La figura di Ipazia, la prima donna scienziato assassinata.

Ipazia

All’inizio del terzo millennio 190 Stati membri hanno chiesto all’UNESCO di “creare un progetto internazionale”, che favorisca “piani scientifici al femminile”, per realizzare “un migliore equilibrio nella partecipazione di entrambi i sessi alla scienza e al progresso”. Questo progetto internazionale è stato chiamato dall’UNESCO con il nome di IPAZIA. Ma chi era Ipazia?
Ipazia (370 – 415 d.C.) fu la prima donna scienziato barbaramente assassinata da una turba di monaci fanatici nel marzo del 415 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Per Ipazia, che da sempre rappresenta, secondo Margherita Hack, “il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza”, il prof. Antonio Cammarana ha scritto “Ipazia, fiaccola della conoscenza”.
Fonti antiche – sia di tradizione ellenica, sia di tradizione bizantina, sia di tradizione alessandrina, sia di tradizione cristiana – concordano nel dire che IPAZIA fu donna di rara bellezza, di grande saggezza, di eccezionale intelligenza; che fu astronoma, matematica, filosofa; che realizzò l’astrolabio, l’idroscopio, l’aerometro; che – come leggiamo nella voce biografica della SUDA (o SUIDA, lessico enciclopedico bizantino, secolo X) – fu autrice (anche se delle sue opere non è rimasto nulla) del Commento all’Aritmetica di Diofanto, del Commento alle Coniche di Apollonio di Perga, del Canone Astronomico; che dall’ideale classico dell’educazione acquisì autocontrollo, franchezza, imperturbabilità nell’eloquio, diventando una maestra del modo di vita ellenico (hellenike diagoge), mai in contraddizione violenta con il rispetto delle opinioni altrui, nel quadro di un equilibrato pluralismo, che risaliva alla tradizione dell’antica AGORA’ greca.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nel 370 d.C. Dal padre, il matematico Teone, che curò il Commento all’Almagesto di Claudio Tolomeo e l’edizione degli Elementi di Euclide, fu iniziata agli studi di Matematica e di Filosofia; e, ben presto, più ricco di quello di Teone, si rivelò il di lei pensiero, sul piano filosofico e sul piano scientifico, tanto da diventare la degna erede della sua dottrina e della “Scuola Alessandrina, la più importante comunità scientifica della storia, dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo e tutti i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale” (Petta, 2009).

Ipazia teneva le sue lezioni in sedute pubbliche (DEMOSIA) e insedute private (IDIA). Sedute pubbliche erano quelle legate alla sua pubblica cattedra nella rinata Scuola del “Museo”; sedute private erano quelle che Ipazia teneva nella sua abitazione, situata a non molta distanza dal Centro cittadino, ad una ristretta cerchia di alunni, che facevano parte del suo circolo esoterico – “l’elite dei suoi discepoli” – figli dei rappresentanti sia della classe dominante, sia della classe governativa della città. Oltre ad impartire lezioni pubbliche e lezioni private, Ipazia portava l’insegnamento fuori della scuola, tra la gente, per le strade della città; e indossava il TRIBON (nell’antichità il mantello filosofico tout court); che, in età protobizantina e tardoantica, non era più il mantello di ruvida cappa grezza da portarsi sulla nuda pelle, già comune ai filosofi di varie scuole e agli Spartiati della società spartana, ma una veste ufficiale, protocollare, che ricadeva fino ai piedi (Ronchey 2010).

Una scelta di vita, quella di Ipazia, definita da Luciano Canfora, nella sua “Storia della letteratura greca” (2001), una scelta maschile, di un ruolo tradizionalmente maschile, che si configura come sfida dell’establishment cristiano e radicale rottura della tradizione. Non solo. Ipazia é una donna, che rifiuta di annullarsi ed anzi si mette a fare un mestiere degli uomini (predicare alla gente) pur essendo, appunto in quanto donna, lo strumento del peccato e di perdizione che tanta letteratura patristica ravvisa nel suo sesso. Inoltre Ipazia è accusata dagli ecclesiastici di influire negativamente sul prefetto imperiale Oreste, provocando diffidenza avversione inimicizia nei confronti del vescovo Cirillo.

Cirillo, diventato vescovo di Alessandria (412 d.C.), sa già che la partita per il potere si gioca tra la comunità cristiana, la comunità pagana e la comunità ebraica. Con il pretesto di vendicare un agguato notturno contro i cristiani da parte degli ebrei, il vescovo Cirillo usa i parabolani, monaci dei monti di Nitria (ad Alessandria sono la sua milizia privata) per aizzare il popolo cristiano all’assalto e al saccheggio delle case degli ebrei, i quali, spogliati dei loro beni, sono costretti a lasciare in massa la città. Alla dura protesta mandata a Costantinopoli dal prefetto augustale Oreste, il vescovo risponde con l’assalto al corteo del prefetto, che viene colpito alla testa dal monaco Ammonio, il quale, arrestato, morirà sotto tortura, ma di cui il vescovo tesserà l’elogio funebre, chiamandolo Taumasio, cioè il mirabile, offendendo apertamente il prefetto. Quando si rende conto che l’ala più moderata degli ecclesiastici si schiera dalla parte di Oreste, il vescovo chiede udienza al prefetto, portandogli in dono il libro dei Vangeli, ma Oreste non dà alcun segno di mettere da parte il suo risentimento. Così il contrasto tra il prefetto imperiale e il vescovo continua in modo più esacerbato di prima.

In questo clima di ostilità si colloca l’orribile fine di Ipazia, di cui il mondo tardoantico ci ha lasciato due fondamentali testimonianze: quella dello storico Damascio e quella dello storico Socrate scolastico. Secondo la prima il vescovo Cirillo, esasperato “alla vista dell’enorme folla, che si accalcava davanti alla porta di Ipazia per la SALUTATIO (visita di cortesia, omaggio), tramò la sua uccisione, crimine empio tra tutti i crimini (Canfora, 2001)”. La seconda testimonianza insiste sulla causa politica del crimine, fondata sul convincimento, da parte del clero di Alessandria e del vescovo Cirillo, dell’influenza di Ipazia sul prefetto imperiale d’Egitto, Oreste, e, di conseguenza, sulla persuasione del pericolo da lei rappresentato in una città inquieta e importante come Alessandria” (Canfora, 2001).

La spedizione per eliminare Ipazia è capeggiata da un certo Pietro, lettore della Chiesa di Alessandria. Pietro il lettore e una moltitudine di monaci parabolani aspettano il rientro di Ipazia da una delle sue pubbliche apparizioni; e, quando la donna ferma la sua carrozza davanti alla sua abitazione, la tirano giù in modo violento, la trascinano prima dentro la grande chiesa, chiamata Cesareo, illuminata da centinaia di lampadari a trilumi e dalle torce accese dai
monaci; poi davanti all’altare; quindi le strappano di dosso il mantello, le squarciano la tunica bianca e ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia non viene violentata. Secondo la terminologia pagana, Ipazia è sacrificata.
Secondo la terminologia cristiana, Ipazia è martirizzata.

Se Damascio chiama gli uccisori di Ipazia hoi sphageis, i macellai, gli immolatori, Socrate scolastico e Filostorgio usano il verbo diaspao, fare a brandelli, tecnico per indicare lo smembramento rituale della vittima (Ronchey 2010).

Nella sua “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88)”, lo storico Edward Gibbon afferma che “Ipazia fu disumanamente macellata dalle mani di Pietro il lettore, che le cavò gli occhi; e da quelle di una ciurma di selvaggi e di implacabili fanatici”, che servendosi di cocci taglienti di terracotta, prima le strapparono la pelle e la carne dalle ossa, poi la eviscerarono e la smembrarono, infine bruciarono ciò che rimaneva del suo corpo nel Cinerone della città di Alessandria.

La morte di Ipazia, nel V secolo dopo Cristo, non costituisce la fine di un’epoca, ma come avevano intuito sia Denis Diderot, sia Reneé Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia diventa una fiaccola della conoscenza, la cui luce illuminerà il cammino delle idee di altre donne, di altri uomini; fiaccola che arriverà all’Umanesimo con la centralità della “dignitas hominis” nel mondo; all’Illuminismo con la centralità della “ragione” come guida critica del pensiero e dell’azione dell’uomo; a tutte le altre correnti di opinione, che hanno fatto di Ipazia, come dice Margherita Hack, il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, un’icona della libertà di pensiero.

Antonio Cammarana

Ipazia, fiaccola della conoscenza
All’umanità: In ogni tempo, presso ogni luogo,
il male, anche se orribile, è preferibile subirlo, piuttosto che farlo.

A.C.

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