Archivi tag: Biscari

“Obiettivo Biscari”. Il saggio di Anfora e Pepi presentato da Antonio Cammarana alla Società Operaia

Obiettivo Biscari
Sabato 30 novembre, nei locali dello storico sodalizio, “Società Operaia di Mutuo Soccorso ” di Acate, fondato nel 1869, ho avuto l’onore di presentare il saggio storico “Obiettivo Biscari: 9-14 luglio 1943. Dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504” di Domenico Anfora e Stefano Pepi, pubblicato dalla Casa Editrice Mursia di Milano, “che sta compiendo un lavoro egregio di analisi dei fatti realmente accaduti durante l’invasione alleata”;
segnalato e recensito da diverse testate giornalistiche da “La Sicilia” al “Giornale di Sicilia”, da “Libero” al “Giornale”, da “Il Fatto Quotidiano” a “La Repubblica” a “Rinascita”, a “Il Secolo d’Italia”, al “The Times” di Londra.
In qualità di coordinatore della serata ho evidenziato che il volume ha meriti e punti di forza: ci accompagna a rivivere i luoghi, i volti, le vicende drammatiche, gli scontri cruenti; mette in risalto che, tra la sera del 9 e la mattina del 14 luglio 1943, “si scatenò una sanguinosa battaglia nel triangolo di Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate”; ci offre una documentazione storica attendibile che – oltre alle uccisioni di prigionieri di guerra e di civili che, già conosciamo da precedenti pubblicazioni – fa luce sulla strage dei Carabinieri compiuta dagli Americani a Passo di Piazza e sulla strage di militari italiani e tedeschi compiuta sempre dagli Americani all’Aeroporto di Comiso; si fregia, inoltre, dell’autorevole Prefazione del Tenente Colonnello, Dottor Giovanni Iacono, il quale definisce il libro “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia del luglio-agosto 1943”.
Ho dato, poi, la parola al Presidente Saverio Caruso, che si è detto orgoglioso di ospitare un evento di così notevole interesse culturale.
“L’invasione del territorio di Acate da parte delle truppe americane – ha riferito – l’ho vissuta da testimone oculare, anche se all’epoca avevo circa 9 anni. Mi ricordo delle bombe sganciate nel paese e delle violente esplosioni che provocarono diversi morti e feriti, generando grande panico tra la popolazione. Sono più che convinto che il bombardamento fu effettuato per la presenza di due camion tedeschi fermi nella strada principale del paese, tra via XX Settembre e via Roma”.
A seguire l’intervento del Sindaco Franco Raffo, il quale si è complimentato con gli autori del libro per aver fornito ancora un frammento di storia e di vita della nostra cittadina nelle atrocità della guerra.
Il Tenente Colonnello Giovanni Iacono, poi, si è soffermato sugli scontri che hanno avuto luogo “nelle vicinanze del bivio di Biscari, lungo la Statale 115, in località Biazzo; e nella “mossa a tenaglia” di “due battaglioni verso Biscari, uno da Sud, cioè dalla strada che va verso la SS 115, ed un altro da Est, proveniente da Vittoria e che si trovava già attestata nella zona di Monte Calvo”, da dove “bombardava il paese credendolo presidiato dalle truppe tedesche, che in realtà si ritiravano verso Caltagirone”, dopo avere lasciato “tra le retroguardie un carro armato Tigre, che muoveva lungo Corso Indipendenza e che sparava sia verso gli Americani provenienti dalla SS 115, sia verso quelli provenienti da Vittoria. Forse a salvare Biscari dai bombardamenti americani furono alcuni coraggiosi cittadini che andarono incontro al Gen. Mc Lain, che stava comandando l’attacco, il sig. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese, il calzolaio Giovanni Gallo ed il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma. Questi, a rischio della propria vita, s’incamminarono verso la chianata a Serra, che corrisponde dove c’è la rotonda andando per Vittoria, venendo fermati dagli Americani ai quali comunicarono che dentro il paese erano rimasti solo pochissimi tedeschi e che erano in fase di ritirata. Li pregarono di smettere quindi il bombardamento del paese. Non fidandosi gli Americani li fecero salire su una Jeep e li tennero come ostaggi, mentre le compagnie si avviavano verso il centro abitato. Vi furono delle scaramucce contro gli ultimi soldati tedeschi che si erano attardati nella ritirata, ma alle venti Biscari era in mano americana”.
Tra i presenti anche il signor Cesare Pompilio, che ha rievocato, con viva commozione, con la sua testimonianza diretta di ragazzino di 9 anni, episodi di guerra che offrivano uno spettacolo allucinante, di morti orrendamente mutilati tra grida e lamenti dei sopravvissuti. Purtroppo non mancò, tra tanto disastro, chi cercò di approfittare della situazione con indegni atti di sciacallaggio, tra le rovine delle case bombardate o abbandonate, alla ricerca di denaro e di effetti personali.  Il volume, ha affermato Stefano Pepi nel suo intervento, è nato per caso, quando davanti al casale di sua proprietà, nel territorio di Vittoria, in località Casazza, vede aggirarsi Domenico Anfora attratto da alcuni particolari (presenza di varie feritoie rivolte verso la strada) e da una iscrizione su “un capitello di una delle entrate di destra sul quale vi era inciso 179° U.S.”, che gli destano curiosità.
Dopo un primo malinteso e lo scambio di reciproci chiarimenti, tra i due nasce una forte sinergia. E’ l’inizio di una grande amicizia e di una valida collaborazione tra la consolidata esperienza di serio ricercatore storico vizzinese e ” l’uomo entusiasta col fiuto dell’investigatore”. Un unico denominatore comune: la passione per la ricerca storica sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e l’amore per la verità. Da qui i motivi che hanno spinto Domenico Anfora e Stefano Pepi a cimentarsi in un “lavoro di ricerca, d’indagine, di studio sulla battaglia di Biscari, che insanguinò il territorio compreso tra Acate, Niscemi, Ponte Dirillo, Vittoria”. Una impresa entusiasmante e interessante – aggiunge Domenico Anfora nel suo intervento – che nasce “sul campo”, ispezionando luoghi, consultando archivi, interagendo con le cronache del tempo, ricercando documenti inediti, intervistando testimoni. Indimenticabile l’incontro con Riccardo Mangano, pronipote del Podestà di Acate, Giuseppe Mangano, che insieme al figlio Valerio e al fratello Tenente Medico Ernesto, fu vittima di una strage perpetrata dagli Americani a Vittoria.

Antonio Cammarana

I Crimini di guerra americani nei primi giorni dell’operazione Husky. Compendio.

Compendio
Tanti, forti e profondi dovettero essere i sentimenti provati dal nemico invasore, da coloro che difesero la loro terra, e dalla popolazione civile che assistette agli scontri e che ne patì le conseguenze nei primi sei giorni dell’Operazione Husky (“cane da slitta” il nome in codice) nel settore delle truppe del generale George J. Patton (Licata, Gela, Macconi, Ponte Dirillo, Acate, Scoglitti, Vittoria).
Innanzitutto la tensione e la paura generate nell’animo di coloro che vissero l’attesa di entrare in azione in luoghi che non conoscevano o che conoscevano per averli visti soltanto in mappe approssimative e imprecise, fossero essi paracadutisti, soldati di fanteria, di artiglieria o di cavalleria corazzata.
Nel libro di Domenico Anfora e Stefano Pepi, “Obiettivo Biscari, 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’aeroporto 504” (Milano, Mursia, 2013), che il Tenente Colonnello dott. Giovanni Iacono considera “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia” (p.7), leggiamo le parole che descrivono lo stato d’animo dei paracadutisti americani in attesa di lanciarsi nel buio: “Aspettavamo in piedi, le ginocchia che tremavano sotto l’enorme carico, il cuore che martellava contro le costole, i nervi pronti a quel salto nell’oscurità, la mente tesa a tenere lontano ogni funesto pensiero” (Idem, p.43).
E possiamo soltanto immaginare con quanto stress si conviva scendendo dall’alto con il paracadute, per la prima volta in una zona di guerra, vedendo i compagni che stanno vicino colpiti in aria prima di prendere terra o catturati subito dopo aver preso contatto con il terreno o rompersi gli arti o la schiena nell’atterraggio o rimanere per lungo tempo isolati o in piccoli gruppi in un luogo sconosciuto, lontani dall’obiettivo e con il solo pensiero di congiungersi agli altri prima di incappare in una pattuglia nemica.
Sentimenti non dissimili a quelli dei paracadutisti vivono una parte degli uomini della “Thunderbirds”, la 45a Divisione di fanteria americana, che si trova su una nave in avvicinamento alla costa tra Scoglitti e Capo Sgalambro, in attesa di ricevere l’ordine di sbarcare: “I giovani e inesperti soldati dello zio Sam, quasi tutti coscritti, nell’oscurità inciampavano e imprecavano, mentre tastoni cercavano il corrimano e dondolavano abbrancati alle scale a corda sui fianchi delle navi beccheggianti nel mare mosso. Alcuni caddero mentre tentavano di scendere, infortunandosi seriamente. Un fante annegò”. (p. 66).
E ancora al largo di Capo Sgalambro e di Punta Braccetto, “sui mezzi da sbarco che giravano a cerchio a causa del mare grosso” (p.69) e “con la paura che oscurava la ragione e per la nausea” (Ibidem), le stesse emozioni vivevano i fanti che “vomitavano, pregavano e imprecavano, e vomitavano ancora” (Ibidem). E solo quando cominciò “il fuoco di sbarramento della flotta americana verso la costa siciliana, illuminandola al ritmo delle cannonate”(Ibidem), quei
soldati dimenticarono la nausea e “guardarono quelle scie di fuoco e quelle esplosioni con gli occhi sgranati e le dita nelle orecchie”(Ibidem).
Dal momento dello sbarco cominciarono a susseguirsi le esecuzioni sommarie di prigionieri militari disarmati e di civili inermi.
Le truppe americane della Cp “I” del 3°/505° , venute a contatto con il nemico, non avevano motivi validi per fucilare, o meglio per assassinare, i carabinieri che difendevano Passo di Piazza e che si arresero, dopo gli interventi dei cannoni navali della Marina Statunitense.
“In località Passo di Piazza, a Nord del Biviere e a Ovest del Ponte sul Dirillo, a presidio della linea ferroviaria, c’era un posto fisso dei Carabinieri forte di 15 uomini al comando del Vicebrigadiere Carmelo Pancucci. Il carabiniere Antonio Cianci, ventunenne di Stornara (FG), vedendo in avvicinamento un gruppo di soldati sconosciuti, fece fuoco abbattendone uno. Iniziò un conflitto a fuoco tra i carabinieri, armati di soli moschetti e asserragliati nella casa rurale, utilizzata come Caserma, e i paracadutisti americani che la circondavano.
L’intervento dei cannoni navali americani convinse il vicebrigadiere ad alzare bandiera bianca. Nel frattempo erano morti quattro carabinieri. I dodici, che si erano arresi, furono messi al muro e sottoposti a raffiche di mitra, che provocarono la morte di altri quattro militari italiani e il ferimento di uno. I sopravvissuti, tra i quali Pancucci e Cianci furono deportati in Algeria. Gli aggressori appartenevano probabilmente alla Cp “I”, lanciatasi sulla vicina contrada di Piano Lupo”(p.46).
Lo stress emotivo, il non potere dormire, la collera incontrollata causata dalla morte in combattimento dei compagni del Combact Team, una notte intera trascorsa dentro una trincea; l’assunzione di benzedrina “sia per attenuare i malori causati dalla terribile tempesta che aveva investito il Canale di Sicilia, sia per animare i soldati al loro battesimo del fuoco” (p.191); le parole del Generale Patton che incitano a non fare prigionieri, anzi a uccidere ( ” Kill, kill and kill some more”: “Uccidi, uccidi e uccidi ancora”) quelli che egli chiamava, con parole rimaste tristemente famose nella storia dell’esercito statunitense, “Beach of songs”, “Figli di puttana”, sono alla base di un altro aberrante crimine di guerra compiuto dal sergente Horace West . Il “sottoufficiale ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie, perché fossero interrogati dal Servizio Informazioni S-2 del reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati.
Spiegando che avrebbe ucciso quei figli di puttana, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani” (Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia, Milano, Mondadori, 1990, p. 255).
Ancora un altro crimine di guerra si consumava nello stesso giorno dagli “uomini della Cp “C” agli ordini del Capitano Jhon T. Compton”, che, “incontrando una dura resistenza nel settore Est dell’Aeroporto di Biscari, adirati per le perdite subite, fucilarono i 36 militari italiani catturati” (Anfora-Pepi, op. cit., p.185).
Il capitano Compton, “imputato di 36 omicidi, non cercò scuse”, dicendo, “davanti alla Corte Marziale”, che aveva obbedito all’ordine di Patton: “Giusto o sbagliato, l’ordine di un Generale a tre stelle, con una esperienza di combattimento, mi basta. Io l’ho eseguito alla lettera” (Idem, p.191).
“Ripugnante” è l’aggettivo di cui Carlo D’Este si serve per condannare ciò che definisce come “il primo incidente” dell’Operazione Husky, in realtà si tratta di due aberranti crimini di guerra compiuti da un ufficiale ( il Capitano Jhon T. Compton) e da un sottoufficiale (il sergente Horace West) del 180° reggimento della 45aDivisione di fanteria Thunderbird dell’Esercito degli Stati Uniti.
Questi crimini di guerra furono incoraggiati anche dalla “voce”, che circolava tra le truppe di terra della 45° Divisione, quando, nell’area compresa tra Acate, Santo Pietro e Piano Stella, si rinvennero a decine i corpi senza vita dei paracadutisti americani che si trovavano a bordo dei 23 Dakota abbattuti per errore dal fuoco amico della flotta.
La “voce” diceva che “gli italiani avessero aperto il fuoco sui parà prima di toccare terra, violando la Convenzione di Ginevra, o che addirittura avessero giustiziato anche quelli che si erano arresi. Queste voci, del tutto infondate, incoraggiarono comportamenti vessatori o addirittura criminali contro i prigionieri italiani” (Andrea Augello, Uccidi gli Italiani, Milano, Mursia, 2009, p.108 ).
Se si è riusciti a fare luce su questi avvenimenti lo si deve anche al prof. Vincenzo Castaldi di Varese, Docente di Storia e Filosofia, il quale “il 29 gennaio del lontano 1995” inviò “un esposto al Procuratore della Repubblica di Ragusa (copia del quale invierà successivamente anche al giornalista della Gazzetta del Sud Salvatore Cultraro per conoscenza), denunciando un eccidio avvenuto il 14 luglio del 1943 nei pressi dell’Aeroporto di Biscari” (Salvatore Cultraro, I ricercatori ignorati. I meriti del prof. Vincenzo Castaldi, Archivio AcateWeb, 15-11-2013 ).
In verità i crimini di guerra compiuti dal Capitano Compton e dal Sergente West non saranno i soli crimini dei primi sei giorni dell’Operazione Husky.
Mentre rileggo il volume ” Obiettivo Biscari” continua a colpirmi la ricchezza di particolari con cui gli autori hanno ricostruito la fine di Giuseppe Mangano, insegnante elementare e podestà di Acate, di suo figlio Valerio, e la scomparsa di Ernesto Mangano, Tenente del Regio Esercito Italiano, a Vittoria, cittadina della Provincia di Ragusa. E non tanto per una ideale consonanza giovanile di fede politica con l’ideologia del fascismo, che l’inesorabile falce del tempo ha reciso anche con il contributo non indifferente dei figli della Fiamma Tricolore che lasciarono la scomoda “casa (ghibellina) del padre” per la comoda “casa ( guelfa) del potere”; quanto piuttosto per le vili e non documentate parole raccattate in chissà quale sentina da coloro che usurpano il nome di storici.
Fucilato Giuseppe Mangano, assassinato con un colpo di baionetta alla guancia Valerio Mangano, scomparso senza lasciare traccia Ernesto Mangano, “emerge così un’altra storia dei ragazzi Yankee in divisa, da un lato alta e nobile, scritta da combattenti tenaci, generosi e pronti al sacrificio, dall’altra inaccettabile, imperscrutabile, fatta di eccidi di prigionieri inermi, di civili innocenti, di presunti e reali fascisti” (Andrea Augello, op. cit., p.13).
Un’altra storia che è ancora la storia dell’eccidio di Piano Stella del 13 luglio 1943, ricostruita da Gianfranco Ciriacono ne “Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella”( Coop. C.D.B. Ragusa 2003).
E’ ancora la storia del massacro dell’Aeroporto di Comiso. Secondo il giornalista inglese Alexander Clifford, testimone dell’episodio, sessanta soldati italiani e cinquanta soldati tedeschi, “catturati in prima linea, furono fatti scendere dai camion e massacrati con una mitragliatrice” (Anfora- Pepi, op. cit., p.147); secondo la versione americana, “un agente della Military Police della 45a, caricando su un camion un gruppo di prigionieri tedeschi per trasferirli dal fronte al campo di prigionia nelle retrovie, scoprì che nei camion in dotazione avrebbe potuto trasportare solo 200 dei 235 prigionieri nemici. Così egli allineò i 35 prigionieri in eccesso e li falciò con il suo mitra” ( Ibidem).
Se ciò che abbiamo scritto non è stato un inutile esercizio storico-linguistico, prende corpo la tesi che i giorni dal 9 al 14 luglio 1943 rimarranno nella memoria perché rappresentano “l’unico momento in cui gli Italo-Tedeschi rischiarono di vincere, contro ogni logica ed ogni possibile pronostico, come qualche rara volta accade sui campi di battaglia di ogni tempo” (Andrea Augello, op. cit., p.10); e perché vi vengono consumati diversi crimini di guerra, come conseguenza di un deragliamento della ragione, da parte di parecchi fanti americani della 45aDivisione, i quali considerarono il nemico vinto e arresosi non come prigioniero di guerra, ma come “figlio di puttana” da ammazzare, o per una personale e distorta interpretazione del discorso del Generale George J. Patton pronunciato alle truppe prima dello sbarco in Sicilia, o per una criminale ed efferata vendetta per la morte dei compagni caduti negli scontri a fuoco con i soldati italiani e tedeschi.

Antonio Cammarana

Ignazio Biscari

Ignazio Biscari
Avevo preso a frequentare una bottega di libri rari dal giorno in cui avevo visto il nome e il cognome di Gesualdo Bufalino, scrittore di Comiso e mio professore d’Italiano all’Istituto Magistrale ” Giuseppe Mazzini” di Vittoria nella seconda metà del XX secolo, guardando per caso dei bigliettini da visita, sparsi dentro una scatola rettangolare di legno, in parte scheggiata da colpetti di unghie non sempre innocue, in parte cenericciata da migliaia d’impronte di polpastrelli dalla dubbia lindura e che, orgogliosa delle sue ferite e del suo grigiume, stava posta al centro di un vetusto scagno.
Così puntualmente il martedì e il giovedì, alle undici, dopo le prime due ore d’insegnamento a scuola, passavo dall’antiquario per scambiare quattro chiacchiere e avere suggerimenti da intenditore per l’acquisto di qualche testo che mi avrebbe potuto interessare, ma soprattutto per gettare uno sguardo all’ingresso della bottega –con quel misto di attrazione e di paura, che, in determinati momenti della vita, è il preludio di grandi sventure– su un segnalibro gigante di sapore kafkiano in cartone bianco, raffigurante un uomo che strozzava con le sue mani quello che a me parve sempre essere un nero avvoltoio, a cui seguiva, nello spazio sottostante, la scritta “Libreria antiquaria Giancarlo Gatto succ. Berruto”- 10123 Torino, via S. Francesco da Paola 10 Bis, tel. 011836636, e che si concludeva con l’invitante e ardimentosa frase “Si acquistano Libri e Intere Biblioteche”.
La mia visita al “Gatto succ. Berruto” era diventata tanto un’abitudine che, in quei due giorni della settimana, io non riuscivo ad andare alla Biblioteca Nazionale di Piazza Carlo Alberto, dirimpettaia del Sardo-Piemontese Palazzo Carignano, se prima non avessi fatto questa tappa di cultura antiquaria, immancabilmente salutato dal sempre più spaventevole e ripugnante segnalibro gigante con l’uomo che strangolava l’avvoltoio nero.
Di tanto in tanto acquistavo un libro, sia perché avevo un reale bisogno per il mio lavoro d’insegnante e di ricercatore, sia perché il suo formato e la sua copertina suscitavano il mio interesse, sia perché potevo continuare a sfogliare, senza stare sullo stomaco del libraio, vecchi volumi le cui pagine ingiallite e imperlate di verdastre chiazze di muffa portavano evidenti segni delle stagioni passate.
Io notai un giorno, all’interno della bottega, un anziano signore, il cui viso, somigliantissimo al mio, mi ricordò subito un uomo che io incontravo ogni mattina quando andavo a prendere il tram per recarmi a scuola o nel primo pomeriggio, ritornando a casa, e che io avevo preso a ritenere il mio Doppio.
La mia sede di lavoro era in provincia, a Carmagnola. Io facevo sempre la stessa strada, prendevo il medesimo tram, salivo persino sull’identico treno. Non ho mai chiesto il trasferimento a Torino, perché mi trovavo a mio agio con gli alunni e in esaltante contrapposizione ideologico-politica con i colleghi, vecchi tromboni del ’68, e perché il viaggio in treno mi permetteva di leggere di riflettere di scrivere. E, poi, in fondo, tornavo a ripetere le stesse cose, non disdegnando di considerarmi “un pigro freudiano”, avendo fatto mio uno dei principi fondamentali della psicoanalisi: “ricercare soltanto ciò che porta piacere ed eliminare ciò che comporta dolore”.
I titoli dei libri da scorrere con l’occhio negli scaffali mi distrassero dall’osservare l’uomo che mi assomigliava tantissimo e che io non vidi più nella libreria, dopo che mi rivolsi all’antiquario per pagare, secondo me a buon prezzo, un testo, che ritenevo ancora valido sulle “Epopee” degli antichi popoli europei, su cui da tempo avevo soffermato la mia attenzione.
Mi diressi, quindi, alla Biblioteca Nazionale, compilai la carta d’entrata 0949 e andai ad occupare uno dei tavoli della sala di lettura. Io cercavo di fare, senza peraltro riuscirci, qualche scarabocchio su dei fogli, dove brevi ma numerose linee d’appunti letterari contendevano un dito di spazio a veloci e scarni giudizi globali sui miei alunni, quando l’uomo, che credevo il mio Doppio e che avevo visto, non molto tempo prima, nella bottega del “Gatto antiquario”, venne a sedersi proprio di fronte a me. Tirò fuori dalla sua borsa dei libri che sistemò alla sua sinistra, poi dei quaderni certamente di non antica data, perché, se il loro bordo era di un rosso stantio, le loro copertine erano invece di un nero zigrinato ancora ardito. E cominciò a sfogliarli.
Chiunque avesse sbirciato da lontano quest’uomo, che aveva un’aria strana inconsueta, avrebbe pensato subito che fosse sprofondato nella lettura, ma io che sedevo proprio davanti a lui mi resi conto che girava stancamente le pagine dei suoi quaderni, dopo averle soltanto fissate distrattamente. Notavo nel suo volto malinconia delusione sconforto, come se le parole scritte su quei fogli, che non mostravano ancora i segni del tempo, fossero il risultato di un lavoro rivelatosi, alla fine, non solo inefficace, ma anche inutile.
Pure io avevo sfogliato le pagine dei miei quaderni a quel modo, chiedendomi spesso se mai avessero potuto diventare pagine di libri. La mia iniziale indifferenza nei confronti del mio Doppio diventò dapprima turbamento, poi commozione, ragion per cui decisi di rivolgergli la parola: “Sono seduto, forse, di fronte a uno scrittore?” Il mio Doppio sollevò lo sguardo, che teneva sopra i quaderni, e, come se rientrasse nella realtà quotidiana da un metafisico mondo iperuranio, mi diede una occhiata insocievole, che manifestava lo stupore e il fastidio di colui che aveva dovuto interrompere una fantastica navigazione ad occhi aperti.
“Ho chiesto se lei è uno scrittore”- ripetei con un filo di voce.
Ancora a disagio nel suo impacciato imbarazzo, il mio Doppio riuscì a dire soltanto: “Uno scrittore? No, sono semplicemente uno che scrive, uno che ha scritto tanto”.
Per cercare di farlo uscire definitivamente dal suo intorpidimento mentale, velato ora di amarezza, ora di abbattimento profondo, che lui non faceva niente per nascondere agli occhi di chi lo osservasse, continuai: “Non ha mai pensato di pubblicare le sue pagine?”.
Mi parve che il mio Doppio, in un primo momento, cercasse di prendere una posizione più comoda, nella sedia che occupava, in realtà si lasciava scivolare all’indietro lentamente e, nel suo volto, c’era dipinta una pensierosa espressione di reale mestizia.
Io dissi ancora: “Ho proferito qualche parola di troppo? L’ho forse turbata?”.
Lasciando gradualmente la coda di quello che era ormai soltanto un impacciato imbarazzo, il mio Doppio riprese: “Sono sulla soglia dei settant’anni. Credo di aver vissuto la mia vita in modo unico, irripetibile. Leggendo le pagine di centinaia di libri di giornali di riviste, osservando le azioni degli uomini e su di esse riflettendo, ho creato una prosa che ritengo originale, ma non interessante per il mercato editoriale: una prosa debole, in cui si muovono personaggi deboli, che affermano una filosofia debole della vita e del mondo. Ma non è detto che i miei concetti inediti esprimano contenuti meno validi di quegli degli autori di successo. E’ stata certamente la lettura poco meditata delle pagine da me scritte, da parte dei critici, a condannarmi all’anonimato. Ma io, che non ho avuto il privilegio della pubblicazione, io Ignazio Biscari, ultimo rampollo di un principesco casato siciliano che vive in dignitoso orgoglio la decadenza e l’attesa della fine, leggerò a lei, perché so che cerca di farsi strada nel campo della letteratura –senza scendere a compromessi con nessuno dei potenti di turno– le linee essenziali del mio pensiero”.
Allora aprì il primo dei suoi quaderni e cominciò a leggere brani di quanto aveva scritto. Io ascoltavo e catturavo come un magnete di rara potenza, incollandoli nella mia memoria, i contenuti culturali di quest’uomo, che aveva trascorso tutta la vita nella lettura e nella ricerca di una via personale alla letteratura.
E fu come se il tempo, per me, nella Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto, si fermasse; ed io mi facessi famelico e rapace avvoltoio di parecchi lacerti letterari scritti da Ignazio Biscari da rielaborare su nuove basi e da vivificare dandogli vitalità e vigore. Tanto che quando il mio Doppio si alzò e andò via, io continuai a fissare a lungo la sedia vuota che lui poco prima aveva occupato, nello stesso tempo avvertendo una interiore sensazione di pienezza tematica e concettuale mai avuta prima, che attendeva soltanto di imboccare la strada maestra di una scrittura che rappresentasse la realtà naturale e la condizione umana con uno stile di notevole forza espressiva.
Io non passo più dalla bottega dell’antiquario, non vado più alla Biblioteca Nazionale, non compro più libri recenti o rari. Leggo i testi che gli editori piccoli medi grandi mi fanno pervenire con preghiera di una recensione e quelli che, ogni anno, mi pubblicano. Non ho più rivisto quell’uomo di cultura con cui parlai un giorno in Biblioteca, quell’Ignazio Biscari che mi fece dono della lettura dei suoi originali concetti di “letteratura debole” diventati i fondamentali “contenuti forti ” delle mie opere.
Mi sono trasferito in provincia, dove la vita e la mentalità senza dubbio meno frenetiche e più flemmatiche, un po’ monotone e forse anche più sonnacchiose rispetto alla città, a me sortiscono l’effetto di far sembrare le giornate più lunghe. Ho lasciato l’insegnamento, vivendo con la pensione datami dallo Stato e i diritti d’autore dei miei libri e di quanto vengo scrivendo sui quotidiani sui settimanali sui mensili.
Un giorno trovandomi in città per parlare con il direttore di una rivista di cultura, che mi aveva proposto di stendere un lavoro sulla via della solitudine interiore dello scrittore guerriero, decisi di passare dalla bottega di quel “Gatto antiquario”, che avevo frequentato per così lungo tempo, quando ero ancora un inseguitore di sogni letterari, prima di raggiungere la notorietà. Ma nella libreria non entrai. Poggiata la mano sulla maniglia esterna della porta a vetri rividi, tra gli altri, che scorrevano i titoli dei vecchi libri collocati negli scaffali, proprio Ignazio Biscari, il mio Doppio misterioso con il quale ero venuto in culturale contatto nella Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto anni prima. Anzianissimo ormai, bianchi tutti i capelli, una sciarpa verderame con righe giallo zolfo al collo sopra un pesante cappotto nero, gli occhiali dagli spessi vetri rotondi, un berrettino simile a quello dei fuochisti francesi tra le due guerre mondiali, che lo accostavano tanto agli scrittori mancati della letteratura universale, con i quali la vita è stata sempre avara di riconoscimenti culturali.
Ignazio Biscari sfogliava le pagine di un antico e prezioso testo rilegato in tela di seta rossa con fregi blu cobalto.
Gli scaffali della bottega dell’antiquario segnati dai morsi delle tarme, la luce fioca che doveva favorire la consultazione e l’acquisto dei libri da parte degli amatori, l’età avanzata del ” Gatto antiquario” dei lettori e di quell’uomo, Ignazio Biscari, così assorti assorbiti quasi perduti tutti nella lontananza epocale di chissà quale prosa o verso d’autore, mi diedero l’impressione di trovarmi davanti alla muffa e alla polvere opprimente di una vecchia casa rugosa e fatiscente in abbandono.
Dopo il primo momento vissuto in preda a vivo stupore, anche se avevo aperto la porta, mi convinsi ancora di più a non entrare nella libreria.
“Certamente il mio Doppio avrà ripreso ad inseguire il miraggio di una pubblicazione!” – dissi ad alta voce, ridendo in modo sconsiderato.
Dall’interno della bottega tutti i presenti mi guardarono profondamente meravigliati schifati a causa di quelle parole di dileggioso sarcasmo pronunciate e della mia fragorosa sguaiata risata.
Ignazio Biscari sollevò gli occhi dal testo che teneva tra le mani e mi osservò con quella che, a me, parve l’umile e tremula espressione di amarezza e di dolore propria della persona nobile e colta, che ha commesso l’imperdonabile errore di leggere le linee essenziali del suo pensiero a un borghese istruito, figlio legittimo dell’ingratitudine.
Io rimasi fermo davanti alla porta a vetri in tutto simile a colui che avesse preso una terribile botta in testa, né mai più riuscii a dimenticare ciò che successe quel giorno.
Comprendendo in seguito, sempre più, che da quel momento qualcosa mi causava vuoto nella mente, facendo ineluttabilmente svanire quelle linee essenziali del pensiero che Ignazio Biscari mi aveva letto e di cui io mi ero fatto rapace avvoltoio in un lontano mezzogiorno di alcuni anni prima. Perché da quegli occhi, solo apparentemente inoffensivi del mio Doppio, emanava un così potente magnetismo che generava dentro di me la sconcertante impressione che Ignazio Biscari succhiasse dal mio cervello ogni contenuto creativo che mi aveva elargito e che successivamente mi mettesse al collo le sue scarne e ossute mani, strozzandomi come faceva l’uomo con l’avvoltoio di kafkiana memoria del segnalibro gigante che, senza patire i segni del tempo, stava ancora davanti alla libreria antiquaria del “Gatto succ. Berruto”.
Da allora la mia attività di scrittore si è interrotta, i rapporti con il mio editore si sono guastati. Ogni volta che mi sono seduto al tavolo del mio studio per cominciare un lavoro nuovo, io sono stato sopraffatto dalla fortissima sensazione che Ignazio Biscari fosse davvero l’uomo che si riprendeva, con i suoi occhi, i pensieri che io avrei voluto esprimere e che strangolava con le sue scarne e ossute mani l’avvoltoio predatore ingrato quale io mi ero dimostrato nei suoi confronti.
Così io sono caduto in una miseria spirituale e materiale profonda, oscillando il mio vivere quotidiano nella condizione umana ora del fannullone, ora del vagabondo, ora del clocard, e senza più anima mi trascino sotto i portici della Cittadella Universitaria o faccio avanti e indietro all’interno e all’esterno della stazione ferroviaria, i miei abiti e il mio corpo sempre più divenendo simili ad un ammasso di letame in cui trovano nutrimento e dimora stanziali colonie di insetti parassiti, che giorno dopo giorno mi vanno riducendo a quattr’ossa rinsecchite dentro una lamina di ruvida pelle, non lontano preludio d’immondo carcame e di protocollo del nulla.

Antonio Cammarana

 

1943-2013: Lo sbarco degli americani nella memoria degli acatesi: fu invasione o liberazione?

Corso indipendenza 1943 Acate
La campagna d’Africa complessivamente è “costata alle forze dell’Asse 1 milione di uomini fra morti, feriti e prigionieri, 8 mila aerei, 6200 cannoni, 2500 carri armati, 70 mila veicoli e 2 milioni e mezzo di tonnellate di naviglio mercantile. Dalla sola inutile campagna di Tunisia erano stati inghiottiti 300 mila uomini” (p.245, Petacco). Così Arrigo Petacco conclude il suo libro “L’armata nel deserto. Il segreto di El Alamein”, dopo aver messo in evidenza – con la citazione del bollettino di guerra n°1083 del 13 maggio 1943 – che “l’onore dell’ultima resistenza” (che mandò in bestia Adolf Hitler e l’OberKommando germanico) delle forze italo-tedesche contro gli Angloamericani è stato tutto italiano e che il generale Giovanni Messe (nominato Maresciallo d’Italia per aver tenuto alto l’onore dell’esercito italiano) ha firmato la resa soltanto per ordine di Benito Mussolini.
Quasi due mesi, dal 13 maggio al 10 luglio 1943, separano la perdita reale dei territori dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia e successivamente Pantelleria, l’isola fortificata che sbarrava il Mediterraneo), già in possesso dell’Italia, bersaglio dell’attacco nemico delle forze Anglo-americane al “ventre molle dell’Asse”(definizione dell’Italia data da Winston Churchill nel corso della Conferenza di Casablanca, tenutasi dal 14 al 24 gennaio del 1943) a cominciare dalla punta estrema della Sicilia; attacco, a proposito del quale, una parola fu sulla bocca di tutti:
INVASIONE, parola che rimase nella mente di coloro che si trovarono testimoni di quell’avvenimento, fin quando una diversa realtà politica, intinta di colore rosso, non venne a sovrapporre la parola LIBERAZIONE (cara al socialcomunismo nazionale e internazionale) alla parola INVASIONE; sporcando le pagine dei libri di storia con il tentativo mal riuscito di cancellazione del sangue dei caduti italiani e tedeschi, che combatterono (anche se non sempre onorando le divise dei loro eserciti) con armamento inferiore, ma con valore almeno pari a quello degli americani, i quali in Sicilia conobbero il combattimento vero e il vero battesimo del fuoco.
Ma a settant’anni da quegli eventi, che cos’è rimasto nella memoria dei più anziani?
Nella memoria degli Acatesi di uomini e donne, di vecchi e ragazzi, sono rimasti incancellabili i ricordi del bombardamento del 9 luglio 1943, dei combattimenti tra militari americani e antiparacadutisti italiani (NAP), cui si unirono parecchi civili del paese e del contado; dei crimini di guerra a cominciare da quello perpetrato contro i componenti maschi della famigGiuseppe Mangano Podestà di Acatelia del podestà Giuseppe Mangano (nella foto a sinistra) a Vittoria, per continuare con le stragi di civili a Piano Stella e dei soldati italiani e tedeschi fatti prigionieri all’aeroporto di Biscari, degli scontri dell’11 luglio nel territorio di Acate e per le strade del paese.
Ignazio Albani, di Acate-antica Biscari, nel suo libro “Il mio dodicesimo anno tra Acate e Gela 1942-1943” ha narrato fatti luoghi persone, riuscendo a coinvolgerci e a farci partecipi di una tragedia che sconvolse il mondo. Nel rielaborarli a distanza di tempo ha cercato di mantenere intatto, per quanto gli è stato possibile, il valore di semplice testimonianza, raccontando un’esperienza di guerra vissuta da un ragazzo di 12 anni, che vive osserva incide nella memoria momenti ed emozioni di quei giorni.
A proposito del bombardamento del 9 luglio ad Acate così scrive: “Giunto a metà strada da casa, spuntarono nel cielo, a relativa bassa quota, tre aerei da caccia pesanti, che non ebbi difficoltà a riconoscere: erano inglesi” (pp.90-91). Ignazio arrivato a casa, ubicata tra via Marconi, via Umberto I e via Mazzini con i familiari sentì “il sibilo della picchiata dell’aereo e, subito dopo, il fischio della bomba che cadeva” (idem, p.92).
Lo spostamento dell’aria, provocato dallo scoppio, fece spalancare gli infissi, vibrare le porte interne, oscillare i lampadari, far cadere i vetri esterni, scendere dal soffitto calcinacci e polvere.
Ignazio Albani e i suoi familiari non si erano riavuti ancora dallo spavento, quando “fragore” e “terrore” provocarono la caduta di una seconda e di una terza bomba, seguiti da “un silenzio che sembrava irreale” (idem, p.93).
Dopo diversi minuti, si udì prima il vocio di alcune persone, poi il rumore e le grida di tanta gente, che, “spaventata e ansiosa, correva in tutte le direzioni per avere notizie dei parenti” (idem, p.93).
La famiglia Albani lasciò Acate per contrada Santissimo, dove aveva proprietà e casa. In campagna apprese che “una bomba era caduta nel Corso Vittorio Emanuele, ora Indipendenza, all’incrocio con il Vico Tripoli; un’altra bomba era caduta in Via Emanuele Filiberto tra le vie Marconi e Roma. La terza bomba era caduta su un edificio compreso tra Corso Vittorio Emanuele, la via Marsala e la via Mameli.
Comandante francesco di Geronimo AcateProprio questo ordigno aveva provocato la morte del sessantaduenne Comandante dei Vigili Urbani, Francesco Di Geronimo (nella foto a sinistra), dell’ottantenne tabaccaio Filippo Battaglia, della bambina Rosaria Bongiorno di dieci anni e del bambino di appena un mese, figlio di Linuzza e Salvatore Traina, calzaturiero, genero del Comandante dei Vigili.
Quella che avrebbe dovuto essere la quinta vittima, la tredicenne Maria Catania aveva in braccio il figlio di Linuzza e Salvatore, parenti) fu estratta viva dalle macerie” (idem, p.94). Adagiata nella barella è dapprima trasportata nella postazione della Croce Rossa in Piazza Libertà, poi, messa sull’ambulanza, “inizia il suo viaggio della speranza. Anche il padre Giuseppe disperato, per assistere alle fasi iniziali del ricovero, raggiunge l’ospedale con la sua imenta, che non legata con le redini ad alcuna boccola ritorna da sola ad Acate, quasi per rassicurare gli altri familiari rimasti in paese. I medici disperano di salvarla. Il dottor Bombi, tenente colonnello in servizio, alla vista di quel carbone ardente, di quel tizzone più che corpo umano, irriconoscibile, coperto di polvere nerastra, interamente ustionato e con gravissime ferite svia i primi soccorsi e dà ordine di non soccorrere le persone anziane, ma i feriti più giovani.
Nessuno credette che, in quel corpicino, si nascondesse quello di una preadolescente tredicenne e non di una vecchia novantenne. Molti furono quelli che strapparono dalle mani del padre il medico che inizialmente si era rifiutato di curare quella figlia sfortunata. Tutti si impegnarono per averne la guarigione. E così fu.
Catania Maria tredicenne AcateDopo due mesi di degenza quella ragazzina (nella foto a sinistra Maria Catania, deceduta nel 2005) ritornò a casa più bella che mai. Il volto era bello, i capelli ondulati, di un biondo timido, un viso ingenuo, soave. Maria, la fanciulla di tredici anni sepolta dalle macerie era scampata miracolosamente al bombardamento aereo del 9 luglio del 1943″ (Giovanna Laura Longo, La guerra è morte, altera i sentimenti, La Sicilia, 6 luglio 2007, pag.36).
Per quanto riguarda l’invasione Ignazio Albani così continua: “Verso le 22,30 i cani cominciarono ad abbaiare in modo strano ed insistente, per cui mio padre fu costretto ad uscire fuori per zittirli.
Grande fu la sorpresa quando, guardando nella direzione verso cui abbaiavano, vide, alla fioca luce di quel primo quarto di luna, centinaia di paracadute scendere dal cielo” (Ignazio Albani, op.cit., pag.96 ). Quando rientrò in casa, comunicò ai familiari quello che aveva visto ed essi uscirono tutti “nello spazio antistante” e videro “una fungaia di paracadute scendere piano piano dal cielo” (idem, pag.96).
Era dunque cominciata l’invasione?
Certamente. Paracadutisti caddero in contrada Canalotti-Fondo Niglio. Piero Occhipinti, acatese, in “Biscari Primo ‘900 1895-1950, parte II, così riferisce: “Quella notte il signor Gianninoto Santo, viscarano sposato a Vittoria, scelse di dormire nell’aia. Doveva fare la guardia al suo frumento, da poco mietuto; il frumento che l’indomani avrebbe messo al riparo per garantirsi il nutrimento di tutto un anno. La moglie, per volontà del marito, dormiva a casa” (pag.107). Nel corso della notte, verso le due, il Gianninoto “sentì tutt’intorno un frastuono strano. Dal cielo scendeva gente attaccata ad enormi palloni. Uno dopo l’altro. Non fece in tempo a mettersi a sedere e a sfregarsi gli occhi che si vide cadere addosso una pesantissima cassa di ferro che gli troncò le gambe e gli tolse il respiro. Immediati e strazianti le sue grida di dolore. I suoi lamenti lacerarono la quiete e il silenzio nero della notte. E l’animo di chi le sentiva. Immobile e sanguinante don Santo urlava ed urlava senza posa. I paracadutisti, parecchio spaventati, liberatisi dal pesante fardello di morte che si portavano appresso, a passi svelti l’avvicinarono e gli tapparono la bocca con le mani: Zitto! Tedeschi sentire! Zitto! Ma il poverino nella spirale del dolore e dello spavento gridava e gridava. E quelli, terrorizzati dall’idea di vedersi assaliti da un momento all’altro, d’istinto gli tagliarono la gola con la baionetta e lo lasciarono al suolo, lungo com’era” (idem, pp107-108).
Ad Acate, intanto, era entrato in azione il Nucleo Antiparacadutisti(NAP) stanziato al Convento dei Cappuccini al comando del tenente Orazio Dauccia, dapprima in Contrada Santissimo, dove fu ucciso il caporale Filippo Currò, poi in Contrada Canale, nel tentativo di aggirare il nemico. Nello scontro a fuoco che ne seguì furono uccisi due paracadutisti americani, ma perdettero la vita anche il tenente Dauccia e il sergente Gaetano Galletta. Il nucleo antiparacadutisti ripiegò ad Acate, nelle sue posizioni di partenza. Alcune ore dopo, assieme a un forte contingente di tedeschi, che potevano contare sull’ appoggio di due carri Tigre, cominciò per le strade di Acate una vera e propria caccia all’uomo, affrontando e uccidendo gli americani che provenivano, suddivisi in piccoli gruppi, dalla Contrada Canalotti- Fondo Niglio, dalla Contrada Canali e dalla Contrada Santissimo.
Combattimenti si svolsero ancora in contrada Bosco Grande, non molto distante da Casa Platanìa, nel quartiere delle “Tre Croci”, nel quartiere del “Carmine”, nella piazza antistante la Chiesa Mscheggiature chiesa Madre Acateadre (nella foto a sinistra le scheggiature presenti nella vecchia pavimentazione), all’interno della Villa Margherita, attorno al Castello dei Principi di Biscari, nel quartiere San Vincenzo, in contrada Vampalavuri, in Contrada “Fontane”.
Quale fu la prima cittadina ad essere liberata?
La prima città della Sicilia che gli Americani conquistarono per capitolazione fu Vittoria. Alle 16,40 del 10 luglio il colonnello Tommaso Franceschelli, che non aveva le forze necessarie per difendere la città “alzò bandiera bianca e si consegnò con 80 uomini” (Domenico Anfora-Stefano Pepi, Obiettivo Biscari, Ugo Mursia Editore, Milano 2013, pag.90).
Nel medesimo lasso di tempo si consumava, sempre a Vittoria, la tragedia del podestà di Acate Giuseppe Mangano “d’animo nobile e gentile, maestro di Scuola Elementare, capomanipolo e sciarpa littorio, esempio di vita” (idem, pag.96 ), di suo figlio Valerio, di suo fratello ErnCapitano Medico Ernesto Mangano Acateesto, capitano medico (nella foto a sinistra). Suona offesa alla dignità umana e alla leale onestà l’ inciso “la giacca del pigiama a dire del suo convulso abbandono del campo” attribuito, senza rigore di documentazione storica (una testimonianza non verificata!), a Giuseppe Mangano, come se lo stesso volesse sottrarsi codardamente al suo dovere di capo dell’amministrazione comunale del suo paese, Acate-antica Biscari, con una fuga inconsulta e precipitosa. Inciso che ripeto, ancora una volta nella mia memoria, da quando, nel febbraio del 2004, in esso ebbi la ventura di inciampare, dopo aver acquistato e letto il libro dal titolo “In Sicilia” di Matteo Collura, edito dalla Casa Editrice Longanesi, di cui riporto lo stralcio . “Non sapevano ancora bene dove si trovassero e cosa fare di tutta quella gente in movimento lungo le strade, i Ranger che a Vittoria, la mattina del 10 luglio, nel loro primo posto di blocco dopo lo sbarco, imposero l’alt a un’automobile con a bordo una famiglia. Poco prima c’era stato un breve, concitato conflitto a fuoco tra gli occupanti del paese e un drappello di soldati tedeschi in ritirata. Dall’auto, sotto i mitra spianati dei soldati americani, scesero il podestà di Acate, Giuseppe Mangano, la giacca del pigiama a dire del suo convulso abbandono del campo, la moglie Melina, il figlio Valerio, diciassettenne, il fratello del podestà, Ernesto, capitano dell’Esercito, in borghese anche lui, e un’amica di famiglia, un’insegnante sfollata da Messina. Erano diretti
a Modica, paese ritenuto più sicuro presso un altro fratello del podestà” (Matteo Collura, In Sicilia, Longanesi, Milano, 2004, pag.212 ).
Ma qual è la sua opinione sull’episodio?
Valerio Mangano AcateSulla tragedia dei Mangano ho letto le versioni di Alfio Scuderi, di Nunzio Vicino, di Gianfranco Ciriacono, di Giovanni Iacono, di Giovanni Bartolone, di Piero Occhipinti, di Fabrizio Carloni, di Ignazio Albani, di Andrea Augello, di Domenico Anfora e Stefano Pepi e sono arrivato alla seguente conclusione:
– il 10 luglio del 1943, prima dell’ arrivo degli Americani ad Acate, il podestà decise di trasferire a Modica, presso la casa, ritenuta più sicura, del fratello Gaetano, vicesegretario comunale, la moglie Melina, il figlio Valerio (nella foto a sinistra), la maestra Latteri e la domestica Pina;
– il podestà chiese a suo fratello Ernesto in licenza dall’Ucraina di accompagnarlo fino a destinazione;
– i Mangano, all’altezza di contrada Capraro, furono fermati da una pattuglia di Americani, ma fatti proseguire per la presenza di donne in macchina;
– i Mangano, arrivati a Vittoria in via Cavour, presso casa Scuderi, al numero civico 338, furono trattenuti da un’altra pattuglia di Americani;
– le tre donne furono fatte entrare in casa Scuderi, mentre gli uomini furono portati dai soldati americani verso Piazza Italia da via Cavour.
Da questo momento tutto ciò che riguarda le donne può essere oggetto di ricostruzione storica, perché fondato su testimonianze certe; tutto ciò che concerne gli uomini ha come fondamento sia ipotesi, sia spiegazioni non documentate.
Che cosa è rimasto di indelebile nella memoria collettiva degli Acatesi?
Innanzitutto il modo in cui è stato ucciso Valerio (un colpo di baionetta gli inflisse una ferita mortale, partendo dall’orecchio sinistro e fermandosi al collo); una pietra, lanciata o tentata di lanciare da Valerio contro il suo uccisore, trovata nelle immediate vicinanze del cadavere del giovane, abbracciato al padre Giuseppe Mangano o presso il corpo di lui; nessuna traccia di Ernesto, fratello del podestà; la scomparsa delle pietre preziose, che si trovavano all’interno della Lancia Augusta mai ritrovata.
Nel momento in cui gli Americani vengono a contatto con le truppe italo-tedesche che difendono la Sicilia meridionale, cominciano ad apprendere che cosa sia il vero combattimento tra forze armate contrapposte.
Nel NoBernard Low Montgomery Acaterd-Africa gli Americani sono stati a fianco degli Inglesi del generale Bernard Low Montgomery (nella foto a sinistra) e le difficoltà, le battute d’arresto come le avanzate, che hanno portato alla vittoria nel deserto libico e in quello tunisino, sono state vissute insieme a soldati che hanno una pluricentenaria esperienza militare terrestre e navale.
Nella Sicilia meridionale le truppe americane, anche se avevano ricevuto un addestramento che era considerato perfetto e completo, come forze combattenti – nel loro settore – sono sole e con tutti i problemi di un esercito, che deve sbarcare uomini e mezzi, costruire teste di ponte, mantenere i nervi saldi, sostenere il contrattacco, oltre che italiano da parte di un nemico, il tedesco, il cui semplice suono del nome incuteva terrore panico e riverente rispetto.
Per questi motivi quando parliamo delle stragi di Piano Stella e dell’aeroporto di Biscari – Santo Pietro, non possiamo tacere il fatto che esse furono compiute da contingenti di truppe che erano ritenute le migliori unità dell’Esercito americano. Sia per l’addestramento (la Thunderbird “era in quel momento una delle divisioni più addestrate” – Domenico Anfora-Stefano Pepi, op.cit., pag.33) a cui erano state sottoposte, sia per l’armamento (“ottimamente armata ed equipaggiata”, idem, pag.33) di cui erano state dotate e che si rivelarono ben poca cosa di fronte alla realtà del combattimento vero, ingaggiato contro un nemico vero, in un lasso di tempo certamente non breve ( dal 10 al 14 luglio) che mise a dura prova la tempra dei soldati statunitensi, logorando la loro capacità di resistenza fisica e soprattutto psichica. Illuminanti sono le seguenti parole: “Nonostante l’accurato addestramento e l’ottimo equipaggiamento il comandante di divisione Middleton e i tre comandanti di reggimento non erano sicuri che i loro soldati, ancora non provati al fuoco, avessero superato la prima operazione reale e attendevano preoccupati di vederli mettere i piedi sulle spiagge” (idem, pag.66).
George Junior Patton AcateSiamo ancora nei momenti immediatamente precedenti lo sbarco e, secondo me, le parole ingiuriose e assassine pronunciate dal generale George Junior Patton (nella foto a sinistra) “Uccidete quei figli di puttana” contro i soldati italiani sono già lontane. Esse saranno richiamate nuovamente alla memoria soltanto quando la paura del nemico italo-tedesco diventerà sia gesto ultimo, alla fine di un vittorioso combattimento vissuto interamente con terrore panico ( fucilazione, da parte della cp “I” del 3°/ 505°, con raffiche di mitra dei carabinieri di Passo di Piazza, a nord del Biviere e a ovest del ponte sul Dirillo, di cui sopravvivono soltanto Pancucci e Cianci, deportati poi in Algeria. Anfora-Pepi, pag. 46), sia diritto di criminale vendetta contro un nemico che ha tenuto in scacco per lungo tempo un “combact team” con i nervi a pezzi in una terra che non conosce (strage di militari italiani e tedeschi all’aeroporto di Biscari-Santo Pietro, da parte del capitano Compton e del sergente West; strage di civili a Piano Stella).
La Germania ha fatto della guerra l’esperienza millenaria di un popolo e, con il primo e secondo conflitto mondiale, ha messo in atto quello che ben a ragione è stato chiamato “assalto al potere mondiale” (Fritz Fischer, Einaudi, Torino), il cui fallimento se da un lato ha ridimensionato, sul piano militare la potenza tedesca, dall’altro ha posto le basi sia per la fine di una vecchia filosofia della storia, sia per l’inizio di una nuova filosofia della storia.
Al vecchio SIN QUI proprio della filosofia hegeliana (sin qui, in terra germanica, è giunto lo spirito del mondo, ma in questa visione della realtà non vi sarà posto per una nuova storia) subentra il nuovo DI QUI (che fa partire il nuovo corso della storia universale dalla fine del secondo conflitto mondiale) proprio della filosofia della storia dell’ “Aquila americana”, che non consente dilazioni alla domanda il cui fondamento razionale risiede nell’intrinsecità della sua realtà.
Quali sono i Limiti della potenza americana? O meglio, nel nuovo ordine universale, la potenza americana può avere dei limiti?
A questa domanda non può rispondere lo storico, perché lo storico arriva sempre in ritardo rispetto a ciò che accade e dell’accaduto fa il terreno della sua indagine. A questa domanda può rispondere, io credo, soltanto l’UOMO COMUNE, l’uomo che quotidianamente svolge il suo lavoro manuale o intellettuale, che con il suo elementare buon senso sa dove andare, senza avere bisogno di escogitare eufemismi per affermare che l’Intelligenza costruttiva e l’Idiozia distruttiva sono i due estremi della ” Balance of Life” : quella che ha il suo centro nel Pensiero Pensante dell’uomo che lavora e che con il suo lavoro è ” FABER FORTUNAE SUAE”, anzi “FABER SUI IPSIUS”.

Antonio Cammarana

Una benemerenza, una protesta, una supplica. Dal registro del circolo agricolo, già della borghesia

Circolo Agricolo Acate
Degna di attenzione ritengo l’ammissione, come Socio Benemerito, al Circolo della Borghesia di Biscari, del Dottor Masaracchio Antonino.
L’Assemblea dei soci del 22 Gennaio del 1905 – presidente il signor Manusia Mariano, segretario il signor Modica Gaetano, direttore il signor Gallo Biagio –su domanda inoltrata dal signor Bellomo Biagio e firmata da dieci soci– con voto unanime, ammette “il Distinto Egregio Dottor Masaracchio Antonino a Socio Benemerito” con la seguente motivazione: “Perché veramente possiede quei doni di Benemerenza, specialmente nel soccorrere i poveri non solo con la professione, ma anche con denaro e con quale gentilezza di conforto nei confronti di tutti; veramente degna persona della famiglia Nobile che egli appartiene ed in Biscari si è distinto per morale, per virtù e per meriti”.
Uno dei punti sul quale l’Assemblea del Circolo della Borghesia di Biscari è chiamata a pronunciarsi il primo gennaio del 1906 è la protesta contro l’aumento della tassa sul Bestiame, presa dalla Giunta Municipale di Biscari il giorno 29 Dicembre 1905.
La Giunta per tagliare il dazio “sulla minuta vendita del vino” non aveva trovato di meglio che “eccedere al massimo la tassa sul bestiame”, favorendo alcuni e danneggiando altri.
Il socio Modica Gaetano, chiesta e ottenuta la parola, fece osservare all’Assemblea dei soci che “il territorio di Biscari –nelle contrade Canalotti Fondo Niglio, Chiappa, Dirillo, Peniata, Macchione, Baudarello, Litteri, Piano di Giunco e Biddini- è posseduto per la massima parte da proprietari di Vittoria”, i quali non pagano la suddetta tassa (tassa che, quindi, viene meno al Comune di Biscari); che “la eccedenza al massimo di questa tassa” danneggia l’interesse dei soli agricoltori di Biscari; che un “accertamento rigoroso” è giusto, senza “fare bassamane” nel calcolarla.
Particolarmente interessante, per i contenuti dolorosi che vi sono presentati e per il pathos morale che li anima, è il verbale della seduta che i soci del Circolo della Borghesia di Biscari tengono il 22 gennaio del 1906.
Il presidente Garraffa Vincenzo fa presente all’Assemblea che, da diversi anni, gli agricoltori della Valle del Dirillo hanno il raccolto devastato dalla piena del fiume omonimo e che pure nell’anno appena cominciato –il 1906 – la furia delle acque non ha risparmiato i prodotti della terra. Gli agricoltori si trovano, quindi, nell’impossibilità “per manco (mancanza) di mezzi finanziari” di continuare la coltivazione dei terreni rovinati dal Dirillo, di cui sono “gabellotti”.
Ascoltata la relazione del presidente – e possiamo capire anche con quale stato d’animo demoralizzato di padri di famiglia, che un destino avverso da anni, priva del frutto delle campagne – l’Assemblea del Circolo della Borghesia all’unanimità ” fa voti ” al Principe di Mazzarino e agli Eredi del Principe Mirto affinché si degnino di attenuare la miseria incombente, che grava su questa benemerita classe di agricoltori, che coltiva i terreni di proprietà delle loro Signorie, accordando a essi “un abbuono in fitti” proporzionale ai danni ricevuti.
In quel “fa voti” a me pare di ravvisare da un lato la “sacralità” dei potenti e lontani signori, che detenevano il possesso della terra; dall’altro l’umiltà, ma anche la dignità degli agricoltori feriti da eventi naturali più grandi di loro e contro cui nulla si poteva.
Ancora cinquant’anni dopo, nel tempo in cui – ragazzino di sette nove undici anni – lavoravo nella sala da barba di mio zio Giovanni Carrubba, al numero 119 di Corso Indipendenza, quanti discorsi sconsolati e tristi ascoltai sulle terre sui raccolti sulle calamità naturali (‘u jelu, i rannili, ‘u sciroccu) e sulle piene distruttive e ricorrenti (calau ‘a china) del fiume Dirillo da parte di coloro che entravano nella sala per “fare barba e capelli”!
Eppure le facce di quegli uomini, per quanto mi consentono la mia memoria di oggi e la mia capacità di comprensione di allora, così tanto provati dalla sventura, sempre più mi pare di ricordarle (Mnemosine, dea della memoria, ancora mi assiste) come appartenenti ad un diverso consorzio umano e civile: anche segnati dalla sofferenza e dal dolore quegli uomini si dimostrarono forti nella temperie e solidali nella sventura, perché credevano in una vita migliore, sostenuti, forse, da una diversa fede, ma certamente confortati dalla ragionevole speranza di una più equa condizione economica futura.

Antonio Cammarana

“Punti fermi” alle origini del circolo agricolo Acatese di Acate-antica Biscari

Circolo agricolo Acate antica Biscari
Continuando a leggere i registri forniti dal presidente Giovanni Raffo, veniamo a conoscenza dei seguenti punti fermi alle origini del Circolo Agricolo:
– La tassa di ammissione al sodalizio, all’atto della fondazione denominato Circolo della Borghesia di Biscari, era di lire sei, mentre ogni socio regolarmente iscritto pagava la tassa mensile di centesimi settantacinque;
– Le riunioni del Consiglio di rappresentanza del Circolo e l’Assemblea generale dei soci in seduta plenaria si tenevano entrambi nel locale sociale di via XX Settembre:
quelle del Consiglio di rappresentanza “Previa lettera” d’invito a tutti i componenti; l’Assemblea generale “Previo avviso” pubblicato nella sede del sodalizio e “Previo segnale” dell’esposizione della bandiera alla porta;
– Quindici soci, estratti a sorte dall’elenco generale, quando si verificava il decesso di un iscritto, dovevano assistere ai funerali con l’obbligo di rimanere in chiesa e, al termine della funzione religiosa, di accompagnare il feretro al cimitero;
– Lo Statuto fondamentale del circolo fu redatto dal signor Direttore Gallo Biagio, letto dallo stesso in Assemblea, e approvato – con lievi obiezioni fatte da qualche socio – “a voti unanimi” e con somma soddisfazione da tutti i presenti, che applaudirono, alla fine, l’operato del signor Direttore;
– il 12 Aprile 1903, per la prima volta, dal Presidente Manusia Mariano venne chiesta all’Assemblea dei soci l’autorizzazione per l’acquisto del locale sociale e per il censimento (in vista dell’acquisto futuro) della stanzetta attigua, che, all’epoca, era abitata dal signor Maganuco Rocco. Il rilievo di questi punti fermi permette, secondo me, una doverosa riflessione:
– Torna ad onore del sodalizio l’osservanza scrupolosa delle regole da parte dell’Assemblea, del Consiglio e del singolo socio; il rispetto profondo dei morti iscritti al Circolo; la soddisfazione generale con cui venne salutata l’approvazione dello Statuto sociale; l’orgoglio legittimo di potere frequentare una sede, di cui i soci stessi fossero i proprietari reali.

Antonio Cammarana

Acate, celebrati al castello dei principi di Biscari i 150 anni dell’unità d’Italia

150 anni unità ItaliaI 150 anni dell’Unità d’Italia sono stati degnamente celebrati al castello dei Principi di Biscari con una conferenza-dibattito tenuta dai professori Antonio Cammarana e Antonino Masaracchio, che hanno relazionato rispettivamente sul percorso storico dell’Unità e sugli aspetti umani e culturali dell’evento.
La manifestazione è stata organizzata in sinergia dall’Amministrazione comunale e dal circolo di conversazione, dove, in precedenza, era stato inaugurato il nuovo logo dell’antico sodalizio.
Nel corso della serata la Sig.na Silvana Toro ha donato al Primo Cittadino, Giovanni Caruso, copia del Decreto Regio dell’8 Marzo 1861, con il quale il prozio Rosario Di Geronimo fu nominato primo Sindaco della cittadina fino al 1863.

Emanuele Ferrera

 

La relazione del Professore Antonio Cammarana

Il 17 marzo del 1861 Camillo Benso Conte di Cavour, già Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno Sardo-Piemontese, portava al primo Parlamento italiano la legge che proclamava la costituzione del Regno d’Italia.
Per quanto riguarda il titolo, che doveva assumere Vittorio Emanuele II, si manifestarono due tendenze: la tendenza monarchica e moderata, la tendenza repubblicana e democratica.
La prima voleva che il sovrano prendesse il titolo di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia per grazia di Dio, allo scopo di mettere in risalto che l’Unità era avvenuta per iniziativa dei Savoia.
La seconda chiedeva che Vittorio Emanuele II si intitolasse Re d’Italia  per volontà della Nazione, allo scopo di evidenziare le prerogative della sovranità popolare.
Alla fine venne raggiunto un compromesso e il sovrano prese il titolo di Vittorio Emanuele II Re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della Nazione.
Per quanto riguarda la capitale del nuovo Regno essa restava ancora Torino, ma il Cavour dichiarò che avrebbe dovuto essere Roma, perché nessun’altra città d’Italia poteva reclamare gli stessi diritti a ospitare il governo del nuovo Regno.
Meno di tre mesi dopo il raggiungimento dell’Unità moriva Camillo Benso conte di Cavour.
L’Italia non avrà più un grande uomo di Stato della statura politica e della levatura morale di Cavour, sia con gli uomini della Destra storica, sia con gli uomini della Sinistra storica, sia con Francesco Crispi travolto dalla fine dell’avventura coloniale in Africa con la sconfitta di Adua, sia con Giovanni Giolitti, che lo storico Gaetano Salvemini, con una frase entrata nella storiografia internazionale, definì “il ministro della malavita”; ad eccezione di Alcide De Gasperi, l’unico che può stargli alla pari e della cui grandezza storica e del cui ruolo politico in tantissimi ci siamo dimenticati.

Nel campo internazionale, con il raggiungimento dell’Unità l’Italia fa il suo ingresso sia nell’Europa delle Costituzioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, del progresso tecnico e scientifico; sia nell’Europa, che comincia a porre le basi per la distruzione dei principi fondamentali della Ragione umana con la corsa all’espansione coloniale, con la politica imperialistica, con la volontà di potenza e predominio, soprattutto con il contrasto violento, sul piano economi e sul piano militare tra le due maggiori potenze -l’Inghilterra e la Germania (e con i rispettivi alleati)- che tanti lutti devastazioni e rovine porteranno nei primi cinquant’anni del 1900.

Nel campo nazionale con il raggiungimento dell’Unità nascono i grandi problemi del popolo italiano: nasce il problema di risanare il bilancio dello Stato con un elevata pressione fiscale; nasce il problema del Veneto, di Trento e di Trieste, ancora sotto il dominio austro-ungarico: il Veneto sarà conquistato nel 1866 in seguito a quella che gli storici chiamano la terza guerra d’indipendenza; Trento e Trieste rimarranno ancora austriache e diventeranno territori italiani nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale; nasce la questione romana: Roma diventerà capitale d’Italia nel 1870, ma tra lo Stato italiano e la Chiesa si aprirà un conflitto la cui soluzione dovrà aspettare il 1929 con Benito Mussolini, che firmerà i Patti Lateranenzi, e il 1984 con Bettino Craxi, che firmerà altri patti tra Stato e Chiesa; nasce il problema dei quadri militari garibaldini, cioè degli ufficiali di Garibaldi, che saranno ammessi nell’esercito regolare soltanto con una retrocessione di grado; nasce, soprattutto la Questione Meridionale e, a questo proposito, una precisazione va fatta: Tra il 1200 e il 1250, esattamente seicento anni prima, al tempo di Federico II di Svevia, tutta l’Italia meridionale, chiamata prima Regno di Sicilia, poi Regno delle Due Sicilie, fu il primo Stato moderno d’Europa nel campo delle lettere, delle scienze, della giurisprudenza, della medicina, dell’università, dell’economia, ma in modo particolare per la tolleranza verso tutti i popoli e verso tutte le religioni.
Quando Garibaldi e i Mille sbarcano a Marsala il Regno delle Due Sicilie non solo era in profonda decadenza, ma era anche guidato da un Re, Francesco II detto Franceschiello, incapace di essere all’altezza della situazione. Anche se aveva un esercito, una marina, una bandiera, una politica interna ed estera, buone relazioni internazionali, i rapporti tra le persone erano rapporti feudali e di vassallaggio, e la popolazione vedeva nello Stato una difesa degli interessi di pochi privilegiati e non di tutta la collettività, a causa di una economia di rapina della fatica quotidiana del lavoratore.
Nel momento in cui viene conquistato dai Mille e consegnato da Garibaldi, nell’incontro di Teano, a Vittorio Emanuele II, il Regno delle Due Sicilie da Regno diventa una Questione, la Questione Meridionale. Dal 1861 non è stata ancora risolta anche se è stata affrontata in vari modi.

Tante generazioni di italiani (e io assieme a loro) abbiamo appreso a scuola un concetto di Risorgimento paludato di retorica e intriso di luoghi comuni, non il Risorgimento quale realmente è stato.
Un esame rigoroso degli orientamenti della storiografia nazionale e internazionale ci consente di affermare con sicurezza che il Popolo non ha partecipato al Risorgimento, il Popolo è stato IL GRANDE ASSENTE del Risorgimento.
La mobilitazione patriottica alla diffusione delle idee, alla lotta, al combattimento, alla battaglia, non ha coinvolto gli operai, pochissimi in una società preindustriale come quella della penisola italiana e delle isole; non ha coinvolto i contadini: milioni e milioni di contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, curvavo la schiena a lavorare nei campi dall’alba al tramonto del sole per un pane nero, restando indifferenti ed estranei al moto risorgimentale e all’unità d’Italia. Non sono state le grandi masse popolari a fare la storia del Risorgimento e dell’Unità. Sono state le minoranze politiche (quella monarchica e quella militare, quella moderata e quella democratica).
Per cui sarà sempre nostro dovere civile e morale di uomini liberi ricordare -oltre le grandi figure di Cavour e di Vittorio Emanuele II, di Mazzini e di Garibaldi- quelle minoranze che comprendono
-i tenenti di cavalleria Morelli e Silvati e il generale Guglielmo Pepe;
-il conte Federico Confalonieri, il conte Santor di Santa Rosa, il gruppo del giornale “Il Conciliatore”, foglio scientifico-letterario conosciuto anche come il foglio azzurro dal colore della carta;
-Silvio Pellico, che, dopo vent’anni di carcere duro nella fortezza dello Spielberg in Moravia, scrisse il libro “Le mie prigioni”, che commosse profondamente gli animi e che fu per l’Austria come una battaglia perduta;
-L’eroico prete carbonaro Don Andreoli, Ciro Menotti, i martiri di Belfiore, in particolare il tipografo Amatore Sciesa, che prima di essere condotto alla fucilazione fu fatto passare davanti alla sua casa, alla moglie, al figlio e pronunciò la frase: “Tiremm innanz!” (meglio morire, che tradire!);
-Il giovanissimo Iacopo Ruffini, uccisosi in carcere, per non fare in un momento di debolezza, i nomi dei compagni;
-I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati nel Vallone di Rovito;
-Carlo Pisacane, della cui sfortunata impresa ci rimane la poesia “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini;
-I milanesi delle Cinque Giornate; Brescia, le leonessa d’Italia;
-I cinquemila studenti e professori dell’Università di Pisa e di Siena, che si sacrificarono a Curtadone e a Montanara;
-La carica di tre squadroni di cavalleria dei carabinieri del Maggiore Sanfront, nella battaglia di Pastrengo;
-La giornata di Magenta, che aprì ai Franco-Piemontesi la strada per Milano;
-La sanguinosissima battaglia per la conquista delle alture di Solferino e di San Martino;
-I Mille di Giuseppe Garibaldi.
Né possiamo tacere sull’attività svolta dalle donne:
-la contessa Teresa Casati Confalonieri;
-Matilde Viscontini;
-la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso;
-Anita Garibaldi;
-Jessie White, l’inglese che venne a combattere per l’Italia;
-le donne classiche, le donne romantiche, le donne liberali, le donne che accompagnano le fasi cruciali del Risorgimento dal 1821 al 1861 con le due tappe fondamentali dal 1848-49 e del 1859-60.
Ma due nomi – sopra tutti -, secondo me, e lo affermo con le prime tre parole della poesia “A Zacinto” Né Più Mai, due nomi Né Più Mai potranno essere dimenticati:
-il primo nome è quello di Ugo Foscolo scrittore, poeta, soldato, professore di eloquenza all’Università di Pavia, traduttore, saggista, critico letterario, storico della letteratura italiana, educatore (non solo con la parola, ma con l’esempio), ma soprattutto ESULE (prima in Svizzera, poi in Inghilterra), ESULE perché non volle vendere la propria libertà di pensiero, prestando il giuramento di fedeltà al nemico storico degli italiani, all’impero austriaco, che gli offriva denaro, onori e la direzione di un giornale. E poverissimo morì, nel 1827, nel villaggio inglese di Turnhan Green.
Solo 1871 le sue ceneri saranno portate a Firenze nella chiesa di Santa Croce, che tutto il mondo ci invidia e saranno poste accanto alle tombe di quei grandi (Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri), che il Foscolo aveva cantato nell’immortale poesia de “I Sepolcri”.
Il secondo nome è quello di Goffredo Mameli, autore della “Canzone degli italiani”, universalmente nota come “Inno di Mameli”, dove le parole “Vittoria” e “Morte”  non sono parole retoriche e vuote, perché Mameli – all’età di ventidue anni – le ha consacrate nel combattimento e con il sacrificio della propria vita, nella difesa della Repubblica Romana del 1849, il momento più glorioso del Risorgimento.
Senza il Risorgimento non ci sarebbe stata l’Unità e senza l’Unità l’Italia sarebbe ancora, come disse il principe di Metternich, soltanto un espressione geografica.
Credo però che una volta fatta l’Italia il cammino dell’Unità nazionale non sia stato sorretto da una profonda coscienza unitaria verso tutte le classi sociali sia nel diritto (come diritto comune), sia nel dovere (come dovere comune), sia nella giustizia (come giustizia comune): il diritto il dovere la giustizia, i tre elementi fondamentali, secondo me, del SOGNO –  IL GRANDE SOGNO – di coloro che hanno dato la vita per il Risorgimento e per l’Unità.