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Quando la gallina in brodo odorava di cannella.

San Giuseppe Acate
Il giorno di San Giuseppe, quando era piccolo, alle otto del mattino, Ignazio era già fuori dal letto. Lesto lesto si lavava si vestiva e raggiungeva in piazza i musicanti, che controllavano per l’ultima volta i loro strumenti, prima che il maestro li mettesse tutti in fila e desse il colpo di bacchetta per l’inizio della prima marcia: perché, per suonare per le vie del paese, si deve essere tutti ordinati in riga uno davanti e accanto all’altro, come tanti soldatini che debbono sfilare innanzi al loro comandante.
Quando il serpentone musicale si muoveva, Ignazio correva a mettersi dietro l’ultima fila e, con il corpo bandistico, faceva il giro del paese; e vedeva, in una volta sola, tutte le abitazioni e le strade per le quali, nel corso dell’anno, non passava mai: case basse dai muri sbrecciati; stradine mal tenute con tanto di buche nel terreno, ove si formavano pozzanghere d’inverno; cacate di vacca, larghe quanto impanate di pane, che gli spazzini, nel giorno di festa, non eliminavano; galline dentro larghe gabbie di legno, collocate sopra i marciapiedi accanto alle porte di casa; asini muli cavalli legati alla “boccola”. Uno spettacolo, che si ripeté sempre durante l’infanzia e la fanciullezza, che ogni anno rendeva felice Ignazio, perché lo metteva a contatto con la realtà sconosciuta e marginale del paese, ove l’umanità che ci viveva non trovava strano, né incivile essere tutt’uno con l’animale e i suoi escrementi.

Poi, dopo che i musicanti avevano finito di fare il giro del paese, Ignazio andava in piazza a trovare i compagni e, assieme a loro, passeggiava per i vialetti della villa comunale, ai genitori dando a credere di essere in Chiesa, come un ragazzino devoto. Terminata la funzione religiosa, mentre la Chiesa si svuotava e i fedeli affollavano il Corso del paese per fare bella mostra dell’abito nuovo, Ignazio con i compagni si metteva in mezzo a quella piccola folla e ci restava fino al tocco della campana di mezzogiorno.
Quindi il gruppo si scioglieva e Ignazio andava a casa sua, felice, perché sapeva che quel giorno, a tavola, ci sarebbe stata la gallina in brodo, che odorava di cannella: anche sua madre teneva le galline nella gabbia di legno vicino alla porta, ma nella strada parallela alla via principale.
Ora Ignazio non andava più appresso alla banda del paese, perché si era fatto grande e a tavola, a mezzogiorno, non c’era più il brodo, né la gallina che odoravano di cannella. Dacché la madre era morta, la gallina in brodo era diventata soltanto un ricordo del passato, un passato lontano, di quando il paese era ancora piccolo e attorno ad esso vi era il “bosco” e i più piccini giocavano nel tratto di strada di fronte alla propria casa e si viveva tutti raccolti attorno alle piccole cose, che rendevano felici e la felicità costava quattro soldi.

Nel pomeriggio della domenica di San Giuseppe, c’era pure la “cena” e il santo raccoglieva molto in offerte sia in denaro che in natura.
E sotto un sole che, a marzo, non era ancora cocente, Giuseppe Occhipinti, di cui si tace il soprannome passato alla storia, membro della commissione della festa, sopra un palco di legno costruito per l’occasione, levava in alto le offerte al santo e – “Cento lire uno, cento lire due, cento lire tre, aggiudicato! Viva san Giuseppe!” – i paesani portavano a casa ora una torta di ricotta con codette colorate, ora un mazzo di asparagi, ora un canestro di pane casereccio, ora un’altra delle tante diavolerie, che le nonne e le mamme riuscivano sempre ad inventare, per rendere la famiglia più devota al santo e il santo più disposto verso la famiglia: perché quelli erano tempi avari per tutti e il buon cuore generoso, dimostrato verso il santo, che si vede soprattutto quando si vive in ristrettezze, poteva voler dire, per il piccolo proprietario, il miracolo di una buona annata e, per il contadino, molte giornate di lavoro durante l’anno.
Così, una dopo l’altra, le offerte venivano alzate al cielo, ché tutti potessero vederle e ognuno potesse comprare quella che più gli piaceva.
Era un via vai continuo di uomini dalla piazza verso casa con le cose acquistate e dalla casa verso la piazza per le offerte; e la “cena” andava seguita fino all’ultimo, tutti tenendoci a sapere quanto avesse fruttato, perché l’ingenuità popolare era solita collegare il ricavato della cena al rumore e alla quantità di mortaretti, che sarebbero stati fatti esplodere la sera sia all’uscita che al rientro del santo, di fronte alla Chiesa Madre.

Antonio Cammarana

Il narratore porta a consapevolezza
universale i contenuti particolari, che dormono
nella memoria della comunità
A.C.

La figura di Ipazia, la prima donna scienziato assassinata.

Ipazia

All’inizio del terzo millennio 190 Stati membri hanno chiesto all’UNESCO di “creare un progetto internazionale”, che favorisca “piani scientifici al femminile”, per realizzare “un migliore equilibrio nella partecipazione di entrambi i sessi alla scienza e al progresso”. Questo progetto internazionale è stato chiamato dall’UNESCO con il nome di IPAZIA. Ma chi era Ipazia?
Ipazia (370 – 415 d.C.) fu la prima donna scienziato barbaramente assassinata da una turba di monaci fanatici nel marzo del 415 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Per Ipazia, che da sempre rappresenta, secondo Margherita Hack, “il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza”, il prof. Antonio Cammarana ha scritto “Ipazia, fiaccola della conoscenza”.
Fonti antiche – sia di tradizione ellenica, sia di tradizione bizantina, sia di tradizione alessandrina, sia di tradizione cristiana – concordano nel dire che IPAZIA fu donna di rara bellezza, di grande saggezza, di eccezionale intelligenza; che fu astronoma, matematica, filosofa; che realizzò l’astrolabio, l’idroscopio, l’aerometro; che – come leggiamo nella voce biografica della SUDA (o SUIDA, lessico enciclopedico bizantino, secolo X) – fu autrice (anche se delle sue opere non è rimasto nulla) del Commento all’Aritmetica di Diofanto, del Commento alle Coniche di Apollonio di Perga, del Canone Astronomico; che dall’ideale classico dell’educazione acquisì autocontrollo, franchezza, imperturbabilità nell’eloquio, diventando una maestra del modo di vita ellenico (hellenike diagoge), mai in contraddizione violenta con il rispetto delle opinioni altrui, nel quadro di un equilibrato pluralismo, che risaliva alla tradizione dell’antica AGORA’ greca.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nel 370 d.C. Dal padre, il matematico Teone, che curò il Commento all’Almagesto di Claudio Tolomeo e l’edizione degli Elementi di Euclide, fu iniziata agli studi di Matematica e di Filosofia; e, ben presto, più ricco di quello di Teone, si rivelò il di lei pensiero, sul piano filosofico e sul piano scientifico, tanto da diventare la degna erede della sua dottrina e della “Scuola Alessandrina, la più importante comunità scientifica della storia, dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo e tutti i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale” (Petta, 2009).

Ipazia teneva le sue lezioni in sedute pubbliche (DEMOSIA) e insedute private (IDIA). Sedute pubbliche erano quelle legate alla sua pubblica cattedra nella rinata Scuola del “Museo”; sedute private erano quelle che Ipazia teneva nella sua abitazione, situata a non molta distanza dal Centro cittadino, ad una ristretta cerchia di alunni, che facevano parte del suo circolo esoterico – “l’elite dei suoi discepoli” – figli dei rappresentanti sia della classe dominante, sia della classe governativa della città. Oltre ad impartire lezioni pubbliche e lezioni private, Ipazia portava l’insegnamento fuori della scuola, tra la gente, per le strade della città; e indossava il TRIBON (nell’antichità il mantello filosofico tout court); che, in età protobizantina e tardoantica, non era più il mantello di ruvida cappa grezza da portarsi sulla nuda pelle, già comune ai filosofi di varie scuole e agli Spartiati della società spartana, ma una veste ufficiale, protocollare, che ricadeva fino ai piedi (Ronchey 2010).

Una scelta di vita, quella di Ipazia, definita da Luciano Canfora, nella sua “Storia della letteratura greca” (2001), una scelta maschile, di un ruolo tradizionalmente maschile, che si configura come sfida dell’establishment cristiano e radicale rottura della tradizione. Non solo. Ipazia é una donna, che rifiuta di annullarsi ed anzi si mette a fare un mestiere degli uomini (predicare alla gente) pur essendo, appunto in quanto donna, lo strumento del peccato e di perdizione che tanta letteratura patristica ravvisa nel suo sesso. Inoltre Ipazia è accusata dagli ecclesiastici di influire negativamente sul prefetto imperiale Oreste, provocando diffidenza avversione inimicizia nei confronti del vescovo Cirillo.

Cirillo, diventato vescovo di Alessandria (412 d.C.), sa già che la partita per il potere si gioca tra la comunità cristiana, la comunità pagana e la comunità ebraica. Con il pretesto di vendicare un agguato notturno contro i cristiani da parte degli ebrei, il vescovo Cirillo usa i parabolani, monaci dei monti di Nitria (ad Alessandria sono la sua milizia privata) per aizzare il popolo cristiano all’assalto e al saccheggio delle case degli ebrei, i quali, spogliati dei loro beni, sono costretti a lasciare in massa la città. Alla dura protesta mandata a Costantinopoli dal prefetto augustale Oreste, il vescovo risponde con l’assalto al corteo del prefetto, che viene colpito alla testa dal monaco Ammonio, il quale, arrestato, morirà sotto tortura, ma di cui il vescovo tesserà l’elogio funebre, chiamandolo Taumasio, cioè il mirabile, offendendo apertamente il prefetto. Quando si rende conto che l’ala più moderata degli ecclesiastici si schiera dalla parte di Oreste, il vescovo chiede udienza al prefetto, portandogli in dono il libro dei Vangeli, ma Oreste non dà alcun segno di mettere da parte il suo risentimento. Così il contrasto tra il prefetto imperiale e il vescovo continua in modo più esacerbato di prima.

In questo clima di ostilità si colloca l’orribile fine di Ipazia, di cui il mondo tardoantico ci ha lasciato due fondamentali testimonianze: quella dello storico Damascio e quella dello storico Socrate scolastico. Secondo la prima il vescovo Cirillo, esasperato “alla vista dell’enorme folla, che si accalcava davanti alla porta di Ipazia per la SALUTATIO (visita di cortesia, omaggio), tramò la sua uccisione, crimine empio tra tutti i crimini (Canfora, 2001)”. La seconda testimonianza insiste sulla causa politica del crimine, fondata sul convincimento, da parte del clero di Alessandria e del vescovo Cirillo, dell’influenza di Ipazia sul prefetto imperiale d’Egitto, Oreste, e, di conseguenza, sulla persuasione del pericolo da lei rappresentato in una città inquieta e importante come Alessandria” (Canfora, 2001).

La spedizione per eliminare Ipazia è capeggiata da un certo Pietro, lettore della Chiesa di Alessandria. Pietro il lettore e una moltitudine di monaci parabolani aspettano il rientro di Ipazia da una delle sue pubbliche apparizioni; e, quando la donna ferma la sua carrozza davanti alla sua abitazione, la tirano giù in modo violento, la trascinano prima dentro la grande chiesa, chiamata Cesareo, illuminata da centinaia di lampadari a trilumi e dalle torce accese dai
monaci; poi davanti all’altare; quindi le strappano di dosso il mantello, le squarciano la tunica bianca e ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia non viene violentata. Secondo la terminologia pagana, Ipazia è sacrificata.
Secondo la terminologia cristiana, Ipazia è martirizzata.

Se Damascio chiama gli uccisori di Ipazia hoi sphageis, i macellai, gli immolatori, Socrate scolastico e Filostorgio usano il verbo diaspao, fare a brandelli, tecnico per indicare lo smembramento rituale della vittima (Ronchey 2010).

Nella sua “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88)”, lo storico Edward Gibbon afferma che “Ipazia fu disumanamente macellata dalle mani di Pietro il lettore, che le cavò gli occhi; e da quelle di una ciurma di selvaggi e di implacabili fanatici”, che servendosi di cocci taglienti di terracotta, prima le strapparono la pelle e la carne dalle ossa, poi la eviscerarono e la smembrarono, infine bruciarono ciò che rimaneva del suo corpo nel Cinerone della città di Alessandria.

La morte di Ipazia, nel V secolo dopo Cristo, non costituisce la fine di un’epoca, ma come avevano intuito sia Denis Diderot, sia Reneé Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia diventa una fiaccola della conoscenza, la cui luce illuminerà il cammino delle idee di altre donne, di altri uomini; fiaccola che arriverà all’Umanesimo con la centralità della “dignitas hominis” nel mondo; all’Illuminismo con la centralità della “ragione” come guida critica del pensiero e dell’azione dell’uomo; a tutte le altre correnti di opinione, che hanno fatto di Ipazia, come dice Margherita Hack, il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, un’icona della libertà di pensiero.

Antonio Cammarana

Ipazia, fiaccola della conoscenza
All’umanità: In ogni tempo, presso ogni luogo,
il male, anche se orribile, è preferibile subirlo, piuttosto che farlo.

A.C.

ANGELI – Una ballata lirica dedicata a Giuseppe Gulotta, libero dopo vent’anni

Giuseppe Gulotta

Giuseppe Gulotta, che ha trascorso – incolpevole – oltre vent’anni in carcere, imputato al processo di revisione per la strage di Alcamo Marina in cui vennero uccisi due carabinieri il 27 gennaio 1976, è stato assolto dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, è stato restituito alla libertà.

ANGELI
Viene il tempo in cui il poeta
canta il ritorno del divino
nel mondo.
A.C.

Silenziosa la sorgente ruscèlla,
vicino a me
sopra una pietra del bosco seduto,
mentre pianti lontani di giustizia
portati dal vento
il mio cuore ascolta,
mentre scie luminose
i miei occhi vedono passare
e le ali già mettono all’umana
nostalgia del divino.

Non so
cosa vogliano dire
i punti di luce dentro celle buie,
scie luminose attorno alle nere carceri.
Udii
parlare di angeli,
splendenti di luce dal cielo
discendono,
chi,
condanne ingiuste patisce,
nel silenzio della notte,
soccorrono.

Limpida acqua dalla sorgente ruscèlla,
vicino a me
sopra una pietra del bosco seduto,
vicino a me
pianti lontani di giustizia
portati dal vento
il mio cuore ha sentito;
vicino a me
scie luminose
i miei occhi hanno visto passare
e le ali hanno messo all’umana
nostalgia del divino.

Punti di luce,
dentro celle buie dei carcerati
incolpevoli,
aleggiano,
scie luminose
le nere carceri tutte
circondano,
punti di luce
scie luminose
di angeli più dell’oro splendenti,
punti di luce
scie luminose di angeli
le ali già mettono all’umana
nostalgia del divino
nella terra universa.

Si spengono i punti di luce
dentro le celle buie,
dalle nere carceri
s’alzano scie luminose,
sulla soglia dei luoghi di pena
stanno i carcerati incolpevoli
liberi.
Cantano,
vicino a me
sopra una pietra del bosco seduto,
mentre silenziosa la sorgente ruscèlla,
l’usignolo e l’allodola,
la capinera e il passero,
veloce corre la gazzella,
la segue il cerbiatto,
saltella il coniglio,
si muove il tasso.
Guardano, nel cielo lontano,
i carcerati incolpevoli
liberi
le scie luminose
che angeli precedono e seguono,
angeli
splendenti di luce
che al cielo ascendono,
angeli
splendenti di luce
che dal cielo discesero
per soccorrere,
nel silenzio della notte,
chi
le condanne ingiuste patì
con dolore profondo.

Quieta la sorgente ruscèlla,
vicino a me
sopra una pietra del bosco seduto,
mentre guardo dentro il mio cuore
che le ali già mette all’umana
nostalgia del divino,
mentre ascolto il canto
dell’usignolo e dell’allodola,
della capinera e del passero,
mentre guardo la corsa
della gazzella e del cerbiatto,
i salti del coniglio,
i movimenti del tasso,
mentre il vento mi bagna
con le lacrime felici
dei carcerati incolpevoli,
che al mondo annunziano,
con la riacquistata libertà,
il ritorno di Dio sulla terra universa
per mezzo del canto puro del poeta.

Antonio Cammarana

Acate, celebrati al castello dei principi di Biscari i 150 anni dell’unità d’Italia

150 anni unità ItaliaI 150 anni dell’Unità d’Italia sono stati degnamente celebrati al castello dei Principi di Biscari con una conferenza-dibattito tenuta dai professori Antonio Cammarana e Antonino Masaracchio, che hanno relazionato rispettivamente sul percorso storico dell’Unità e sugli aspetti umani e culturali dell’evento.
La manifestazione è stata organizzata in sinergia dall’Amministrazione comunale e dal circolo di conversazione, dove, in precedenza, era stato inaugurato il nuovo logo dell’antico sodalizio.
Nel corso della serata la Sig.na Silvana Toro ha donato al Primo Cittadino, Giovanni Caruso, copia del Decreto Regio dell’8 Marzo 1861, con il quale il prozio Rosario Di Geronimo fu nominato primo Sindaco della cittadina fino al 1863.

Emanuele Ferrera

 

La relazione del Professore Antonio Cammarana

Il 17 marzo del 1861 Camillo Benso Conte di Cavour, già Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno Sardo-Piemontese, portava al primo Parlamento italiano la legge che proclamava la costituzione del Regno d’Italia.
Per quanto riguarda il titolo, che doveva assumere Vittorio Emanuele II, si manifestarono due tendenze: la tendenza monarchica e moderata, la tendenza repubblicana e democratica.
La prima voleva che il sovrano prendesse il titolo di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia per grazia di Dio, allo scopo di mettere in risalto che l’Unità era avvenuta per iniziativa dei Savoia.
La seconda chiedeva che Vittorio Emanuele II si intitolasse Re d’Italia  per volontà della Nazione, allo scopo di evidenziare le prerogative della sovranità popolare.
Alla fine venne raggiunto un compromesso e il sovrano prese il titolo di Vittorio Emanuele II Re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della Nazione.
Per quanto riguarda la capitale del nuovo Regno essa restava ancora Torino, ma il Cavour dichiarò che avrebbe dovuto essere Roma, perché nessun’altra città d’Italia poteva reclamare gli stessi diritti a ospitare il governo del nuovo Regno.
Meno di tre mesi dopo il raggiungimento dell’Unità moriva Camillo Benso conte di Cavour.
L’Italia non avrà più un grande uomo di Stato della statura politica e della levatura morale di Cavour, sia con gli uomini della Destra storica, sia con gli uomini della Sinistra storica, sia con Francesco Crispi travolto dalla fine dell’avventura coloniale in Africa con la sconfitta di Adua, sia con Giovanni Giolitti, che lo storico Gaetano Salvemini, con una frase entrata nella storiografia internazionale, definì “il ministro della malavita”; ad eccezione di Alcide De Gasperi, l’unico che può stargli alla pari e della cui grandezza storica e del cui ruolo politico in tantissimi ci siamo dimenticati.

Nel campo internazionale, con il raggiungimento dell’Unità l’Italia fa il suo ingresso sia nell’Europa delle Costituzioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, del progresso tecnico e scientifico; sia nell’Europa, che comincia a porre le basi per la distruzione dei principi fondamentali della Ragione umana con la corsa all’espansione coloniale, con la politica imperialistica, con la volontà di potenza e predominio, soprattutto con il contrasto violento, sul piano economi e sul piano militare tra le due maggiori potenze -l’Inghilterra e la Germania (e con i rispettivi alleati)- che tanti lutti devastazioni e rovine porteranno nei primi cinquant’anni del 1900.

Nel campo nazionale con il raggiungimento dell’Unità nascono i grandi problemi del popolo italiano: nasce il problema di risanare il bilancio dello Stato con un elevata pressione fiscale; nasce il problema del Veneto, di Trento e di Trieste, ancora sotto il dominio austro-ungarico: il Veneto sarà conquistato nel 1866 in seguito a quella che gli storici chiamano la terza guerra d’indipendenza; Trento e Trieste rimarranno ancora austriache e diventeranno territori italiani nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale; nasce la questione romana: Roma diventerà capitale d’Italia nel 1870, ma tra lo Stato italiano e la Chiesa si aprirà un conflitto la cui soluzione dovrà aspettare il 1929 con Benito Mussolini, che firmerà i Patti Lateranenzi, e il 1984 con Bettino Craxi, che firmerà altri patti tra Stato e Chiesa; nasce il problema dei quadri militari garibaldini, cioè degli ufficiali di Garibaldi, che saranno ammessi nell’esercito regolare soltanto con una retrocessione di grado; nasce, soprattutto la Questione Meridionale e, a questo proposito, una precisazione va fatta: Tra il 1200 e il 1250, esattamente seicento anni prima, al tempo di Federico II di Svevia, tutta l’Italia meridionale, chiamata prima Regno di Sicilia, poi Regno delle Due Sicilie, fu il primo Stato moderno d’Europa nel campo delle lettere, delle scienze, della giurisprudenza, della medicina, dell’università, dell’economia, ma in modo particolare per la tolleranza verso tutti i popoli e verso tutte le religioni.
Quando Garibaldi e i Mille sbarcano a Marsala il Regno delle Due Sicilie non solo era in profonda decadenza, ma era anche guidato da un Re, Francesco II detto Franceschiello, incapace di essere all’altezza della situazione. Anche se aveva un esercito, una marina, una bandiera, una politica interna ed estera, buone relazioni internazionali, i rapporti tra le persone erano rapporti feudali e di vassallaggio, e la popolazione vedeva nello Stato una difesa degli interessi di pochi privilegiati e non di tutta la collettività, a causa di una economia di rapina della fatica quotidiana del lavoratore.
Nel momento in cui viene conquistato dai Mille e consegnato da Garibaldi, nell’incontro di Teano, a Vittorio Emanuele II, il Regno delle Due Sicilie da Regno diventa una Questione, la Questione Meridionale. Dal 1861 non è stata ancora risolta anche se è stata affrontata in vari modi.

Tante generazioni di italiani (e io assieme a loro) abbiamo appreso a scuola un concetto di Risorgimento paludato di retorica e intriso di luoghi comuni, non il Risorgimento quale realmente è stato.
Un esame rigoroso degli orientamenti della storiografia nazionale e internazionale ci consente di affermare con sicurezza che il Popolo non ha partecipato al Risorgimento, il Popolo è stato IL GRANDE ASSENTE del Risorgimento.
La mobilitazione patriottica alla diffusione delle idee, alla lotta, al combattimento, alla battaglia, non ha coinvolto gli operai, pochissimi in una società preindustriale come quella della penisola italiana e delle isole; non ha coinvolto i contadini: milioni e milioni di contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, curvavo la schiena a lavorare nei campi dall’alba al tramonto del sole per un pane nero, restando indifferenti ed estranei al moto risorgimentale e all’unità d’Italia. Non sono state le grandi masse popolari a fare la storia del Risorgimento e dell’Unità. Sono state le minoranze politiche (quella monarchica e quella militare, quella moderata e quella democratica).
Per cui sarà sempre nostro dovere civile e morale di uomini liberi ricordare -oltre le grandi figure di Cavour e di Vittorio Emanuele II, di Mazzini e di Garibaldi- quelle minoranze che comprendono
-i tenenti di cavalleria Morelli e Silvati e il generale Guglielmo Pepe;
-il conte Federico Confalonieri, il conte Santor di Santa Rosa, il gruppo del giornale “Il Conciliatore”, foglio scientifico-letterario conosciuto anche come il foglio azzurro dal colore della carta;
-Silvio Pellico, che, dopo vent’anni di carcere duro nella fortezza dello Spielberg in Moravia, scrisse il libro “Le mie prigioni”, che commosse profondamente gli animi e che fu per l’Austria come una battaglia perduta;
-L’eroico prete carbonaro Don Andreoli, Ciro Menotti, i martiri di Belfiore, in particolare il tipografo Amatore Sciesa, che prima di essere condotto alla fucilazione fu fatto passare davanti alla sua casa, alla moglie, al figlio e pronunciò la frase: “Tiremm innanz!” (meglio morire, che tradire!);
-Il giovanissimo Iacopo Ruffini, uccisosi in carcere, per non fare in un momento di debolezza, i nomi dei compagni;
-I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati nel Vallone di Rovito;
-Carlo Pisacane, della cui sfortunata impresa ci rimane la poesia “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini;
-I milanesi delle Cinque Giornate; Brescia, le leonessa d’Italia;
-I cinquemila studenti e professori dell’Università di Pisa e di Siena, che si sacrificarono a Curtadone e a Montanara;
-La carica di tre squadroni di cavalleria dei carabinieri del Maggiore Sanfront, nella battaglia di Pastrengo;
-La giornata di Magenta, che aprì ai Franco-Piemontesi la strada per Milano;
-La sanguinosissima battaglia per la conquista delle alture di Solferino e di San Martino;
-I Mille di Giuseppe Garibaldi.
Né possiamo tacere sull’attività svolta dalle donne:
-la contessa Teresa Casati Confalonieri;
-Matilde Viscontini;
-la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso;
-Anita Garibaldi;
-Jessie White, l’inglese che venne a combattere per l’Italia;
-le donne classiche, le donne romantiche, le donne liberali, le donne che accompagnano le fasi cruciali del Risorgimento dal 1821 al 1861 con le due tappe fondamentali dal 1848-49 e del 1859-60.
Ma due nomi – sopra tutti -, secondo me, e lo affermo con le prime tre parole della poesia “A Zacinto” Né Più Mai, due nomi Né Più Mai potranno essere dimenticati:
-il primo nome è quello di Ugo Foscolo scrittore, poeta, soldato, professore di eloquenza all’Università di Pavia, traduttore, saggista, critico letterario, storico della letteratura italiana, educatore (non solo con la parola, ma con l’esempio), ma soprattutto ESULE (prima in Svizzera, poi in Inghilterra), ESULE perché non volle vendere la propria libertà di pensiero, prestando il giuramento di fedeltà al nemico storico degli italiani, all’impero austriaco, che gli offriva denaro, onori e la direzione di un giornale. E poverissimo morì, nel 1827, nel villaggio inglese di Turnhan Green.
Solo 1871 le sue ceneri saranno portate a Firenze nella chiesa di Santa Croce, che tutto il mondo ci invidia e saranno poste accanto alle tombe di quei grandi (Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri), che il Foscolo aveva cantato nell’immortale poesia de “I Sepolcri”.
Il secondo nome è quello di Goffredo Mameli, autore della “Canzone degli italiani”, universalmente nota come “Inno di Mameli”, dove le parole “Vittoria” e “Morte”  non sono parole retoriche e vuote, perché Mameli – all’età di ventidue anni – le ha consacrate nel combattimento e con il sacrificio della propria vita, nella difesa della Repubblica Romana del 1849, il momento più glorioso del Risorgimento.
Senza il Risorgimento non ci sarebbe stata l’Unità e senza l’Unità l’Italia sarebbe ancora, come disse il principe di Metternich, soltanto un espressione geografica.
Credo però che una volta fatta l’Italia il cammino dell’Unità nazionale non sia stato sorretto da una profonda coscienza unitaria verso tutte le classi sociali sia nel diritto (come diritto comune), sia nel dovere (come dovere comune), sia nella giustizia (come giustizia comune): il diritto il dovere la giustizia, i tre elementi fondamentali, secondo me, del SOGNO –  IL GRANDE SOGNO – di coloro che hanno dato la vita per il Risorgimento e per l’Unità.