomi Né Più Mai potranno essere dimenticati:
-il primo nome è quello di Ugo Foscolo scrittore, poeta, soldato, professore di eloquenza all’Università di Pavia, traduttore, saggista, critico letterario, storico della letteratura italiana, educatore (non solo con la parola, ma con l’esempio), ma soprattutto ESULE (prima in Svizzera, poi in Inghilterra), ESULE perché non volle vendere la propria libertà di pensiero, prestando il giuramento di fedeltà al nemico storico degli italiani, all’impero austriaco, che gli offriva denaro, onori e la direzione di un giornale. E poverissimo morì, nel 1827, nel villaggio inglese di Turnhan Green.
Solo 1871 le sue ceneri saranno portate a Firenze nella chiesa di Santa Croce, che tutto il mondo ci invidia e saranno poste accanto alle tombe di quei grandi (Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri), che il Foscolo aveva cantato nell’immortale poesia de “I Sepolcri”.
Il secondo nome è quello di Goffredo Mameli, autore della “Canzone degli italiani”, universalmente nota come “Inno di Mameli”, dove le parole “Vittoria” e “Morte”  non sono parole retoriche e vuote, perché Mameli – all’età di ventidue anni – le ha consacrate nel combattimento e con il sacrificio della propria vita, nella difesa della Repubblica Romana del 1849, il momento più glorioso del Risorgimento.
Senza il Risorgimento non ci sarebbe stata l’Unità e senza l’Unità l’Italia sarebbe ancora, come disse il principe di Metternich, soltanto un espressione geografica.
Credo però che una volta fatta l’Italia il cammino dell’Unità nazionale non sia stato sorretto da una profonda coscienza unitaria verso tutte le classi sociali sia nel diritto (come diritto comune), sia nel dovere (come dovere comune), sia nella giustizia (come giustizia comune): il diritto il dovere la giustizia, i tre elementi fondamentali, secondo me, del SOGNO –  IL GRANDE SOGNO – di coloro che hanno dato la vita per il Risorgimento e per l’Unità.