Prima Guerra Mondiale. L’imbecillità criminale che segnò la fine della Belle Epoque

Assassinio di Francesco Ferdinando

Quando Gavrilo Princip, studente serbo, assassinò, il 28 gennaio 1914, a Sarajevo, l’erede dell’imperatore d’Austria – Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, un grave turbamento pervase le capitali europee, ma nessuno ebbe coscienza che un’epoca stava avviandosi alla fine: non l’ebbero i sovrani d’Europa, né i loro diplomatici, né i loro plenipotenziari, né i loro generali; né gli industriali grandi medi piccoli; tanto meno i commercianti (presi dai loro traffici), gli artigiani (chiusi nelle loro botteghe), i contadini (che zappavano le terre feudali dei padroni).
Da tempo l’Europa viveva un’epoca di pace, di agiatezza, di prosperità, di invenzioni, di scoperte scientifiche e tecniche, che avevano portato i transatlantici, i dirigibili Zeppelin, gli aerei, i treni, i tram, le metropolitane, le automobili, l’elettricità, il cinematografo, la fotografia, il telefono, il telegrafo, i fornelli, le stufe, i ferri da stiro.
Erano migliorate le condizioni igieniche, erano progredite le conoscenze mediche, si erano costituite le organizzazioni sindacali, il diritto di voto veniva progressivamente esteso a tutti i cittadini maschi.
Cominciava a prendere piede l’alfabetismo con l’istituzione delle scuole elementari, si facevano più prospere le condizioni economiche, si diffondeva una grande illusione, l’illusione di vivere in un crescente benessere che, prima o poi, avrebbe raggiunto tutte le classi sociali. Questa illusione alimentava una euforia universale, soprattutto nelle grandi capitali europee, centri concreti e tangibili di splendore e di prestigio. In modo particolare Vienna, capitale dell’operetta e del valzer; Berlino, capitale del militarismo mondiale; Londra, patria dell’industrializzazione e del colonialismo; ma soprattutto Parigi, che, negli anni che vanno dall’inizio del 1900 al 1914, divenne il simbolo di un’età felice; a cui si addicevano gli aggettivi propri di un’epoca prospera e i sostantivi legati a un senso di superiorità rispetto ai popoli dei continenti extra-europei; verso cui convergevano la moda la cultura il divertimento, gli aristocratici gli altoborghesi, gli artisti gli scrittori i poeti i pittori; in cui prosperavano il “Mouline Rouge” e il “Chez Maxim’s” “con le relative
“Chambres Séparés”, di cui Toulouse-Lautrec ha saputo eternare gli aspetti più squallidi e disgustosi” (Mittner), perché mostricciatolo dal pennello geniale; “Chambres Séparés”, di cui furono protagonisti principali e indiscussi le moderne “ammiratissime cortigiane come Cléo de Mérode, mantenuta di lusso di Leopoldo III del Belgio, per non parlare di altri regnanti o di principi e banchieri meno facoltosi o generosi “(ibidem)”.
Quando l’impero d’Austria-Ungheria inviò un ultimatum alla Serbia, ponendo delle condizioni inaccetabili, con il non troppo segreto intento di vederselo respingere, allo scopo di attaccare militarmente la Serbia, schiacciarla, annetterla tutta o in parte oppure esigere un forte indennizzo, nessun sovrano o diplomatico europeo prevedeva ripercussioni più ampie di una guerra limitata tra il senescente elefante austro-ungarico e il giovane lupo serbo.
Il meccanismo delle alleanze e il rispetto delle loro clausole segrete fece precipitare, però, nella catastrofe, i maggiori Stati europei. I quali, soltanto in apparenza, cercarono di evitare un conflitto che si rivelerà senza precedenti nella storia d’Europa, sia per mai superati motivi di “revanche” (la Francia nei confronti della Germania) o di influenza (tra l’impero d’Austria-Ungheria e l’impero Russo nei Balcani), sia perché non si resero conto che la vera partita militare si sarebbe giocata tra l’impero britannico e l’impero germanico che, all’alba del 1900, erano i due galli del pollaio europeo.
Il primo, perché intendeva mantenere intatto il primato del suo potere industriale navale e coloniale a livello mondiale, che considerava indiscutibile.
Il secondo, perché incominciava a costituire una reale minaccia al predominio assoluto dell’Inghilterra su tutti i mari, avendo raggiunto una estensione territoriale e una potenza economica e militare senza precedenti nella sua storia.
Come si permetteva il gallo germanico di insidiare e di mettere in discussione l’indiscutibile supremazia britannica su tutte le acque del globo?
La prima guerra mondiale durò 51 mesi, oltre quattro anni. Cominciata come guerra di movimento, ben presto diventò guerra di posizione, poi guerra di logoramento, infine guerra di annientamento delle forze offensive fisiche e spirituali dell’avversario.
Si combatté principalmente sul continente europeo, ma coinvolse nazioni di altri continenti come gli Stati Uniti, l’impero turco, il Giappone imperiale.
Mobilitò risorse umane e risorse del territorio in modo totale.
Si lottò con le armi, con le idee, con i giornali, con i volantini, con le notizie false, con la criminalizzazione del nemico.
Il soldato al fronte, il soldato in carne ed ossa, il fante che fu il vero emblema della Grande Guerra, ora combatté, ora disobbedì, ora si diede ammalato, ora fuggì, ora si ammutinò, ora impazzì, ora si suicidò, ora subì la più orribile delle punizioni, la decimazione.
I generali furono certamente i grandi criminali del conflitto. Lontani dai fronti di guerra, mandarono al massacro milioni di uomini per conquistare una trincea, spesso una manciata di terra che avrebbero perduto un giorno, una settimana, un mese dopo.
Ogni città, ogni paese, a partire dal 1919, eresse un monumento ai caduti in guerra.
Nessuna città, nessun paese eresse un monumento all’Imbellicità Criminale Europea (dei sovrani, dei ministri, dei diplomatici) causa fondamentale, a partire dalla fine della “Belle Epoque” e della “Grande Guerra” della decadenza e del declino dell’assoluta supremazia mondiale, nel campo tecnologico scientifico e culturale, dell’Europa. Ogni città, ogni paese d’Europa attende ancora di innalzare questo monumento più duraturo del tempo.
Attenderà ancora!
Perché l’Imbecillità Criminale, che è figlia dello stomaco e non della testa, è patrimonio generazionale comune dei governanti di ogni terra e di ogni epoca.

Antonio Cammarana

Memory

Memory
Uscii di casa in ritardo, percorsi in fretta via Duca D’Aosta e arrivai finalmente all’interno della palestra all’aperto della Scuola elementare “Capitano Puglisi” di via Balilla. Trovai parecchi miei compagni di classe.
Due di essi parlavano animatamente non di quale cinema fosse migliore in paese, ma dei film che si proiettavano alla comunità. Erano i primi anni Cinquanta e la visione di un film in bianco e nero, in seguito anche a colori, affascinava grandi e piccini.
Di recente, il cineteatro Eden del commendatore Morale aveva proiettato “Guerra e Pace”, un film cinemascope e technicolor della durata di quattro ore con scansione in quattro tempi, tratta dall’omonimo romanzo storico dello scrittore russo Leone Tolstoj.
E uno dei miei compagni di classe ne magnificava l’eccezionalità per gli attori, per i colori, soprattutto per le scene che riscostruivano l’ambiente climatico e la catastrofe della Grande Armata di Napoleone Bonaparte sulla strada del ritorno da Mosca al ponte della Beresina al territorio europeo vero e proprio fino alla disfatta finale a Waterloo.
Ma non aveva fatto i conti con l’altro mio compagno di classe, che aveva la fortuna di potere vedere gratuitamente tutti i film che venivano proiettati al cinema di don Salvatore Castiglione sia d’inverno che d’estate. E che, come una mitragliatrice in piena azione di contenimento di un assalto alla baionetta di una trincea, cominciò a sparare a raffica titoli di film e contenuti in modo stupefacente. Da “Sansone e Dalila” a “La tunica” a “I dieci comandamenti”, da “I figli di nessuno” a “Roma città aperta” a “Catene”, pellicole che rappresentavano il momento “clou”, di massimo interesse al cinema Castiglione, quelle per cui si mandavano i ragazzini a chiedere alla moglie del titolare, donna Giovannina, se quella sera stessa si proiettasse un film di “cianciri”, cioè che faceva piangere.
Lei invariabilmente e puntualmente rispondeva: “Cà sicuru, dall’inizio alla fine” e “Purtati i seggi di casa, perché stasera (da leggere “come al solito”) i posti non basteranno”. Intanto arrivava il maestro, che, gridando e roteando la bacchetta, si sforzava di “raccozzare” (proprio come fa il Griso con i Bravi ne “la notte degli imbrogli” de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni) tutti gli alunni della classe, che si schieravano ora a favore di un compagno ora dell’altro. E finalmente, dopo essere stati messi in fila per due, uscivamo dalla palestra scoperta e ordinati e composti come bravi soldatini entravamo nell’edificio scolastico dal portone di via Balilla, lasciando alla nostra sinistra una schiera di alunni che cantavano – musicato da Giacomo Puccini tre anni prima dell’avvento del Fascismo – “L’inno a Roma”: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”.
L’Italia stava uscendo faticosamente dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale; contadini braccianti agricoltori faticavano, dall’alba al tramonto del sole, nei campi, con zappe e aratri, muli cavalli e asini. Eppure l’inno a Roma, esaltazione e celebrazione dell’Urbe (la città per antonomasia), era ancora lì – nella scuola elementare di via Balilla – a ricordare alla neonata nazione democratica (1946) le antiche origini di romano popolo guerriero di tradizione regia repubblicana e imperiale, inno che mi spinge oggi – 28 aprile 2014 – oggi, che sono ritornato indietro nel tempo con la memoria, in odore di malinconico Amarcord, a pormi una domanda perentoria e che non ammette più dilazioni:
“Quando è finito veramente il Fascismo ad Acate – antica Biscari?”
Si affacciava, intanto, siamo nel 1953, nella vita del paese – che assisteva alla grande ondata migratoria nelle regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) – un potentissimo strumento di unità civile e culturale (ma non solo) delle genti italiane: la televisione, che, nei suoi primi anni di vita, ebbe anche un ruolo di positiva azione educativa e didattica, contribuendo ad eliminare una parte notevole di analfabetismo con programmi come “Non è mai troppo tardi”; e che radunò e inchiodò allo schermo televisivo milioni di persone con le puntate settimanali del capolavoro di Alessandro Manzoni, “i Promessi Sposi”; con i programmi pomeridiani dei ragazzi di “Zurlì, mago del giovedì”; con le serate del “Lascia o Raddoppia” di Mike Bongiorno; con “La domenica sportiva”, che di sera aggiungeva le immagini alla semplice radiocronaca pomeridiana di “Tutto il calcio minuto per minuto”, che immancabilmente si concludeva con lo spot pubblicitario: “Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock; se la squadra del vostro cuore ha perso, consolatevi con Stock. Stock 84, il signore si che se ne intende”; con la tribuna politica diretta da Jader Iacobelli.
Ricordo che il locale al chiuso del cinema di don Salvatore Castiglione, per tutto l’inverno e parte della primavera, a mezzogiorno, funzionava come mensa scolastica per gli alunni delle famiglie bisognose di Acate, mensa da tutti conosciuta come “la refezione”; di sera, diventava sala cinematografica al coperto; per tutta l’estate e parte dell’autunno, per mezzo di uno schermo gigante in pietra, intonacato di bianco e innalzato nella palestra all’aperto attigua alle Scuole elementari e al Collegio delle suore, si trasformava in Arena Castiglione.
Il cinema di don Salvatore Castiglione, il cine-teatro Eden del commendatore Morale e l’Arena argentina dell’ingegnere Traina
riempirono i miei spazi vuoti serotini degli Anni Cinquanta e Sessanta. E io non dimenticherò mai una sera dell’estate del 1962, quando venne proiettato “Il pozzo e il pendolo”, un film del 1961, diretto da Roger Corman e tratto da un racconto di Edgar Allan Poe.
Nel silenzio dell’oscurità, tutto preso dalle scene del film, un vero classico del terrore e dell’orrore, mentre una mano insanguinata spuntava da una tomba, spostando lentamente la lastra di pietra che la ricopriva, per la paura e per l’emozione, accesi maldestramente una nazionale esportazione dalla parte del filtro e cominciai a tossire fortemente e ininterrottamente. Ad un certo punto, nel silenzio, rotto soltanto dai colpi di tosse, si levò una voce acida e risentita: “A ci ni sunu miegghiu di tia o spitali!”, che trasformò un ambiente attentissimo alla visione e all’ascolto in un luogo di bassa ilarità e di rumorose flatulenze.
A partire però dalla proiezione di film di un certo spessore culturale quali “West side story”, “Scandalo al sole”, “I due volti della vendetta”, “I magnifici sette”, “Assassinio sul treno”, il cinema Morale attrasse come una calamita il gruppo di amici che si era costituito attorno a Pippo Puglisi, a Rosario Manusia, a Gigi Albani, a Carmelo Pinnavaria (Dollar Man), quest’ultimo da tutti chiamato “il professore”, perché, fin dalle prime sequenze di un film giallo, indovinava chi fosse l’assassino.
Il gruppo era attratto soprattutto dal film del giovedì, quasi sempre un giallo, che i fratelli Morale non facevano mai mancare in quel giorno settimanale, anche se (come spesso accadeva) lavorassero per niente, essendo equivalenti per loro la spesa e il ricavo.
Il gruppo evitava (con la mia sola eccezione), le proiezioni della domenica, seguite da vere e proprie fiumane di persone di tutte le età che, per almeno quattro ore di seguito, seguivano il cinegiornale della settimana Incom, le reclame, il primo e il secondo film, spizzicando simenta e calacavisi, e ruminando fave abbrustolite e pastiglie secche, infine raschiando la gola con bottiglie di gassosa e dissetanti caramelle carrubba.
In seguito avrebbe preso piede ad Acate il cinema del professore Vincenzo Lantino, con elegante galleria e accogliente tribuna, ma io potei apprezzare poco sia la bellezza del locale, sia i film che vi si proiettavano.
L’iscrizione all’Università di magistero di Catania mi allontanò a poco a poco, ventenne, dalle sale cinematografiche di Acate; come la frequenza dell’istituto magistrale mi aveva già allontanato, ancora quattordicenne, dal campo di calcio, in cui non avevo intravisto alcun futuro.
Rimaneva la televisione, che, dopo preadolescianziali entusiasmi, cominciai a trascurare, considerandola una monotona trasmissione di programmi e notizie, che spersonalizzavano lo spettatore conformandolo alla piattaforma ideologica del potere. Buona, comunque, per pappagalli politici e professoricchi ripetitori, che comunicavano, nella loro rampante ascesa, concetti e nozioni sulla scia del manovratore di turno rosso bianco o nero.

Antonio Cammarana

Al Castello la prima edizione del “Premio Gabriele Carrubba”: il riconoscimento all’insegnante in pensione Maria Iemmolo

Premio Gabriele Carrubba Acate

Si è svolta sabato 19 aprile, nella suggestiva sala consiliare del settecentesco Castello dei Principi di Biscari di Acate, la Prima Edizione del “Premio Gabriele Carrubba”.
Una iniziativa fermamente voluta dalla famiglia del compianto illustre concittadino e, in modo particolare, dalla figlia, la professoressa Maria Teresa Carrubba. “Un premio nato con l’intento di strappare all’oblio pezzi di vita, mettendo in risalto l’operato di un cittadino esemplare, che ha dato un grande contributo alla crescita civile, sociale, politica ed amministrativa di Acate”.
E, in effetti, il direttore Carrubba ha rappresentato sempre, per la piccola cittadina iblea, un valido punto di riferimento.
Indimenticabile il suo costante impegno che spaziava dalle attività culturali, sociali e religiose a quelle politicoamministrative.
In passato, fu più volte consigliere comunale dell’allora Partito Socialista Italiano, ricoprendo le cariche di assessore, vice sindaco e, nel 1994, presidente del Consiglio Comunale, durante l’amministrazione Masaracchio. Negli anni ’70 del secolo scorso diede il suo valido contributo quale assessore alla Cultura, per la realizzazione di opere importanti per la nostra cittadina quali la costruzione del plesso scolastico “Carlo Addario” di Via Neghelli, l’acquisto del castello dei Principi di Biscari e la crescita gestionale ed organizzativa della Biblioteca Civica, “Enzo Maganuco”.
Quindi, nel suo intervento introduttivo, Maria Teresa Carrubba ha spiegato al numerosissimo pubblico presente in sala, compresa una delegazione della Guardia di Finanza, guidata dal dottor Giovanni Raffo, dell’Associazione Trasporto Dializzati e delle signore Maria Carmela La Lisa e Rosalba Carnemolla in rappresentanza dell’Ufficio Postale di Acate, le motivazioni che hanno indotto la sua famiglia ad istituire questo prestigioso premio, riservato a personalità cittadine, che si sono particolarmente distinte per qualità ed ingegno.
Ad inaugurare la prima edizione del “Premio Gabriele Carrubba”, la signora Maria Iemmolo, maestra in pensione, definita da Maria Teresa Carrubba “simbolo ed emblema della scuola in generale e dell’insegnante in particolare. Una vera colonna portante della Scuola acatese, quella scuola alla quale la Iemmolo ha dedicato più di 42 anni della sua vita, prima nella veste di insegnante ed educatrice e successivamente di coordinatrice e responsabile dei servizi scolastici comunali. Una maestra, ma soprattutto una donna coraggiosa, di cui abbiamo rilevato molte affinità con mio padre, due persone che hanno sempre amato mettersi in gioco”.
Anche l’altra figlia del direttore Gabriele Carrubba, l’insegnante Ginetta, ha voluto ricordare la figura del compianto genitore, soffermandosi su quelli che ha definito “i ricordi più belli”, legati agli anni in cui Gabriele Carrubba ricopriva l’incarico di direttore dell’Ufficio Postale di Niscemi. “In quel periodo – ha tenuto ad evidenziare la signora Ginetta – seguivo mio padre passo dopo passo, facendo tesoro dei suoi insegnamenti e dei nobili valori che mi inculcava, in modo particolare, quelli legati al concetto di libertà”.
Parole di elogio nei confronti dei due “protagonisti” della serata, il direttore Carrubba e la maestra Iemmolo, sono state espresse dal sindaco di Acate, professor Francesco Raffo, che, unitamente alla giunta comunale (presente al completo all’evento oltre al presidente del Consiglio Comunale e a numerosi consiglieri, sia di maggioranza che di minoranza), ha voluto assicurare il patrocinio dell’Ente Comune alla manifestazione culturale.

Visibilmente emozionato, il primo cittadino ha brevemente ricordato la figura del direttore Carrubba, definendolo “un preziosissimo collaboratore per la ricchezza dei suoi suggerimenti politico-amministrativi”, con un chiaro riferimento al periodo in cui entrambi si ritrovarono ad operare politicamente, Raffo nella veste di sindaco di una amministrazione di centrosinistra e Carrubba in quella di suo vice ed assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione.

Non sono mancate, poi, parole di elogio anche per la signora Iemmolo definita, sempre dal sindaco Raffo, “insostituibile protagonista della vita culturale acatese”. Quindi il primo cittadino ha tenuto a mettere in risalto l’importante ruolo del Castello dei Principi di Biscari, “vero e proprio tempio della cultura e quindi sede naturale per ricordare ed omaggiare personaggi, che hanno dato lustro alla città di Acate”.

Un breve ricordo sull’esperienza comune, vissuta quali componenti dell’apposito comitato, istituito in occasione della traslazione delle spoglie di San Vincenzo Martire, è stato tracciato dalla Delegata alla Cultura e Pubblica Istruzione, insegnante Immacolata Licitra.

Il professore Antonio Cammarana ha presentato un dettagliato profilo biografico di Gabriele Carrubba, partendo dalla sua esperienza adolescenziale fino agli ultimi anni della sua vita, percorrendo le tappe fondamentali dell’ attività lavorativa, culturale, politica, sociale al servizio della comunità acatese.
L’ultimo percorso doloroso dell’esistenza del direttore Carrubba è stato ricordato dal cognato, l’insegnante Biagio Mezzasalma. “Un tragico momento vissuto sempre con dignità, senza mai abbattersi, ma rifugiandosi, al contrario, negli affetti della famiglia e nelle attività culturali e letterarie della figlia Maria Teresa. Suo unico rammarico quello di non poter leggere personalmente le opere della figlia a causa delle sue ormai precarie condizioni di salute”.
“Un personaggio ed un cittadino esemplare che ha dato tantissimo alla sua Acate, di cui andava estremamente fiero ed orgoglioso”. Queste le parole iniziali dell’intervento dell’altro cognato, il professore Gaetano Masaracchio, il quale ha concluso dicendo che “Gabriele era un galantuomo. Per il suo carattere mite, che lo contraddistingueva, egli rappresentava non solo la saggezza, ma la mitezza personificata”.
La lunga militanza politica del direttore Carrubba, nelle file del Partito Socialista, è stata ricordata dal giornalista pubblicista Salvatore Cultraro, che ha definito l’illustre concittadino, “un alfiere della pace”.
Il ricordo del direttore Carrubba si è concluso con la commovente lettura del commiato in occasione dei funerali, che la professoressa Giovanna Laura Longo ha definito:” Una pagina sublime di cristiano commento, di rara bellezza e di intensità emotiva, quella che il reverendissimo Parroco don Rosario Di Martino rivolge a Gabriele Carrubba per affidare alla memoria il legame profondo che lo ha unito alla sua famiglia, per la quale ha profuso tutta la sua carica affettiva, insieme ad Ada, la compagna della sua vita; i tratti esemplari che ha lasciato alla comunità; il ricordo del suo essere stato padre, amico, fratello, compagno, ma soprattutto per chiedere alla tenerezza di Dio di accogliere, nella sua infinita Misericordia, l’anima di un Giusto alla fine del suo cammino terreno. Un commiato dal pathos trascinante e sofferto, che, con la levitas della parola, porta conforto ai suoi cari e trasmette vere ed autentiche emozioni, che toccano il cuore di tutti”.
Prima di passare alla consegna materiale del premio a Maria Iemmolo, due sue ex alunne hanno voluto ricordare brevemente la figura della loro amata maestra. Per l’insegnante Biagia Gravina, che si è definita con orgoglio una delle prime alunne, la Iemmolo è stata “una educatrice rigorosa, ma allo stesso tempo tenera e gentile, sempre pronta a far sue nuove esperienze didattiche e percorsi educativi alternativi”. “Da lei ho imparato la grinta e la determinazione, la forza di raggiungere gli obiettivi al di la delle barriere, al di la delle difficoltà”, ha invece sottolineato l’altra alunna, l’insegnante Biagia Lima. “Oltre che di conoscenza, la maestra Iemmolo ci nutriva di vita ed i suoi insegnamenti ho cercato di trasmetterli sempre ai miei figli”.
Quindi si è proceduto alla consegna alla maestra Maria Iemmolo del “Premio Gabriele Carrubba”, consistente in un’ artistica targa. Anche l’Amministrazione Comunale ha voluto donare alla signora maestra un gentile pensiero consistente in un omaggio floreale offerto dal sindaco Raffo. Visibilmente commossa per le manifestazioni di affetto e di stima, la Iemmolo, dopo aver ringraziato gli organizzatori della manifestazione, ha rivolto affettuose parole “al carissimo amico di sempre Gabriele” ed un elogio alla figlia Maria Teresa per la sua produzione letteraria. Quindi, dopo aver simpaticamente scherzato sulla sua “novantennale” esperienza ed attività, ha concluso il suo intervento con una pillola di saggezza: “Una maestra può insegnare a leggere e a scrivere, ma questo possono farlo tutti. La cosa difficile, invece, è contribuire a far crescere dei futuri cittadini e per fare ciò bisogna metterci il cuore”. A conclusione della serata, la famiglia Carrubba ha voluto ringraziare tutti i relatori, consegnando loro una pergamena ricordo.

Antonio Cammarana
Salvatore Cultraro

“PREMIO GABRIELE CARRUBBA” – 1 Edizione
Castello dei Principi di Biscari – sabato,19 aprile 2014 – ore 18
Intervento prof. Antonio Cammarana
Gabriele Carrubba: biografia

Il 24 luglio del 1925, a Biscari, da Giovanni Carrubba (intarsiatore del legno) e da Teresa Berrafato (ortopedica del popolo), secondo di tre figli, nasce Gabriele.
Fin dall’infanzia dimostra di avere un carattere forte ed estroverso, una intelligenza intuitiva che lo fa apprezzare, negli anni della scuola elementare, sia dal maestro Giuseppe Leone, sia dal poeta Carlo Addario, che nutriranno per Gabriele affetto e stima durature, invitando i genitori a far proseguire negli studi il ragazzo in cui hanno colto capacità intellettuali e desiderio di conoscenza.
La Seconda Guerra Mondiale dà, però, un corso diverso all’esistenza di Gabriele. Il padre viene fatto prigioniero in Africa, il fratello Giovanni, già nel corpo di polizia, viene chiamato alle armi. Sulle spalle di Gabriele, appena adolescente, cade il peso del sostentamento di una famiglia allargata, costituita dalla madre, dalla sorella Maria Rosa, dagli anziani nonni, che non godono di alcuna pensione.
Già accolto nell’Ufficio Postale di Biscari, che, nel frattempo, su proposta di Carlo Addario, dal 1938 ha preso il nome di Acate, Gabriele, per le notevoli doti di telegrafista, accetta pure di fare i turni di notte nel medesimo ufficio; perché qui può arrivare, in qualsiasi ora, dall’aeroporto di Comiso, tramite il telegrafo, il segnale di allarme delle incursioni aeree inglesi ed americane. Ricevuto il segnale Gabriele, per mezzo di un campanello, trasmette a don Pietro Ravidà il pericolo imminente e don Pietro, suonando le campane, invita la popolazione a mettersi al riparo.

Negli anni ’60 Gabriele vince il concorso di Direttore d’Ufficio Postale e dirigerà nell’ordine gli uffici di Fiumedinisi, di Scoglitti, di Niscemi e di Comiso, lasciando sempre un ricordo di professionalità, di competenza e di umanità.
A Fiumedinisi ritornerà con la memoria la figlia Maria Teresa, dando alle stampe il quaderno “Il cuore delle donne , il cuore di mia madre”, in cui traccerà un vivo e toccante ricordo sia di quella terra, sia di persone e cose.

Sentendo il desiderio di dare sempre il meglio al suo paese, anche nella terza età, Gabriele, ormai in pensione, vive all’insegna di una partecipazione attiva e costruttiva nel campo culturale sociale politico.
E’ tra coloro che progettano e realizzano il nuovo Plesso Scolastico di via Neghelli, intitolato nel 2011 al poeta Carlo Addario; l’illuminazione di via del Carmelo dall’angolo di via XX Settembre alla Piazza Francesco Crispi; l’acquisto del Castello dei Principi di Biscari, in seguito restaurato ed aperto al pubblico.
In qualità di assessore alla cultura dedica cure particolari alla Biblioteca Comunale “Enzo Maganuco”, promuovendo l’acquisto di testi, nonché la realizzazione di progetti e di attività culturali.
Come membro del Consiglio Pastorale un ruolo di prim’ordine ha nella vita della Parrocchia “San Nicola di Bari”, facendosi sempre portatore di proposte importanti quali l’acquisto della campana della Chiesa Madre, il restauro e il riordino della Chiesa di San Vincenzo.
Non a caso il nostro Parroco Don Rosario Di Martino, che Gabriele affianca costantemente nel corso degli anni, gli concede l’onore di consegnare al Vescovo Monsignor Angelo Rizzo, la chiave della chiesa stessa in occasione della Consacrazione avvenuta nel 1992.
Con la stessa forza d’animo con la quale era vissuto, affronta con serenità i mali che lo assalgono nell’ultima parte della sua esistenza e le prove durissime a cui il suo corpo deve sottostare e che sostiene (credo di non esagerare dicendo che “stoicamente” sostiene), avendo parole di coraggio per coloro che, a lui vicino, per lui hanno parole di conforto.
Serenamente consegnandosi nelle braccia del Padre Celeste, che tanto in opere gli aveva fatto realizzare e che tanto in sofferenza gli aveva chiesto di sopportare.

Antonio Cammarana

 

 

“Fu il tempo degli assassini”. 15 aprile 1944. 70° anniversario della morte del filosofo Giovanni Gentile

Giovanni Gentile
Nel novembre del 1967 (Anno Accademico 1967-1968), aprendo il Primo Corso di “Storia della filosofia”, fondato sulla vita e sulle opere del filosofo di Castelvetrano, il Prof. Domenico d’Orsi, ad una attentissima platea di studenti, nella seconda aula grande (oltre seicento posti a sedere) dell’Istituto Universitario di magistero di Catania, diceva:
-“Oggi cominciamo un discorso documentatissimo su Giovanni Gentile filosofo, pedagogista, educatore, autore della Riforma della scuola che porta il suo nome, ideatore animatore costruttore e direttore scientifico dell’Enciclopedia Italiana Treccani, il miglior ministro della Pubblica Istruzione che l’Italia abbia avuto e abbia a tutt’oggi.
Assassinato il 15 aprile del 1944 da unità di un Gruppo di Azione Patriottica (G.A.P.)”.
Non ho dimenticato la fortissima impressione che mi fecero quelle parole, che da allora mi porto appresso senza cessare di ricordare, perché quella di Giovanni Gentile, è stata, assieme a quella di Benedetto Croce, la figura più rappresentativa del mondo della cultura italiana nella prima metà del Ventesimo secolo.
Né ho smesso di chiedermi se i motivi politici, che hanno portato alla
morte del filosofo di Castelvetrano, possono essere addotti a giustificazione dell’assassinio di una persona armata soltanto della forza della sua concezione della vita e del mondo, crimine di cui la stampa clandestina comunista e paracomunista si gloriò, quando il destino della Repubblica Sociale Italiana era ormai segnato.
Ho sempre dichiarato che nessun assassinio può trovare una giustificazione, nemmeno per motivi politici. Ma una giustificazione la trovò, nel 1944, Concetto Marchesi, prima professore (dal 1923) all’Università di Padova, poi Rettore (dal 1943) dello stesso Ateneo, autore di una ormai classica e credo insuperata “Storia della letteratura latina “(1925, 1927) in due volumi, scrivendo:
-“Quanti oggi invitano alla concordia sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti invitano oggi alla tregua vogliono disarmare i patrioti e rifocillare gli assassini nazisti e fascisti, perché consumino i loro crimini.
La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, l’ultimo traditore fascista non sia stato sterminato.
Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!”.
Che cosa aveva fatto e che cosa aveva scritto il filosofo Giovanni Gentile per meritarsi la sentenza di morte emessa da una fantomatica giustizia del popolo e soprattutto da un fantomatico popolo, se fino al 25 aprile del 1945 la grande maggioranza degli Italiani preferì non compromettersi con nessuna delle due parte in lotta – come scrive Gianni Oliva ne “L’Italia del silenzio”-, restando indifferente a guardare gli uomini della Repubblica Sociale Italiana e gli uomini della Resistenza, che si scannavano a vicenda e aspettando il giorno in cui gli Alleati avrebbero definitivamente sopraffatto le Forze Armate Tedesche in Italia e in Europa?
Giovanni Gentile aveva ripreso il suo posto di combattimento, in prima linea, senza avere paura di coloro che minacciavano e uccidevano a tradimento. Soprattutto aveva ripreso a scrivere.
Per l’Italia. Dal “Discorso agli Italiani” (In Campidoglio, 24 giugno 1943) a “Ricostruire” (Corriere della sera, 28 dicembre 1943), a “Ripresa” (Nuova Antologia, I Gennaio 1944) a “Questione morale” (Italia e Civiltà, 18 gennaio 1944) a “Giambattista Vico nel secondo centenario della morte” (Firenze, 19 marzo 1944), a “Il sofisma dei prudenti” (Civiltà fascista, aprile 1944) via via maturano le parole che, una volta ancora, riaffermano il suo coraggio e la sua consapevolezza di andare incontro ad un destino di morte:
-“Oh, per quest’Italia noi ormai vecchi siamo vissuti: di essa abbiamo
parlato sempre ai giovani, accertandoli ch’essa c’è stata sempre nelle
menti e nei cuori; e c’è, immortale. Per essa, se occorre, vogliamo morire; perché senza di essa non sapremo che farci dei rottami del miserabile naufragio; come già non ci regge più il cuore a cercare, in quell’ombra vagolante, tra le imprecazioni del popolo tradito e i sorrisi ironici o i disegni altezzosi dello straniero, il nostro Re, che fu già in cima ai nostri pensieri, perché ai nostri occhi incarnava nella sua persona la Patria, che non avremmo mai sospettato potesse proprio da lui essere consegnata al nemico” (Dichiarazione premessa alla Commemorazione del secondo centenario vichiano).
Per l’Italia Giovanni Gentile morì assassinato, dentro l’automobile che il 15 aprile del 1944, verso le tredici e trenta, l’aveva portato a Villa Montalto nel quartiere Salviatino, da quattro unità di un Gruppo di Azione Patriottica (G.A.P.) i cui nomi, secondo quanto si evince dalla lettura de “La sentenza” di Luciano Canfora, sono: Bruno Fanciullacci, “esecutore materiale dell’uccisione” del filosofo di Castelvetrano; Giuseppe Martini; Luciano Suisola; Marcello Serni.
A Bruno Fanciullacci, morto in seguito ad un tentativo di fuga, dopo l’arresto e l’interrogatorio (certamente condotto con mano pesante) da parte dei membri della Banda Carità, è stata conferita la medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria; il comune di Pontassieve (Firenze) ha intitolato una via a suo nome; il comune di Firenze gli ha dedicato lo slargo di Villa Triste.
Per quanto riguarda i mandanti “manca tuttora una versione per così dire ufficiale del P.C.I. (diventato PDS, DS, PD aggiungo io) sul caso Gentile.
Unica costante sinora – in tanto variare di successive e provvisorie verità provenienti dalla forza politica che esercitò il maggior peso in quella operazione – il ricorso al nome di Marchesi ed al suo celebre scritto. Non c’è rievocazione dell’attentato che non riproduca ogni volta per intero quello scritto: come autorevole avallo, o come alibi morale, o come esplicita sentenza di morte” (Luciano Canfora, La Sentenza, Sellerio Editore Palermo, 1985, pag. 298).
Riprendendo tra le mani la “Storia della letteratura Latina” del Prof. Concetto Marchesi mi sembra ormai di tenere tra le mani un ripugnante e grottesco fiore, rosso del sangue dell’innocente vegliardo e mentore della filosofia e della cultura italiana tra le due guerre mondiali.
Leggendo le pagine di “Genesi e struttura della società”, l’ultima opera di Giovanni Gentile, pubblicata postuma nel 1947, non posso fare a meno di fermare la mia attenzione su ” La Società Trascendentale, la Morte e l’Immortalità”, che mi ha permesso di coniare la frase, che mi ha sempre aiutato a vivere a scrivere e ad insegnare: E l’uomo supera la morte nell’immortalità del pensiero che pensa; e pensando e scrivendo è creatore di opere: muore l’uomo (mortale), rimangono le sue opere (immortali).
Il tempo degli assassini ebbe facile gioco sul settantenne filosofo di Castelvetrano, che si muoveva senza scorta, arditamente, guidato dalla forza e dalla coerenza delle sue idee (“Per quest’Italia, se occorre, vogliamo morire”), che non conobbero né il sofisma dei prudenti, né il trarsi indietro, né il cambiar casacca nell’ora più difficile della sua vita: l’Ora della prova.
Ed io ricorderò ancora – come fosse oggi, come sarà sempre – il fortissimo turbamento determinato dalla parola del professore Domenico D’Orsi, nella vasta e commossa platea di noi studenti, in quel lontano novembre del 1967. Parola a cui non affianco nessun aggettivo per cercare di qualificarla meglio, perché qualsiasi aggettivo ne sminuirebbe la carica e il pathos.
“Il 10 gennaio 2000 Achille Totaro, che all’epoca era consigliere comunale di Alleanza Nazionale a Firenze, durante una seduta del consiglio comunale, commentando l’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta nel 1944, dichiarò: – Bruno Fanciullacci fu un assassino. Ha ammazzato un filosofo di 70 anni. Gentile venne colpito mentre era indifeso. Non fu un’azione di guerra, ma l’opera di un vigliacco. Un assassino vigliacco -. L’ANPI e la sorella di Fanciullacci denunciarono Totaro per diffamazione e gli altri consiglieri comunali che avevano firmato un appello di sostegno.
Tutti gli imputati furono processati ed assolti nel 2007. Infatti, secondo il giudice Giacomo Rocchi, le opinioni espresse da Totaro ” sono sì aspre, ma adeguate alla gravità del fatto”. L’accusa decise di appellarsi e nel nuovo processo gli imputati furono condannati al risarcimento morale dei danni e a pagare le spese processuali, mentre l’accusa di diffamazione fu considerata ormai prescritta. Anche se la condanna fu completamente simbolica, essendo i danni morali quantificati nella somma di un solo euro, Totaro e gli altri coimputati ricorsero ugualmente in Cassazione venendo quindi assolti nel 2010, ” perché il fatto non costituisce reato” (Wikipedia, l’Enciclopedia Libera, Bruno Fanciullacci, pag.2).
E questo a me basta per concludere che il tempo degli assassini si ritorce (si ritorcerà sempre) sullo stesso assassino e sul mandante o sui mandanti di quel crimine efferato, che il Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana nel 1944 disapprovò con la sola esclusione del Partito Comunista Italiano.

Antonio Cammarana

Il signor “Capizzo”

Il signor Capizzo
Ero fermo davanti alla porta della sala da barba di zio Giovanni, in una giornata di tiepido sole primaverile del 1960, al numero 119 di Corso Indipendenza, e sgranocchiavo una melagrana dai chicchi rosso amaranto, allorché dalla via Gracchi spuntò un uomo alto e robusto, che calzava un paio di stivali di cuoio, indossando giacca e pantaloni di fustagno. Quando mi arrivò vicino, con i suoi capelli e baffi biondo oro rossiccio, mi parve davvero un vichingo o uomo del Nord uscito dalle brume e dai fiordi della Norvegia.
Rivolgendosi a me zio Giovanni disse:
-“Puntuale come sempre, il signor Capizzo”-.
-“Capizzi”- precisò quello che ritenevo un vichingo.
-“Capizzi”- ripetei io allo zio.
-“Capizzo”- ribatté lui.
Il vichingo sedette nel seggiolone di legno, facendo sgonfiare il cuscino sotto le sue natiche, mentre da lui zio attendeva “comandi”, che non si fecero attendere: shampoo, capelli e barba.
Zio riscaldò l’acqua, sciacquò e asciugò la folta capigliatura del vichingo, continuò con il taglio dei capelli e terminò con la rasatura della barba, mentre agitava – per farne cadere a terra i peli, di cui era piena a macchia di leopardo – l’ampia tovaglia tolta dal collo del cliente:
-“Servito signor Capizzo”.
-“Capizzi”- precisò l’uomo.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse zio, prendendo in mano le monete per il servizio
prestato.
Il signore, un pò meno vichingo e un pò più cristiano dopo il lavoro dello zio, uscì dalla sala da barba, mentre zio Giovanni – facendo saltare le monete ricevute- diceva:
-“Sempre generoso il signor Capizzo”-.
-“Capizzi”- osservai io.
-“Capizzo”- ripeté zio con un tono di voce, che non ammetteva repliche.
Poi, mettendomi in mano due monete da cento lire, ordinò:
-“Vai a prendermi un pacchetto di nazionali”-.
A passi svelti mi diressi verso il tabaccaio, ma, arrivato all’angolo di Corso Indipendenza con via XX Settembre, mi accorsi che il signore di prima entrava al bar Roma, gli sentii chiedere alla signora Delizia un tubetto di monete da cinquanta lire, lo vidi avvicinarsi alla grande vasca rettangolare di cristallo con il fondo pieno di pacchetti di sigarette estere ( Salem, Chesterfield, North Pole, Pall Mall, Camel, Marlboro, un mare di pacchetti di sigarette estere).
Quando gli arrivai vicino, il vichingo cominciò a inserire le monete da
cinquanta lire in una fessura della grande vasca, premendo poi un bottone che faceva andare prima in avanti, in seguito a destra una mano d’acciaio meccanica che catturava o soltanto accarezzava i pacchetti di sigarette.
Dieci minuti dopo, con un pacchetto di Pall Mall in una mano e uno di Chesterfield nell’altra, sorridendo compiaciuto sotto i baffi di uomo del Nord, il vichingo tornò alla cassa e cambiò il pacchetto di Pall Mall con denaro contante, tenendo le Chesterfield.
-“Ecco nove monete da cinquanta lire, signor Capizzo”- disse la signora Delizia.
-“Capizzi”- osservò lui.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse la padrona del bar.
Poi rivolgendosi a me:
-“Tu che cosa vuoi ?”-.
-” Un bicchiere d’acqua”-.
-“Alla fontanella !”- gridò lei, indispettita.
Io andai a comprare le nazionali per lo zio, sigarette senza filtro molto plebee in verità rispetto a quelle che avevo visto prima al bar Roma e feci ritorno nella sala da barba. Qui vidi il signore conosciuto in precedenza offrire una Chesterfield allo zio, che l’accarezzò e l’annusò parecchie volte prima di accenderla e aspirarla, alla fine dicendomi:
-“Che grand’uomo il signor Capizzo !”-.
-“Capizzi”- precisò il signore.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse zio.
E, mentre quel vichingo tanto generoso si allontanava sorridendo e scuotendo la testa, io pensavo:
-“Capizzo o Capizzi ? Capizzi o Capizzo? Oppure Capizzo dei Capizzi
come Albrizzo degli Albrizzi – marchese fiorentino del tempo di Dante; o Rubizzo dei Rubizzi – conte senese del tempo del Petrarca? Che sotto il Capizzo o il Capizzi si nasconda un nobiluomo venuto al seguito del normanno Ruggero d’Altavilla e da questi del titolo di barone di Capizzi, per nobili gesta contro i Saraceni di Sicilia, insignito? Per non parlare del portamento così aristocratico, del pelame oro rossiccio proprio della gente del Nord, che tolse la Sicilia agli Arabi “-. Deve andare così ! Che Capizzo sia Capizzi per i notabili del paese, Capizzi sia Capizzo per la gente del popolo.

Antonio Cammarana

Una pagina di storia: la nascita del sindacato nazionale fascista dei “Massari”

Avvocato Bellomo
Il 24 maggio del 1925, nella sede di via XX Settembre, in seduta straordinaria e in seconda convocazione alle ore 20 ( la prima convocazione ore 18), si riunisce l’Assemblea dei Soci del Circolo della Borghesia per trattare, come ordine del giorno,” la costituzione in sindacato fascista” del Sodalizio. Relatore è l’avvocato Vincenzo Bellomo, Direttore del Circolo, il cui discorso si snoda in due parti.
Nella prima non mancano periodi paludati da una retorica declamatoria, enfatica e patriottarda, nella seconda la retorica cede sensibilmente terreno ad una più realistica presentazione degli accadimenti storici, politici e sindacali relativi agli anni che vanno dal 1919 al 1925. Nella prima parte l’avvocato Bellomo dichiara che è “grande ventura”, per lui, Direttore del Circolo della Borghesia di Biscari, “raccogliere ancora una volta”, nella “fausta ricorrenza del decimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia (la Prima Guerra Mondiale)”, il “giuramento incorruttibile di fede e di devozione agli uomini preposti alla tutela dei sacri diritti della Patria”; precisa che il 24 Maggio del 1915 “la giovinezza italica”, per correre a combattere “contro le tirannidi imperiali in difesa dei popoli oppressi”, non esitò un istante ad abbandonare “le scuole, le officine, i campi”; evidenzia che “il millenovecentodiciannove” fu “una pagina nera sinistra della storia politica italiana”, perché trionfò “la demagogia mostruosa”, che ubriacò “le masse dei lavoratori italiani, mettendoli gli uni contro gli altri allo scopo di realizzare, in Italia, quello che i soviet avevano fatto in Russia: il trionfo del comunismo”; mette l’accento sul ruolo di Benito Mussolini, che, “in una Piazza di Milano, aveva sparato il primo colpo contro il mostro bolscevico, togliendo gli Italiani dall’abisso in cui stavano precipitando e ricevendo da essi il giuramento di fedeltà”.
Nella seconda parte l’avvocato Bellomo spiega che “l’Istituto parlamentare italiano, nel lontano passato, ebbe innegabilmente una funzione di altissimo prestigio, ma in seguito si ridusse – prima dell’avvento fascista – in una decorativa palestra di vana eloquenza e in un indecente locale di disonorati turpiloqui e di più umilianti pugilati!”.
La rivoluzione fascista non fece solo giustizia di tutto ciò, ma cominciò a realizzare la riforma della burocrazia, della pubblica istruzione, dell’esercito, della marina, della milizia, la sicurezza all’interno e all’estero, i trattati di commercio, la valorizzazione di Vittorio Veneto.
“Ma la più bella, la più importante manifestazione del fenomeno fascista fu, senza dubbio, il grande movimento sindacale, che trionfalmente compie il suo inevitabile destino”.
Capitale e lavoro – come afferma Edmondo Rossoni – non sono “due termini irriducibilmente contrastanti e antitetici, ma due fattori concomitanti connessi ed omogenei; essi percorrono la stessa strada, vogliono lo stesso obiettivo: l’aumento, cioè, della produzione”. Non solo.
“Alla implacabile lotta di classe il fascismo redentore oppose la collaborazione delle classi”, quella che viene chiamata “la pace feconda tra il lavoratore e il datore di lavoro”.
Cessino, dunque, “gli odi di parte, le passioni morbose che ci immiseriscono e ci disonorano, si ravvedano i tristi e i traviati, e la parola di pace e di amore del nostro Duce avvinca tutto il popolo italiano in un indissolubile abbraccio fecondo di prosperità e di benessere, sentendo, come nelle gloriose giornate di Vittorio Veneto, l’orgoglio di essere italiani, veramente italiani!”.
Così sono descritti, nel verbale della seduta, i momenti che seguono la conclusione dell’avvocato Vincenzo Bellomo:
“Un frenetico lungo applauso accoglie il discorso del Direttore, avvocato Bellomo, e l’Assemblea, ad unanimità e per acclamazione, vota l’oggetto segnato all’ordine del giorno. In seguito a tale votazione il Circolo degli Agricoltori di Biscari (già Borghesia) si costituisce in Sindacato Nazionale Fascista dei Massari e affida allo stesso Direttore Avvocato Bellomo l’incarico di procedere, visti gli atti e le formalità inerenti, al Riconoscimento Ufficiale da parte delle Autorità Gerarchiche Sindacali, nonché al tesseramento obbligatorio per tutti i soci, ai quali si assegna un periodo di tempo massimo di giorni 25 per provvedere alla iscrizione e alla tassazione personale”.
Correttezza storica impone i seguenti rilievi:
– il verbale della seduta, a me non esperto calligrafo, pare che sia stato scritto per intero dallo stesso Direttore del Circolo della Borghesia, che aveva fatto la relazione;
– nel verbale non si fa riferimento alla convocazione dei soci mediante lettera, né all’esposizione della bandiera alla porta;
– nel verbale c’è la firma del Segretario Catania Giuseppe di Biagio e del Direttore Avvocato Vincenzo Bellomo, ma non del Presidente Guardabasso Gaetano fu Vincenzo;
– quelli della mia generazione ricordano questa comunità di uomini – che il lavoro dei campi, nel corso dei decenni, ha logorato o ha irrobustito, ma in ogni caso ha affratellato – non con la denominazione di Circolo della Borghesia o Circolo Agricolo, ma con il nome di ” Società dei Massari”, con l’accezione del termine “massaro”, intendendo non solo il piccolo o medio proprietario terriero, ma anche il gabellotto o mezzadro. In ogni caso il lavoratore di terre sue o di terre sulle quali ha dovere di lavoro e diritto di guadagno, non essendo né il semplice contadino o il semplice bracciante, che, faticando in una campagna non sua riceve una paga settimanale o giornaliera;
– non esistono documenti validi successivi, che possano illuminare la vita del Sodalizio a partire dal 1927 fino al 1942, per cui questo quindicennio di storia dell’Associazione rimane in ombra. A meno che lumi non vengano dai registri delle Amministrazioni Comunali di Acate o da altro materiale in possesso di Enti o di privati cittadini;
– la nascita del Sindacato Nazionale Fascista dei Massari a Biscari, come in tanti altri centri, fu possibile perché, in campo nazionale, Benito Mussolini poté superare indenne tutte le conseguenze politiche e morali del delitto del deputato socialista Giacomo Matteotti, grazie al coraggio e all’appoggio di Roberto Farinacci, che rappresentò il volto autentico del fascismo rivoluzionario, quello che non si venderà al Grande Capitale, né verrà a patti con la Monarchia dei Savoia. All’epoca della crisi del 1924 Benito Mussolini se ne stava “all’interno del Palazzo” intontito e paralizzato dagli avvenimenti, non sapendo quali pesci pigliare e rischiando la distruzione di sette anni di dura lotta contro il socialcomunismo, nonché la perdita stessa del potere. Il Duce fu salvato dal colpo di mano “dei trentatré consoli della Milizia, che il giorno dell’ultimo dell’anno 1924 – armi in pugno – fecero irruzione nel suo studio di Capo del Governo per obbligarlo a rompere gli indugi e a riprendere, con decisione, l’iniziativa politica”, che rischiava di sfuggire al suo controllo. Tale pronunciamento delle “camicie nere della prima ora” svegliò Mussolini dal torpore e dall’inazione in cui era caduto, facendogli preparare il discorso tenuto alla Camera dei Deputati il 3 gennaio del 1925 con il quale giustificò le azioni squadristiche e se ne assunse la responsabilità: “Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto in Italia”.
Secondo me, questo è il momento – l’ultimo momento, prima che gli ideali politici e sociali del fascismo venissero traditi – del fascismo rivoluzionario, che aveva il suo leader riconosciuto e incontrastato in Roberto Farinacci, da cui il Sindacalismo Fascista ricevette la massima spinta per piegare, prima del compromesso o, il che è lo stesso, della sconfitta, il Grande Capitale alle esigenze sociali del Sindacalismo Corporativo con il suo teorico di punta Edmondo Rossoni.

Antonio Cammarana

Il nano

nano
Sono alto due spanne: non un centimetro di più, non uno di meno. Io sono il nano.
Le mie gambe sono corte come pure le mie braccia, esiguo ho il torace, insignificante il collo, piccola la testa, i miei piedi non superano quelli di un bambino.
Io sono il nano.
Ma rugosa è la mia faccia, tumide sono le mie labbra, ho larghe orecchie e grandi occhi.
Io sono il nano.
Come nature diverse dalla mia io guardo gli uomini, le donne, i ragazzi, considerandomi essi un errore divino tenace nei secoli e non meno perverso di un campo di sterminio.
Io sono il nano.
Asprezze e solitudini ha avuto sempre la mia vita. Imperatori e re, principi e duchi, conti baroni e marchesi, mi hanno fatto buffone di corte; la letteratura mi ha dileggiato come fenomeno da circo; la scienza mi ha esibito come meraviglia mostruosa o ingannevole referto.
Mentre il buffone è stato un “full” di comicità, io sono stato un “minus” da baraccone. E già Omero, nell’Iliade e nell’Odissea, aveva fatto di me un simbolo della doppiezza e della menzogna con la figura di Ulisse: guerriero di bassa statura, che arriva appena alla spalla di Agamennone e a quella di Menelao; per nulla gagliardo come Aiace, né forte come Achille; ma dotato soltanto di una astuzia così grande che nessuno è più furbo di lui nell’ingannare la gente. Nemmeno Alberico, il re dei nani vinto dall’eroe Sigfrido, nel poema nazionale germanico “La Leggenda dei Nibelunghi”.
Io sono il nano.
Quando venni al mondo i miei genitori dichiararono: -“Questo figlio, che abbiamo generato, è un protocollo del nulla”- .
Io sono il nano.
In seguito alla morte di mio padre sono cresciuto di una spanna.
Dopo il decesso di mia madre ho raggiunto l’altezza di ottanta centimetri.
Ma io resto il nano, perché credo di essere stato generato da un destino di pochezza fisica.
I miei fratelli ripetono che io crescerò di una spanna ogni volta che uno di loro passerà a miglior vita. E con queste parole mi feriscono in tutte le ore del giorno. Perché essi sono alti e robusti tanto da credere di campare cent’anni.
Io ho dieci fratelli.
Io sono il nano, ma voglio crescere.
Mi sono messo al lavoro per punire la cattiveria dei fratelli, per distruggere la diceria dell’errore divino e la nomea di figlio di un destino di pochezza fisica, per fare del protocollo del nulla che sono un protocollo dell’essere.
Io, il nano, che vuole crescere.
Io metto, in ogni pasto di mezzogiorno dei miei fratelli, un milligrammo di veleno per topi. E, quando essi saranno morti tutti, io sarò più alto di altre dieci spanne. Così eguaglierò in altezza il gigante Golia.
Io, il nano, errore divino, figlio di un destino di pochezza fisica e protocollo del nulla.

Antonio Cammarana

Il Gobbo. Racconto a due voci

Il Gobbo
Prima voce
Quadrata è la mia testa, un cerchio è il mio collo, ho il tronco a trapezio, due cilindri sono le mie gambe, due triangoli i miei piedi.
Sono davvero deforme.
Non solo.
Alto un metro appena, mi considero meno di un uomo. E mi riterrei il più sfortunato dei mortali, se madre natura non mi avesse fatto nascere con una gobba sulle spalle. Che mi fa essere più di un nano.
Vanto illustri antenati, resi immortali dalla letteratura. Un solo esempio valga per tutti: Quasimodo, il gobbo di Notre Dame de Paris: naso tetraedico, bocca a ferro di cavallo, occhiuzzo sinistro coperto da un sopracciglio rosso e cespuglioso, occhio destro nascosto dietro un’enorme verruca, denti sbrecciati come i merli di una fortezza, labbro carnoso, mento forcuto.
Ma se Quasimodo è un misto di malizia, di stupore e di tristezza, io sono un insieme di bontà, di indifferenza e di allegria. Se Quasimodo è il re dei folli, io sono il re dei saggi.
Perché: quando un uomo una donna un ragazzo vogliono toccare la mia gobba, convinti che ciò porterà loro fortuna, io li lascio fare a patto che comprino la mia frutta e la mia verdura.
Io, il gobbo, prototipo della deformità e venditore ambulante.

Seconda voce:
Io ricordo bene coloro che hanno accarezzato la gobba: uno ha perduto un dito, un altro una mano, un altro è diventato storpio, a qualcuno manca un occhio, a qualcun altro una parte del naso o delle labbra. E ognuno di loro ha la testa profondamente piegata sul petto: il loro essere spirituale e fisico è venuto meno a poco a poco, riducendosi ad icona della deformità.
Io li riconosco tutti, perché, da quando ho perduto entrambi i genitori, lui, il gobbo, mi porta sempre con sé per strade e paesi a vendere frutta e verdura con un carro a quattro ruote.

Antonio Cammarana

Il lavatoio di contrada Canale: Cammarana e Cultraro presentano il Quaderno della “Biblioteca dell’antica Biscari e della valle dell’Acate”


Lavatoio circolo conversazione acate

“Il Lavatoio di contrada Canale, luogo d’incontro e simbolo del duro lavoro quotidiano”. E’ questo il titolo del Primo Quaderno della Biblioteca dell’Antica Biscari e della Valle dell’Acate, pubblicato dal professore e storico Antonio Cammarana e dal giornalista pubblicista e studioso del territorio Salvatore Cultraro.
Il volumetto è stato presentato, nel corso di una manifestazione patrocinata dall’Amministrazione Comunale di Acate, tenutasi venerdì 27 dicembre 2013 nei locali dello storico Circolo di Conversazione di Piazza Libertà, alla presenza di un folto ed attento pubblico. “Il lavoro – frutto di una minuziosa ricerca storica a seguito del ritrovamento sia delle tavole del progetto originario del 1910, redatto dal perito agronomo di Niscemi, Rosario Cavalieri Iacono; sia della richiesta all’Autorità competente, in data 10 novembre 1910, del dottor Francesco Licitra, Ufficiale Sanitario di Biscari; sia della relazione del Regio Commissario Straordinario Gianani Giovanni, pronunciata nella seduta del nuovo consiglio comunale di Biscari in data 5 febbraio 1911 – vuole essere, come hanno spiegato gli Autori, il punto di partenza per la realizzazione di un successivo percorso storico, didattico, paesaggistico ed archeologico, che avrà il suo fulcro nella contrada Canale e nella splendida valle dell’Acate”.

Il professore Antonio Cammarana, nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza che “lo studio monografico, Il Lavatoio di contrada Canale, si presenta come documentazione d’epoca, vagliata con il rigore dell’indagine metodologica volta a penetrare, all’interno del tempo storico esaminato, il mondo umano nella sua concreta e sofferente realtà esistenziale; punto di partenza di un progetto di rivalorizzazione e di salvaguardia di quei valori paesaggistici, che rischiano di essere cancellati per sempre ed infine strumento di cultura pluridirezionale, perché, attraverso un itinerario non solo storico, ma anche di forte valenza didattica, rivolto agli studenti, ai giovani, agli appassionati di storia locale del nostro paese, consentirà il raggiungimento di obiettivi validi sul piano scolastico e l’assimilazione di conoscenze, che andando oltre l’utilizzazione immediata, costituiscono una solida base di conoscenze per il futuro”.
Il Lavatoio Comunale, quale luogo d’incontro e di duro lavoro quotidiano per le donne di Biscari, è stato il tema centrale dell’intervento dell’altro autore del volumetto, il giornalista pubblicista Salvatore Cultraro. “Non è raro vedere in quadri, stampe e fotografie dell’Ottocento e dei Primi del Novecento- ha sottolineato Cultraro- immagini di donne piegate, curve su pietre intorno a grandi vasche o a canali di acqua intente a lavare panni. Probabilmente un tributo da parte degli artisti per sottolineare che, pur nella fatica quotidiana, quelle figure erano donne prima che lavandaie. Ormai grazie all’avvento delle lavatrici, sempre più sofisticate, lo sforzo più grande che oggi si può fare è quello di caricarle e successivamente stendere ad asciugare gli indumenti. Eppure vi fu un momento in cui la costruzione di un lavatoio pubblico coperto era percepita da una comunità come una irrinunciabile conquista sociale. Le antiche lavandaie non avevano la lavatrice in casa e non avevano l’acqua corrente. Però avevano le vasche di zinco. Già pesanti da vuote, se le appoggiavano su un fianco, colme sino al bordo e partivano per il lavatoio. Un grande lavatoio comunale si trovava anche a Biscari, in contrada Canale, dove le nostre lavandaie arrivavano spesso, subito dopo il levar del sole. Costrette a lavare gomito a gomito, non mancavano ogni tanto i litigi per questioni di spazio.
Altre cantavano, pettegolavano, commentavano i vari avvenimenti paesani. Un quotidiano di tribolazioni e di miseria affrontato con realismo e coraggio che rendeva le nostre lavandaie un pò dure, animose mai vittime”.

Lavatoio circolo conversazione acate  Giovanni Pignato

Parole di elogio, per il lavoro dei due storici-ricercatori, sono state espresse dal presidente del Circolo di Conversazione, professore Giovanni Pignato, dopo aver ringraziato e salutato i numerosissimi presenti, comprese le autorità istituzionali e la stampa, per aver preso parte al decimo ed ultimo incontro culturale organizzato nel 2013 dallo storico Circolo di Conversazione. “I nostri relatori di oggi-ha sottolineato il professore Pignato- illustreranno gli usi e i costumi di un tempo lontano e di un luogo distante dal centro abitato, da raggiungere spesso a piedi, ma che era punto d’incontro per donne ed uomini, simbolo del duro lavoro quotidiano”.
“L’importanza di questo lavoro di ricerca, realizzato in un particolare momento di totale sconforto per le conseguenze della preoccupante crisi economica che ci attanaglia”, è stata evidenziata nel suo intervento, dal sindaco di Acate, Francesco Raffo. “Con questo lavoro sul Lavatoio Comunale di contrada Canale- ha dichiarato il primo cittadino, rivolgendosi agli autori del volumetto-ci state insegnando ad amare nuovamente i luoghi legati alle nostre origini, spesso intrisi di ricordi tristi di duro lavoro e di sofferenza”.

La recente riscoperta e rivalutazione di importanti monumenti del nostro passato è stata evidenziata dall’assessore alla Cultura, Luigi Denaro. “E’ dal 1950- ha dichiarato visibilmente amareggiato, il dottor Denaro- che Acate viene deturpata e derubata di tutti i suoi beni culturali ed artistici. Dagli anni Novanta fino ai nostri giorni c’è stato solo qualche intervento sul territorio, che ha riportato alla luce monumenti importanti del nostro passato per iniziativa di alcuni volenterosi tra cui il sottoscritto ed il Parroco don Rosario Di Martino”. Quindi il titolare della delega alla Cultura ha concluso auspicando che “anche il Lavatoio Comunale possa essere restaurato eventualmente con fondi o collette private”.
“Quello che più mi ha colpito di questa pregevole ricerca storico fotografica- ha invece dichiarato la scrittrice Teresa Carrubba nel suo intervento- non è solo l’impegno o l’argomento che tratta, e che la rende degna di merito, ma l’angolo visuale che la connota, soprattutto per una semplice condivisione di punti di vista. Il taglio metodologico, infatti, a me sembra motivato da ragioni etiche e storiografiche, che fanno rivivere in tutti noi sentimenti sopiti, mai dimenticati”. Quindi la scrittrice ha rievocato commoventi ricordi legati alla figura del padre Gabriele (egli stava come sospeso tra il ricordo e il rimpianto nostalgico di quelle allegre scampagnate fatte nel giardino di proprietà della famiglia, che si trovava a due passi dal lavatoio, e dove erano soliti riunirsi i fratelli Carrubba quando gli impegni di lavoro lo consentivano. I suoi ricordi mi offrivano una chiave per aprire altri ricordi: i miei, una carrellata di avvenimenti in cui mi rivedevo bambina in giro per il lavatoio che già mostrava i segni dell’abbandono), ed ai suoi contatti con il pittore Biagio Carpinteri, che nel corso della serata ha esposto al Circolo alcune delle sue recenti opere, contatti che portarono alla realizzazione del bellissimo dipinto, un olio su tela, ordinato proprio da Gabriele Carrubba, raffigurante una ricostruzione della contrada “Canale” con la presenza di alcuni membri della sua famiglia.
Dipinto che Antonio Cammarana e Salvatore Cultraro hanno voluto inserire come preziosa immagine di copertina nel loro lavoro.
A conclusione dei lavori un breve intervento della professoressa Maria Giovanna Baglieri, la quale ha ricordato le sue iniziative finalizzate al recupero e restauro del Lavatoio Pubblico all’epoca della sua esperienza amministrativa quale assessore alla Cultura nella giunta Battaglia. Quindi, prima del momento di festa conclusivo, per il tradizionale scambio di auguri di fine anno, il presidente del Circolo di Conversazione ha voluto consegnare a tutti i relatori un prestigioso attestato, in ricordo dell’Evento storico.

Redazione

“Obiettivo Biscari”. Il saggio di Anfora e Pepi presentato da Antonio Cammarana alla Società Operaia

Obiettivo Biscari
Sabato 30 novembre, nei locali dello storico sodalizio, “Società Operaia di Mutuo Soccorso ” di Acate, fondato nel 1869, ho avuto l’onore di presentare il saggio storico “Obiettivo Biscari: 9-14 luglio 1943. Dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504” di Domenico Anfora e Stefano Pepi, pubblicato dalla Casa Editrice Mursia di Milano, “che sta compiendo un lavoro egregio di analisi dei fatti realmente accaduti durante l’invasione alleata”;
segnalato e recensito da diverse testate giornalistiche da “La Sicilia” al “Giornale di Sicilia”, da “Libero” al “Giornale”, da “Il Fatto Quotidiano” a “La Repubblica” a “Rinascita”, a “Il Secolo d’Italia”, al “The Times” di Londra.
In qualità di coordinatore della serata ho evidenziato che il volume ha meriti e punti di forza: ci accompagna a rivivere i luoghi, i volti, le vicende drammatiche, gli scontri cruenti; mette in risalto che, tra la sera del 9 e la mattina del 14 luglio 1943, “si scatenò una sanguinosa battaglia nel triangolo di Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate”; ci offre una documentazione storica attendibile che – oltre alle uccisioni di prigionieri di guerra e di civili che, già conosciamo da precedenti pubblicazioni – fa luce sulla strage dei Carabinieri compiuta dagli Americani a Passo di Piazza e sulla strage di militari italiani e tedeschi compiuta sempre dagli Americani all’Aeroporto di Comiso; si fregia, inoltre, dell’autorevole Prefazione del Tenente Colonnello, Dottor Giovanni Iacono, il quale definisce il libro “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia del luglio-agosto 1943”.
Ho dato, poi, la parola al Presidente Saverio Caruso, che si è detto orgoglioso di ospitare un evento di così notevole interesse culturale.
“L’invasione del territorio di Acate da parte delle truppe americane – ha riferito – l’ho vissuta da testimone oculare, anche se all’epoca avevo circa 9 anni. Mi ricordo delle bombe sganciate nel paese e delle violente esplosioni che provocarono diversi morti e feriti, generando grande panico tra la popolazione. Sono più che convinto che il bombardamento fu effettuato per la presenza di due camion tedeschi fermi nella strada principale del paese, tra via XX Settembre e via Roma”.
A seguire l’intervento del Sindaco Franco Raffo, il quale si è complimentato con gli autori del libro per aver fornito ancora un frammento di storia e di vita della nostra cittadina nelle atrocità della guerra.
Il Tenente Colonnello Giovanni Iacono, poi, si è soffermato sugli scontri che hanno avuto luogo “nelle vicinanze del bivio di Biscari, lungo la Statale 115, in località Biazzo; e nella “mossa a tenaglia” di “due battaglioni verso Biscari, uno da Sud, cioè dalla strada che va verso la SS 115, ed un altro da Est, proveniente da Vittoria e che si trovava già attestata nella zona di Monte Calvo”, da dove “bombardava il paese credendolo presidiato dalle truppe tedesche, che in realtà si ritiravano verso Caltagirone”, dopo avere lasciato “tra le retroguardie un carro armato Tigre, che muoveva lungo Corso Indipendenza e che sparava sia verso gli Americani provenienti dalla SS 115, sia verso quelli provenienti da Vittoria. Forse a salvare Biscari dai bombardamenti americani furono alcuni coraggiosi cittadini che andarono incontro al Gen. Mc Lain, che stava comandando l’attacco, il sig. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese, il calzolaio Giovanni Gallo ed il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma. Questi, a rischio della propria vita, s’incamminarono verso la chianata a Serra, che corrisponde dove c’è la rotonda andando per Vittoria, venendo fermati dagli Americani ai quali comunicarono che dentro il paese erano rimasti solo pochissimi tedeschi e che erano in fase di ritirata. Li pregarono di smettere quindi il bombardamento del paese. Non fidandosi gli Americani li fecero salire su una Jeep e li tennero come ostaggi, mentre le compagnie si avviavano verso il centro abitato. Vi furono delle scaramucce contro gli ultimi soldati tedeschi che si erano attardati nella ritirata, ma alle venti Biscari era in mano americana”.
Tra i presenti anche il signor Cesare Pompilio, che ha rievocato, con viva commozione, con la sua testimonianza diretta di ragazzino di 9 anni, episodi di guerra che offrivano uno spettacolo allucinante, di morti orrendamente mutilati tra grida e lamenti dei sopravvissuti. Purtroppo non mancò, tra tanto disastro, chi cercò di approfittare della situazione con indegni atti di sciacallaggio, tra le rovine delle case bombardate o abbandonate, alla ricerca di denaro e di effetti personali.  Il volume, ha affermato Stefano Pepi nel suo intervento, è nato per caso, quando davanti al casale di sua proprietà, nel territorio di Vittoria, in località Casazza, vede aggirarsi Domenico Anfora attratto da alcuni particolari (presenza di varie feritoie rivolte verso la strada) e da una iscrizione su “un capitello di una delle entrate di destra sul quale vi era inciso 179° U.S.”, che gli destano curiosità.
Dopo un primo malinteso e lo scambio di reciproci chiarimenti, tra i due nasce una forte sinergia. E’ l’inizio di una grande amicizia e di una valida collaborazione tra la consolidata esperienza di serio ricercatore storico vizzinese e ” l’uomo entusiasta col fiuto dell’investigatore”. Un unico denominatore comune: la passione per la ricerca storica sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e l’amore per la verità. Da qui i motivi che hanno spinto Domenico Anfora e Stefano Pepi a cimentarsi in un “lavoro di ricerca, d’indagine, di studio sulla battaglia di Biscari, che insanguinò il territorio compreso tra Acate, Niscemi, Ponte Dirillo, Vittoria”. Una impresa entusiasmante e interessante – aggiunge Domenico Anfora nel suo intervento – che nasce “sul campo”, ispezionando luoghi, consultando archivi, interagendo con le cronache del tempo, ricercando documenti inediti, intervistando testimoni. Indimenticabile l’incontro con Riccardo Mangano, pronipote del Podestà di Acate, Giuseppe Mangano, che insieme al figlio Valerio e al fratello Tenente Medico Ernesto, fu vittima di una strage perpetrata dagli Americani a Vittoria.

Antonio Cammarana