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San Vincenzo, la Festa che fu

Acate Palio San Vincenzo 60

Acate – Corsa degli Anni Sessanta con cavalli appaiati, “Arisa”

La festa che Ignazio, da piccolo, prediligeva di più era quella di San Vincenzo martire, protettore del paese, perché andava avanti per diversi giorni.
Cominciava il venerdì, alle undici, dopo lo sparo di un mortaretto, con la fiera del bestiame; ma già, nei giorni precedenti, per le strade del paese, c’era grande movimento di animali (soprattutto asini, muli, cavalli) e di uomini:
tanti di questi ultimi indossavano pantaloni e giacche di fustagno, avevano fazzoletti rossi al collo, li chiamavano i “firuoti”, coloro che fanno affari in fiera.
Era uno spettacolo seguire da vicino – il venerdì e il sabato – le discussioni estenuanti dei venditori e dei compratori, che stavano in mezzo a quadrupedi che ora scalpitavano, ora defecavano, ora mandavano peti; non riuscendo, però, a capire se, dopo il lungo tira e molla sul prezzo, a guadagnarci o a rovinarsi fossero i venditori o i compratori. Ignazio mai era stato portato ad una fiera del bestiame, per timore che si prendesse un calcio di mulo; ma lui, la fiera, da un buon punto di osservazione, l’aveva potuto seguire: un’enorme macchia mobile grigio-scura, che si stagliava in quella zona bassa del paese (la contrada Fontanella), dalla quale il Castello dei Principi di Biscari appariva una linea difensiva arroccata su un picco, su un’altura, su uno sperone di roccia, come se dovesse proteggere ancora gli abitanti da un attacco nemico: i mai dimenticati saraceni o brandelli superstiti di truppa spagnolesca alla macchia o i lanzichenecchi di manzoniana memoria.
Il venerdì pomeriggio iniziavano pure le corse dei cavalli: cinque il venerdì, sei il sabato, otto la domenica, perché – alle sette di rito – se ne aggiungeva una (l’ultima) dedicata a San Vincenzo, con i cavalli che correvano appaiati e i fantini che, per tutto il Corso Indipendenza, si stringevano la mano.
Terminate le corse, all’imbrunire della domenica, la folla superava le transenne di corda e dai marciapiedi brulicava nel Corso. Sembrava la piena di un fiume di voci e di colori, che lo sparo di un mortaretto chiamava dalla strada principale al Piano San Vincenzo, dove sorgeva la Chiesa. Tante persone, paesani e forestieri venuti da centri vicini e lontani, dei mortaretti, all’uscita di San Vincenzo, sentivano soltanto l’eco; molte altre, del Santo protettore, vedevano soltanto il Fercolo d’oro splendente di luce, che – con due carabinieri ai lati e con il maresciallo, il sindaco, il parroco (le autorità militari, civili e religiose) davanti – veniva portato a spalla lungo il percorso stabilito. Tutte potevano osservare, anche se da lontano, due alti principeschi pesanti stendardi colore rosso e azzurro l’uno, colore avorio e verde l’altro, che aprivano la processione e che erano tenuti dritti da uomini che, pur nerboruti, rischiavano di procurarsi un’ernia.
Quando la processione scendeva dall’alto del Corso era accarezzata dal sibilo schioccante di decine di fiaccole che – come fontane ardenti di fuoco – da tanti balconi altoborghesi inondavano di luce e di fumo i larghi marciapiedi, che, in prossimità del Centro cittadino, avevano diverse bancarelle con bomboloni avvolti in carta rossa o verde, torrone bianco, gelato di campagna e zucchero filato.
Non mancando, in un angolo dei Quattro Canti, il rudimentale scaffale  dell’improvvisato libraio, che esponeva – tra gli altri – “I miserabili” di Victor Hugo, “Quo vadis?” di Enrico Sienkiewicz, “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre, nelle popolari e illustrate Edizioni Lucchi e Nerbini.
E, intanto, la banda del paese, rinforzata da un corpo musicale fatto venire, per la ricorrenza, da una città vicina, intonava marce sinfoniche, che aprivano il cuore a sentirle; mentre il rumore di migliaia di piedi faceva da sfondo sonoro alla processione dei fedeli, che accompagnava San Vincenzo fino alla Chiesa sia per devozione, sia per assistere allo spettacolo dei fuochi d’artificio, che fu sempre impressionante, vuoi in tempo di vacche grasse, vuoi in tempo di vacche magre, tanto con le amministrazioni comunali garibaldine, quanto con le amministrazioni comunali degasperine. Tornando a casa stanchi, si diceva che ne era valsa la pena; ma chi potrà mai dimenticare il patimento di coloro che, per voto, avevano seguito il Santo a piedi nudi?
L’indomani mattina, mentre gli uomini – tranne gli artigiani – andavano a lavorare, le donne camminavano ancora, per la fiera del lunedì, al Piano San Vincenzo e davanti al Castello dei Principi di Biscari, dove si concentravano i venditori di oggetti casalinghi, che esponevano, per terra, pentole piatti coltelli forchette e una gran varietà di oggetti di rame, di ferro e di alluminio. E c’erano pure le bancarelle, che facevano bella mostra del San Vincenzo a cavallo di creta con il fischietto.
Ignazio raramente si recava alla fiera del lunedì, considerando già tutto finito la domenica sera, dopo che San Vincenzo era rientrato in Chiesa e, per le strade, si respirava un residuo odore di polvere di mortaretti, di zucchero cotto e di carbone semiacceso, che davano una sensazione di reale appagamento e di vago malessere a un tempo. Ma era la festa che finiva, erano le strade che si vuotavano di gente, erano le bancarelle in disarmo con i dolci che venivano ritirati e con le lampadine che venivano spente. E c’era anche la folata di vento primaverile, che sollevava polvere e carta, nel Corso: sembrava rivolgere un estremo saluto agli ultimi venditori ambulanti, che raccoglievano – da impassibili e muti tentatori – le lacrime e i singhiozzi di quei bambini a cui i padri di famiglia, con un’occhiata di mite rimprovero, negavano, una volta ancora, di comprare il palloncino colorato .

Antonio Cammarana

La tradizione e la leggenda del martire crociato
di cui parla il poeta e scrittore Carlo Addario
e
la memoria dolorosa del diacono martire di
Saragozza documentata dallo storico, parroco
don Rosario Di Martino,
vivono da sempre nella realtà della grande festa
di popolo di San Vincenzo.

A.C..

Quando la gallina in brodo odorava di cannella.

San Giuseppe Acate
Il giorno di San Giuseppe, quando era piccolo, alle otto del mattino, Ignazio era già fuori dal letto. Lesto lesto si lavava si vestiva e raggiungeva in piazza i musicanti, che controllavano per l’ultima volta i loro strumenti, prima che il maestro li mettesse tutti in fila e desse il colpo di bacchetta per l’inizio della prima marcia: perché, per suonare per le vie del paese, si deve essere tutti ordinati in riga uno davanti e accanto all’altro, come tanti soldatini che debbono sfilare innanzi al loro comandante.
Quando il serpentone musicale si muoveva, Ignazio correva a mettersi dietro l’ultima fila e, con il corpo bandistico, faceva il giro del paese; e vedeva, in una volta sola, tutte le abitazioni e le strade per le quali, nel corso dell’anno, non passava mai: case basse dai muri sbrecciati; stradine mal tenute con tanto di buche nel terreno, ove si formavano pozzanghere d’inverno; cacate di vacca, larghe quanto impanate di pane, che gli spazzini, nel giorno di festa, non eliminavano; galline dentro larghe gabbie di legno, collocate sopra i marciapiedi accanto alle porte di casa; asini muli cavalli legati alla “boccola”. Uno spettacolo, che si ripeté sempre durante l’infanzia e la fanciullezza, che ogni anno rendeva felice Ignazio, perché lo metteva a contatto con la realtà sconosciuta e marginale del paese, ove l’umanità che ci viveva non trovava strano, né incivile essere tutt’uno con l’animale e i suoi escrementi.

Poi, dopo che i musicanti avevano finito di fare il giro del paese, Ignazio andava in piazza a trovare i compagni e, assieme a loro, passeggiava per i vialetti della villa comunale, ai genitori dando a credere di essere in Chiesa, come un ragazzino devoto. Terminata la funzione religiosa, mentre la Chiesa si svuotava e i fedeli affollavano il Corso del paese per fare bella mostra dell’abito nuovo, Ignazio con i compagni si metteva in mezzo a quella piccola folla e ci restava fino al tocco della campana di mezzogiorno.
Quindi il gruppo si scioglieva e Ignazio andava a casa sua, felice, perché sapeva che quel giorno, a tavola, ci sarebbe stata la gallina in brodo, che odorava di cannella: anche sua madre teneva le galline nella gabbia di legno vicino alla porta, ma nella strada parallela alla via principale.
Ora Ignazio non andava più appresso alla banda del paese, perché si era fatto grande e a tavola, a mezzogiorno, non c’era più il brodo, né la gallina che odoravano di cannella. Dacché la madre era morta, la gallina in brodo era diventata soltanto un ricordo del passato, un passato lontano, di quando il paese era ancora piccolo e attorno ad esso vi era il “bosco” e i più piccini giocavano nel tratto di strada di fronte alla propria casa e si viveva tutti raccolti attorno alle piccole cose, che rendevano felici e la felicità costava quattro soldi.

Nel pomeriggio della domenica di San Giuseppe, c’era pure la “cena” e il santo raccoglieva molto in offerte sia in denaro che in natura.
E sotto un sole che, a marzo, non era ancora cocente, Giuseppe Occhipinti, di cui si tace il soprannome passato alla storia, membro della commissione della festa, sopra un palco di legno costruito per l’occasione, levava in alto le offerte al santo e – “Cento lire uno, cento lire due, cento lire tre, aggiudicato! Viva san Giuseppe!” – i paesani portavano a casa ora una torta di ricotta con codette colorate, ora un mazzo di asparagi, ora un canestro di pane casereccio, ora un’altra delle tante diavolerie, che le nonne e le mamme riuscivano sempre ad inventare, per rendere la famiglia più devota al santo e il santo più disposto verso la famiglia: perché quelli erano tempi avari per tutti e il buon cuore generoso, dimostrato verso il santo, che si vede soprattutto quando si vive in ristrettezze, poteva voler dire, per il piccolo proprietario, il miracolo di una buona annata e, per il contadino, molte giornate di lavoro durante l’anno.
Così, una dopo l’altra, le offerte venivano alzate al cielo, ché tutti potessero vederle e ognuno potesse comprare quella che più gli piaceva.
Era un via vai continuo di uomini dalla piazza verso casa con le cose acquistate e dalla casa verso la piazza per le offerte; e la “cena” andava seguita fino all’ultimo, tutti tenendoci a sapere quanto avesse fruttato, perché l’ingenuità popolare era solita collegare il ricavato della cena al rumore e alla quantità di mortaretti, che sarebbero stati fatti esplodere la sera sia all’uscita che al rientro del santo, di fronte alla Chiesa Madre.

Antonio Cammarana

Il narratore porta a consapevolezza
universale i contenuti particolari, che dormono
nella memoria della comunità
A.C.

Acate, celebrati al castello dei principi di Biscari i 150 anni dell’unità d’Italia

150 anni unità ItaliaI 150 anni dell’Unità d’Italia sono stati degnamente celebrati al castello dei Principi di Biscari con una conferenza-dibattito tenuta dai professori Antonio Cammarana e Antonino Masaracchio, che hanno relazionato rispettivamente sul percorso storico dell’Unità e sugli aspetti umani e culturali dell’evento.
La manifestazione è stata organizzata in sinergia dall’Amministrazione comunale e dal circolo di conversazione, dove, in precedenza, era stato inaugurato il nuovo logo dell’antico sodalizio.
Nel corso della serata la Sig.na Silvana Toro ha donato al Primo Cittadino, Giovanni Caruso, copia del Decreto Regio dell’8 Marzo 1861, con il quale il prozio Rosario Di Geronimo fu nominato primo Sindaco della cittadina fino al 1863.

Emanuele Ferrera

 

La relazione del Professore Antonio Cammarana

Il 17 marzo del 1861 Camillo Benso Conte di Cavour, già Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno Sardo-Piemontese, portava al primo Parlamento italiano la legge che proclamava la costituzione del Regno d’Italia.
Per quanto riguarda il titolo, che doveva assumere Vittorio Emanuele II, si manifestarono due tendenze: la tendenza monarchica e moderata, la tendenza repubblicana e democratica.
La prima voleva che il sovrano prendesse il titolo di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia per grazia di Dio, allo scopo di mettere in risalto che l’Unità era avvenuta per iniziativa dei Savoia.
La seconda chiedeva che Vittorio Emanuele II si intitolasse Re d’Italia  per volontà della Nazione, allo scopo di evidenziare le prerogative della sovranità popolare.
Alla fine venne raggiunto un compromesso e il sovrano prese il titolo di Vittorio Emanuele II Re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della Nazione.
Per quanto riguarda la capitale del nuovo Regno essa restava ancora Torino, ma il Cavour dichiarò che avrebbe dovuto essere Roma, perché nessun’altra città d’Italia poteva reclamare gli stessi diritti a ospitare il governo del nuovo Regno.
Meno di tre mesi dopo il raggiungimento dell’Unità moriva Camillo Benso conte di Cavour.
L’Italia non avrà più un grande uomo di Stato della statura politica e della levatura morale di Cavour, sia con gli uomini della Destra storica, sia con gli uomini della Sinistra storica, sia con Francesco Crispi travolto dalla fine dell’avventura coloniale in Africa con la sconfitta di Adua, sia con Giovanni Giolitti, che lo storico Gaetano Salvemini, con una frase entrata nella storiografia internazionale, definì “il ministro della malavita”; ad eccezione di Alcide De Gasperi, l’unico che può stargli alla pari e della cui grandezza storica e del cui ruolo politico in tantissimi ci siamo dimenticati.

Nel campo internazionale, con il raggiungimento dell’Unità l’Italia fa il suo ingresso sia nell’Europa delle Costituzioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, del progresso tecnico e scientifico; sia nell’Europa, che comincia a porre le basi per la distruzione dei principi fondamentali della Ragione umana con la corsa all’espansione coloniale, con la politica imperialistica, con la volontà di potenza e predominio, soprattutto con il contrasto violento, sul piano economi e sul piano militare tra le due maggiori potenze -l’Inghilterra e la Germania (e con i rispettivi alleati)- che tanti lutti devastazioni e rovine porteranno nei primi cinquant’anni del 1900.

Nel campo nazionale con il raggiungimento dell’Unità nascono i grandi problemi del popolo italiano: nasce il problema di risanare il bilancio dello Stato con un elevata pressione fiscale; nasce il problema del Veneto, di Trento e di Trieste, ancora sotto il dominio austro-ungarico: il Veneto sarà conquistato nel 1866 in seguito a quella che gli storici chiamano la terza guerra d’indipendenza; Trento e Trieste rimarranno ancora austriache e diventeranno territori italiani nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale; nasce la questione romana: Roma diventerà capitale d’Italia nel 1870, ma tra lo Stato italiano e la Chiesa si aprirà un conflitto la cui soluzione dovrà aspettare il 1929 con Benito Mussolini, che firmerà i Patti Lateranenzi, e il 1984 con Bettino Craxi, che firmerà altri patti tra Stato e Chiesa; nasce il problema dei quadri militari garibaldini, cioè degli ufficiali di Garibaldi, che saranno ammessi nell’esercito regolare soltanto con una retrocessione di grado; nasce, soprattutto la Questione Meridionale e, a questo proposito, una precisazione va fatta: Tra il 1200 e il 1250, esattamente seicento anni prima, al tempo di Federico II di Svevia, tutta l’Italia meridionale, chiamata prima Regno di Sicilia, poi Regno delle Due Sicilie, fu il primo Stato moderno d’Europa nel campo delle lettere, delle scienze, della giurisprudenza, della medicina, dell’università, dell’economia, ma in modo particolare per la tolleranza verso tutti i popoli e verso tutte le religioni.
Quando Garibaldi e i Mille sbarcano a Marsala il Regno delle Due Sicilie non solo era in profonda decadenza, ma era anche guidato da un Re, Francesco II detto Franceschiello, incapace di essere all’altezza della situazione. Anche se aveva un esercito, una marina, una bandiera, una politica interna ed estera, buone relazioni internazionali, i rapporti tra le persone erano rapporti feudali e di vassallaggio, e la popolazione vedeva nello Stato una difesa degli interessi di pochi privilegiati e non di tutta la collettività, a causa di una economia di rapina della fatica quotidiana del lavoratore.
Nel momento in cui viene conquistato dai Mille e consegnato da Garibaldi, nell’incontro di Teano, a Vittorio Emanuele II, il Regno delle Due Sicilie da Regno diventa una Questione, la Questione Meridionale. Dal 1861 non è stata ancora risolta anche se è stata affrontata in vari modi.

Tante generazioni di italiani (e io assieme a loro) abbiamo appreso a scuola un concetto di Risorgimento paludato di retorica e intriso di luoghi comuni, non il Risorgimento quale realmente è stato.
Un esame rigoroso degli orientamenti della storiografia nazionale e internazionale ci consente di affermare con sicurezza che il Popolo non ha partecipato al Risorgimento, il Popolo è stato IL GRANDE ASSENTE del Risorgimento.
La mobilitazione patriottica alla diffusione delle idee, alla lotta, al combattimento, alla battaglia, non ha coinvolto gli operai, pochissimi in una società preindustriale come quella della penisola italiana e delle isole; non ha coinvolto i contadini: milioni e milioni di contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, curvavo la schiena a lavorare nei campi dall’alba al tramonto del sole per un pane nero, restando indifferenti ed estranei al moto risorgimentale e all’unità d’Italia. Non sono state le grandi masse popolari a fare la storia del Risorgimento e dell’Unità. Sono state le minoranze politiche (quella monarchica e quella militare, quella moderata e quella democratica).
Per cui sarà sempre nostro dovere civile e morale di uomini liberi ricordare -oltre le grandi figure di Cavour e di Vittorio Emanuele II, di Mazzini e di Garibaldi- quelle minoranze che comprendono
-i tenenti di cavalleria Morelli e Silvati e il generale Guglielmo Pepe;
-il conte Federico Confalonieri, il conte Santor di Santa Rosa, il gruppo del giornale “Il Conciliatore”, foglio scientifico-letterario conosciuto anche come il foglio azzurro dal colore della carta;
-Silvio Pellico, che, dopo vent’anni di carcere duro nella fortezza dello Spielberg in Moravia, scrisse il libro “Le mie prigioni”, che commosse profondamente gli animi e che fu per l’Austria come una battaglia perduta;
-L’eroico prete carbonaro Don Andreoli, Ciro Menotti, i martiri di Belfiore, in particolare il tipografo Amatore Sciesa, che prima di essere condotto alla fucilazione fu fatto passare davanti alla sua casa, alla moglie, al figlio e pronunciò la frase: “Tiremm innanz!” (meglio morire, che tradire!);
-Il giovanissimo Iacopo Ruffini, uccisosi in carcere, per non fare in un momento di debolezza, i nomi dei compagni;
-I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati nel Vallone di Rovito;
-Carlo Pisacane, della cui sfortunata impresa ci rimane la poesia “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini;
-I milanesi delle Cinque Giornate; Brescia, le leonessa d’Italia;
-I cinquemila studenti e professori dell’Università di Pisa e di Siena, che si sacrificarono a Curtadone e a Montanara;
-La carica di tre squadroni di cavalleria dei carabinieri del Maggiore Sanfront, nella battaglia di Pastrengo;
-La giornata di Magenta, che aprì ai Franco-Piemontesi la strada per Milano;
-La sanguinosissima battaglia per la conquista delle alture di Solferino e di San Martino;
-I Mille di Giuseppe Garibaldi.
Né possiamo tacere sull’attività svolta dalle donne:
-la contessa Teresa Casati Confalonieri;
-Matilde Viscontini;
-la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso;
-Anita Garibaldi;
-Jessie White, l’inglese che venne a combattere per l’Italia;
-le donne classiche, le donne romantiche, le donne liberali, le donne che accompagnano le fasi cruciali del Risorgimento dal 1821 al 1861 con le due tappe fondamentali dal 1848-49 e del 1859-60.
Ma due nomi – sopra tutti -, secondo me, e lo affermo con le prime tre parole della poesia “A Zacinto” Né Più Mai, due nomi Né Più Mai potranno essere dimenticati:
-il primo nome è quello di Ugo Foscolo scrittore, poeta, soldato, professore di eloquenza all’Università di Pavia, traduttore, saggista, critico letterario, storico della letteratura italiana, educatore (non solo con la parola, ma con l’esempio), ma soprattutto ESULE (prima in Svizzera, poi in Inghilterra), ESULE perché non volle vendere la propria libertà di pensiero, prestando il giuramento di fedeltà al nemico storico degli italiani, all’impero austriaco, che gli offriva denaro, onori e la direzione di un giornale. E poverissimo morì, nel 1827, nel villaggio inglese di Turnhan Green.
Solo 1871 le sue ceneri saranno portate a Firenze nella chiesa di Santa Croce, che tutto il mondo ci invidia e saranno poste accanto alle tombe di quei grandi (Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri), che il Foscolo aveva cantato nell’immortale poesia de “I Sepolcri”.
Il secondo nome è quello di Goffredo Mameli, autore della “Canzone degli italiani”, universalmente nota come “Inno di Mameli”, dove le parole “Vittoria” e “Morte”  non sono parole retoriche e vuote, perché Mameli – all’età di ventidue anni – le ha consacrate nel combattimento e con il sacrificio della propria vita, nella difesa della Repubblica Romana del 1849, il momento più glorioso del Risorgimento.
Senza il Risorgimento non ci sarebbe stata l’Unità e senza l’Unità l’Italia sarebbe ancora, come disse il principe di Metternich, soltanto un espressione geografica.
Credo però che una volta fatta l’Italia il cammino dell’Unità nazionale non sia stato sorretto da una profonda coscienza unitaria verso tutte le classi sociali sia nel diritto (come diritto comune), sia nel dovere (come dovere comune), sia nella giustizia (come giustizia comune): il diritto il dovere la giustizia, i tre elementi fondamentali, secondo me, del SOGNO –  IL GRANDE SOGNO – di coloro che hanno dato la vita per il Risorgimento e per l’Unità.