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Natale 1914: lo spontaneo sentimento di pace sui campi di battaglia della prima guerra mondiale

Natale 1914

Alla data del 25 dicembre 1914, dallo scoppio della Prima guerra mondiale erano trascorsi 151 giorni. Il conflitto, che tutti gli Stati europei belligeranti vevano creduto di potere condurre e risolvere in modo rapido e travolgente, si era trasformato da guerra di movimento in guerra di posizione e aveva già fatto milioni di morti di feriti e di mutilati.
Da una trincea all’altra si sperava nella fine della guerra o almeno in una tregua. E quando, sul fronte occidentale, ai soldati dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia) e degli Imperi Centrali (Germania e Austria- Ungheria) fu chiaro che non ci sarebbero state nè l’una nè l’altra accadde quello che gli alti comandi delle due coalizioni in guerra mai avrebbero ritenuto possibile: spontaneamente soldati inglesi e tedeschi uscirono dalle trincee e cominciarono a camminare nella terra di nessuno, terra che odorava ancora di brandelli di carne umana in putrefazione e di polvere da sparo, ma nell’aria non si sentirono risuonare né colpi di fucile né raffiche di mitragliatrice.
Quelli che fino a un momento prima si consideravano nemici irriducibili da uccidere si trovarono faccia a faccia lungo i cinquanta cento duecento metri che separavano una trincea dall’altra. E un incontenibile desiderio di umana fratellanza universale spinse il soldato tedesco e il soldato inglese a stringersi la mano e a scambiarsi gli auguri di Buon Natale in un’atmosfera che niente pareva avere di reale e di concreto. Ma chi erano quegli uomini che da oltre cinque mesi sentivano quotidianamente il rombo del cannone, le raffiche delle mitragliatrici, il fischio delle pallottole di fucili, o vedevano i corpi dei compagni disintegrati dalle granate o trafitti dalle baionette, se non uomini comuni strappati al calore all’affetto e all’amore dei familiari e al lavoro quotidiano, uomini che facevano i contadini gli artigiani gli impiegati i professionisti e che erano stati scaraventati da un giorno all’altro nella fornace incandescente di una guerra che non avevano voluto, una guerra che oggi li faceva eroi, domani li faceva vigliacchi, oggi li alienava, domani li mutilava o li uccideva.
Mentre gli uomini di governo e degli alti comandi militari, che la guerra avevano voluto e scatenato e che li mandavano a morire per la conquista di poche decine di metri di terreno, che sarebbero state perdute alcune ore o alcuni giorni dopo, trascorrevano il tempo lontani dalle trincee e dai campi di battaglia tra discorsi oziosi e manovre politiche idiote o inconcludenti, pranzi, baciamano, musiche e balli con signore dell’aristocrazia o della ricca borghesia industriale bancaria e imprenditoriale, bicchieri di champagne e di cognac, salutati dall’immancabile “prosit” alla faccia dell’umile fante, che schiacciava pulci e pidocchi all’interno del pantano della trincea o cadeva colpito da un cecchino quando meno se lo aspettava o nel corso di un attacco o di un contrattacco.
Come scrive Martin Gilbert, uno dei più autorevoli storici della Prima e della Seconda guerra mondiale, tutto cominciò la sera della vigilia di Natale e proseguì nel corso della giornata del Santo Natale.
“Quel Natale, pressochè ovunque nella terra di nessuno, in prossimità delle linee inglesi e in alcuni settori delle linee francesci e belghe, i soldati fraternizzarono con i tedeschi. A dare il via erano sempre questi ultimi, o con un messaggio o con un canto. Nei pressi di Ploegsteert un ufficiale britannico, il capitano R.J. Armes, che parlava tedesco, dopo avere ascoltato con i suoi uomini un soldato nemico cantare una serenata, lo invitò a continuare e il tedesco intonò “I due granatieri di Schumann”.
Allora da entrambe le linee gli uomini uscirono dalle trincee e si incontrarono nella terra di nessuno”. Per tutta la giornata del 25 Dicembre 1914, in diversi punti del fronte, il nemico strinse la mano al nemico augurando Buon Natale, scambiando sigari e tavolette di cioccolato, stellette e distintivi, bottoni delle divise militari, bicchierini di whisky, facendo provviste di paglia e di legna da ardere, seppellendo i morti che si trovavano tra le opposte trincee, mentre ora cappellani inglesi ora cappellai tedeschi leggevano le preghiere e ci si irrigidiva sull’attenti quando i miseri resti dei corpi dei militari inglesi francesci belgi e tedeschi venivano calati all’interno delle fosse scavate in quel giorno santo.
Per un giorno, un solo giorno, per tutta la durata della Prima guerra mondiale, quella che cominciò ad essere la terra di nessuno fu la terra di tutti e il silenzio non fu il silenzio di piombo che precedeva un attacco o un contrattacco, ma il silenzio del giorno della nascita del Salvatore, rotto soltanto dalle voci ritornate amiche di uomini che da un giorno all’altro erano diventati nemici per volontà di sovrani ministri diplomatici e plenipotenziari.
Quando gli alti comandi dell’Intesa e degli Imperi Centrali furono informati che i soldati fraternizzavano diedero ordine agli ufficiali di fare rientrare, come pecore negli ovili, le truppe nelle rispettive trincee, convalidando la tesi che l’odio tra le genti d’Europa lo alimentavano coloro che la guerra non la facevano e se ne stavano lontani dal fronte, ormai diventato un immenso formicaio sia sotterraneo che alla luce del sole.
Già nella giornata di Santo Stefano, il 26 Dicembre 1914, i combattimenti riprendevano sotterrando, nella terra di nessuno, quello slancio spontaneo di fratellanza, che aveva visto il nemico stringere la mano al nemico, camminandogli accanto anche per pochi metri, respirare un’aria non infettata dalla polvere da sparo, dai gas e dall’odio che avrebbe portato lentamente alla rovina i popoli dell’Europa nel volgere dei successivi quattro anni di guerra.

Antonio Cammarana

Il tempo e la memoria: mappe e documenti sulla presenza dei tedeschi ad Acate nel 1943

Il tempo e la memoria Cammarana
Il territorio di Acate – Antica Biscari è un grande quaderno che fornisce sempre ulteriori appunti allo storico per una nuova e più dettagliata ricostruzione di fatti episodi avvenimenti del biennio 1943/1945.
Su questa strada difficile e impervia, ma senza dubbio affascinante, come ogni ambito di ricerca che richieda abnegazione ed impegno costante, si sono posti nel tempo diversi ricercatori.
Tra costoro Ignazio Albani, Domenico Anfora, Andrea Augello, Fabrizio Carloni, Gianfranco Ciriacono, Salvatore Cultraro, Emanuele Ferrera, Gaetano Masaracchio, Piero Occhipinti, Stefano Pepi, lo Scrivente.
Stefano Pepi, tenace ricercatore di materiale storico, è venuto ultimamente in possesso di una cartina dell’istituto Geografico Militare, riferentesi ad una parte del territorio compreso tra Acate e Vittoria, Comiso e Caltagirone, che ha attirato subito la mia attenzione e per la quale abbiamo chiesto la consulenza dell’ingegnere Fedele Ferlante.
Nella mappa, che ritengo molto particolareggiata, perché si possono
leggere gli appezzamenti di terreno, le strade comunali provinciali statali, le case rurali cadenti e in buone condizioni, le trazzere regie e
repubblicane, è messo in rilievo, in prossimità dello stradale Acate-Vittoria, un dettaglio che ha richiamato alla memoria un cruento episodio di guerra, di cui mi ero occupato quest’anno e che è stato attenzionato a livello mondiale, che ha attirato parecchi ricercatori e che ha come titolo “Quel caseggiato rurale di contrada Casazza testimone della storia che abbiamo visto con i nostri occhi”.

Hauptman Paulus
Oltre alla mappa, Stefano Pepi è entrato in possesso di un altro documento di notevole rilevanza e validità storica riguardante il Battaglione di Ricognizione della Panzer Division Hermann Goering (Aufklarungs-Abteilung 1 Hermann Goering) agli ordini del Capitano Hauptmann Paulus, dislocato a Caltagirone presso il Comando di Divisione e che, nei giorni precedenti il 10 luglio 1943, si trovava tra Acate e Vittoria con campo nelle contrade Baucino e Casazza.
Si tratta, forse, della formazione militare tedesca che, nella notte tra il 9 e il 10 luglio, ingaggiò un duro scontro a fuoco con i paracadutisti americani, il cui aereo C47 Dakota, colpito da “Fire Friend” (Fuoco Amico) precipitò in prossimità del caseggiato rurale di contrada Casazza a ridosso dello stradale Acate-Vittoria?
Il documento trovato da Stefano Pepi lo fa supporre, perché in contrada Casazza non c’erano altri militari tedeschi oltre quelli del Comandante Hauptmann Paulus, che alcuni giorni prima dello sbarco Anglo-Americano avevano pattugliato il territorio compreso tra Acate-Vittoria. L’essere in possesso della cartina dell’Istituto Geografico Militare e del documento relativo alla presenza del Battaglione di Ricognizione della Panzer Division Hermann Goering (Aufklarungs-Abteilung 1 Hermann Goering) e del capitello 504HG>179 U.S. situato all’interno del caseggiato rurale di contrada Casazza induce Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e me a recarci ancora una volta sul posto e a visitare il Pilone o Edicola Votiva eretto a San Patrizio a memoria dei caduti americani.
Il caldo è opprimente non essendoci alito alcuno di vento, è un caldo afoso umido appiccicaticcio che incolla i pur leggeri indumenti al nostro corpo. La vegetazione è molto diversa da come la lasciammo-verde e vegeta, anche se spontanea e selvaggia – quest’inverno. L’erba è alta e secca e di colore giallo oro, punte di spighe di falso grano s’infilano nei nostri calzini, provocando fastidiose anche se inoffensive punture. Eppure Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e io camminiamo ancora in questo luogo, calpestando fantasmi di orme di scarponi militari tedeschi e americani, che, oltre settant’anni addietro, aderirono pesantemente al terreno, mentre verdi lucertole si rosolano al sole indifferenti della nostra presenza, interminabili fila di laboriose formiche con granelli in bocca spariscono in piccolissimi concavi avvallamenti per riapparire più avanti su lievi rialzi del terreno e il nero coleottero stercorario – quasi facendosi beffe di noi – lascia una sottile riga e una minuscola pallottola di cacca tra l’erba secca e la terra riarsa.
Le acque della spiaggia di Macconi, che già intravedemmo quest’inverno e visibili come nel lontano 1943, mandano sempre un continuo stupefacente scintillìo; Monte Calvo ci osserva senza farci arrivare granate americane di Cannoni e di Carri Armati; l’Etna ha la cima questa volta sgombra di neve; la Chiesa della Matrice di Acate continua come da sempre, a fare le corna al visitatore e all’osservatore inducendolo a un bonario sorriso; l’aeroporto di Comiso, risorto a nuova vita ha il nome di Pio La Torre, ritenuto dai politici non solo moderno democratico progressista, ma anche più aderente e consono alla realtà della Sicilia del 2000, lasciando nell’oblio quello del Generale Vincenzo Magliocco della Brigata Aerea della Regia Aeronautica.

Mappa Acate contrada Cassazza
Ma a noi, che siamo ritornati in questo luogo con il semplice desiderio di visitarlo una volta ancora, ci avvince e ci avvinghia sempre più il silenzio, un silenzio metafisico che lo circonda e lo avvolge, proprio di una terra che sembra avere fatto dell’assenza di ogni rumore il proprio emblema, molto simile in questo ai cimiteri di campagna della vecchia Inghilterra. Come non ricordare “Elegy written in a Country Churchyard ” (Elegia scritta in un cimitero di campagna) del preromantico Thomas Gray? Il tempo logora la memoria nei confronti dei militari morti in guerra, mentre l’alterna fortuna delle idee politiche induce spesso gli uomini a oltraggiarne o a dimenticarne le tombe e i nomi. Ma, di fronte a questo Pilone o Edicola Votiva a San Patrizio, noi sentiamo il dovere civile e il bisogno umano di inchinarci ancora una volta, così come ci inchiniamo di fronte ai nostri morti italiani e ai morti dei nostri alleati tedeschi del secondo conflitto mondiale. Senza per questo condannare coloro che, per opposte ragioni e forti di una libera scelta ideologica, dissero si al Comitato di Liberazione Nazionale o alla Repubblica Sociale Italiana e che combatterono e morirono per le idee in cui credevano allo scopo di risollevare il nome dell’Italia dall’abisso in cui era caduto.
Dopo il tradimento del re?
Non tocca a noi stabilire se quello del re fu un tradimento o un atto
necessario, ma allo storico, quando diversi lustri saranno trascorsi dal già lontano 8 settembre 1943, e lo storico vaglierà il fatto dopo averlo sfrondato dalle passioni politiche che spingono ad esacerbate valutazioni e a verità, spesso assurde.
Visibilmente commossi, lasciamo sia l’Edicola votiva sia il caseggiato rurale, raggiungiamo lo stradale Acate-Vittoria proprio in un momento in cui il nostro animo non è turbato dal passaggio di macchine o da altri rumori. E passo dopo passo ci facciamo assorbire dalla vita quotidiana della comunità del mondo nuovo nato dalla seconda guerra mondiale.

Antonio Cammarana

Prima Guerra Mondiale. Perchè fu ucciso Francesco Ferdinando?

Corriere Sera Arciduca Sarajevo
L’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe e designato erede al trono d’Austria-Ungheria, in occasione della sua visita a Sarajevo, in Bosnia, il 28 giugno 1914, venne assassinato da un giovane studente serbo, Gavrilo Princip, che faceva parte di un “gruppo di fuoco” – in tutto sette attentatori, armati di rivoltelle e di bombe a mano – affiliato all’Associazione “Giovane Bosnia”, che poteva contare sull’appoggio di ufficiali serbi.
Perché questo assassinio, in cui perdette la vita pure la moglie dell’arciduca d’Austria-Ungheria?
A cento anni di distanza dallo scoppio della “Grande Guerra” o Prima Guerra Mondiale lo storico scrive sia sulla scorta di una valida e solida documentazione, sia per una oggettiva esposizione dei fatti in cui le parole hanno anche la funzione di scrostare contenuti da calcinacci di comodo legati a tempi e ideologie ormai obsoleti.
Francesco Ferdinando era ritenuto un elemento pericoloso sia all’interno della compagine dell’impero austro-ungarico, sia all’esterno di essa. Perché era il “sostenitore convinto del sistema trialistico, secondo il quale si sarebbero dovuti associare gli Slavi agli Austriaci e agli Ungheresi nel governo dell’Impero”(Morghen).
Nel sistema trialistico, portato avanti da Francesco Ferdinando, la Croazia, la Dalmazia, la Slavonia e la Bosnia avrebbero dovuto essere riunite come Terzo Stato(slavo) autonomo e alla pari(cioè equiparato costituzionalmente) con l’Austria e l’Ungheria, sotto la corona degli Asburgo, che sarebbe venuta così a fondarsi su tre gruppi etnici(Tedeschi, Magiari, Slavi).
Ricevendo, in questo modo, la stessa dignità e la stessa rappresentanza, gli stessi diritti e gli stessi doveri, degli Austriaci e degli Ungheresi, tutte le nazionalità presenti all’interno dei confini dell’Impero avrebbero contribuito a cementare e a rendere unitaria e indissolubile quella che si sarebbe presentata come una compagine federale(e supernazionale) sul modello degli Stati Uniti d’America, piuttosto che creare motivi di divisione di tensione e di dissoluzione.
A questo grande progetto di riforma del sistema vigente portato avanti dall’erede al trono si opponevano:
– l’ottantenne imperatore Francesco Giuseppe, che, nella seconda metà del milleottocento, inasprì sempre più le forme di governo autoritario e si rese sordo e cieco di fronte alle richieste paritarie dei sudditi di nazionalità non austriaca e non ungherese;
– la burocrazia imperiale, l’aristocrazia, il clero e l’esercito, che appoggiavano l’antico privilegio dell’imperatore austro-ungarico di emanare leggi durante le vacanze del Parlamento; e che concordavano per soluzioni che reprimessero, con la forza delle armi, ogni movimento di autonomia o d’indipendenza delle nazionalità slava e italiana all’interno dell’Impero;
– le Associazioni Nazionalistiche Serbe(che propugnavano la formazione di una “Grande Serbia”), le quali temevano che i Serbi i Croati gli Sloveni i Dalmati dell’Impero Austriaco, una volta accontentati nelle loro aspirazioni dalla riforma portata avanti da Francesco Ferdinando, non sentissero più la necessità di staccarsi dall’Impero austro-ungarico e di riunirsi in un unico regno balcanico di razza slava;
– l’Impero russo degli zar, che aveva stretto un patto di alleanza con la Serbia, la quale rappresentava la “Longa Manus” delle antiche aspirazioni che aveva dovuto subire, senza essere in grado di reagire militarmente, due colpi di mano da parte dell’Impero austro-ungarico: il primo, nel 1878,
al tempo del congresso di Berlino, quando gli Austriaci avevano occupato militarmente la Bosnia-Erzegovina; il secondo, nel 1908, quando gli Austriaci avevano trasformato questa occupazione militare in annessione di fatto del territorio occupato.
Quando l’Austria-Ungheria, il 23 luglio del 1914, inviò l’ultimatum alla Serbia con l’obbligo di risposta entro quarantottore, il Presidente della Repubblica Francese (Poincarè) e il Presidente del governo francese (Viviani) erano a Pietroburgo. Entrambi assicurarono allo zar l’appoggio militare della Francia, nel caso in cui l’Impero russo fosse accorso in difesa della Serbia invasa dagli Austriaci.
L’Europa prese fuoco nel giro di pochi giorni e questo fatto dimostra che nessuno degli Stati europei volle buttare acqua in quell’incendio, che sarebbe diventato mondiale, per spegnerlo. Non lo fecero:
– l’Austria-Ungheria per dare una dura lezione(ma non solo) alla Serbia;
– l’Impero russo per difendere i Serbi, ma in realtà per muovere contro gli Austriaci allo scopo di realizzare le sue aspirazioni espansionistiche nei Balcani;
– l’Impero germanico per tenere fede all’alleanza con l’Austria-Ungheria, ma soprattutto per fare straripare, oltre i confini tedeschi, quello che era il più potente e disciplinato esercito d’Europa;
– la Francia per non venire meno all’alleanza con la Russia, ma principalmente per cancellare con le armi l’umiliazione subita, nel 1870, con la disastrosa sconfitta e invasione del suo territorio ad opera del Regno di Prussia(che sarebbe diventato la Germania imperiale) e per riprendersi i territori dell’Alsazia e della Lorena, che aveva dovuto cedere;
– la Gran Bretagna per difendere la neutralità del Belgio invaso dai Tedeschi, ma per salvaguardare, in primo luogo, il suo predominio su tutti i mari, che considerava indiscutibile.
E l’Italia?
Tante volte, nel corso dei miei anni d’insegnamento(Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), feci mia, e condivisi con i miei alunni di Scuola Media e degli Istituti superiori, una intelligentissima frase dello storico Raffaello Morghen: “Come al solito, l’Italia era rimasta sorpresa dagli avvenimenti europei dell’estate del 1914”.
E, nella condizione di dovere prendere gravi decisioni, il 2 Agosto del
1914 dichiarò la sua neutralità.
L’avesse mantenuta per tutta la durata della guerra! Quante rovine e lutti avrebbe evitato agli Italiani!
Le gravi decisioni, che prese in seguito, la portarono scendere in guerra il 24 maggio del 1915, a combattere contro gli antichi alleati tedeschi e austro- ungarici, schierandosi a fianco dei francesi degli inglesi e dei russi.
Facendo conoscere a centinaia di migliaia di fanti e a decine di migliaia di sottoufficiali e ufficiali fango pulci pidocchi, densa e appiccicosa melma, epidemie di tifo, filo spinato trincee camminamenti, attacchi e contrattacchi, tempeste di granate, gas venefici, lamenti di uomini, monconi di braccia e di gambe, brandelli macabri di carne e di ossa, orrende mutilazioni, crani trapassati, frammenti di divise, carcasse di cavalli di buoi di pecore e di capre, la natura deturpata e la terra di nessuno che separa il nemico inglese o francese o russo o italiano o americano dal nemico tedesco o austro-ungarico.
Ma dalle macerie e dai bagni di sangue delle vittorie e delle sconfitte scaturirono i capolavori del pensiero universale a testimonianza di una criminale follia distruttiva, sia da parte delle forze dell’Intesa, sia da parte delle forze degli Imperi Centrali, dispiegatasi per diversi anni e non solo nel continente europeo:
– Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque;
– Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu;
– La rivolta dei Santi maledetti di Curzio Malaparte;
– Giorni di guerra di Giovanni Comisso;
– La commedia di Charleroy di Drieu La Rochelle;
– Orizzonti di gloria di Humphrey Cobb ;
– Addio alle armi di Ernest Hemingway.
E, al di sopra di tutto, gli immortali versi dell’uomo ancora vivo e tutto intero; l’uomo che è carne sangue ossa, mente sentimento pensiero: l’umile fante Giuseppe Ungaretti, che ha trascorso la notte nella trincea e che – guardando il cielo lontano sopra di lui, nell’espansione e interiorizzazione della luce del mattino, rasserenatrice e liberatrice – alla fine del lungo dormiveglia e degli opprimenti incubi di morte, che hanno popolato e sconvolto il suo animo, anche per un attimo solo può dire una volta ancora: M’illumino D’immenso.

Antonio Cammarana

Quel caseggiato di Contrada Casazza testimone della storia che vedemmo con i nostri occhi

Antonio Cammarana

Verso la fine degli Anni Cinquanta, ogni mattina, assieme a tanti ragazzi e ragazze della mia età, con l’autobus dell’AST, che da Acate ci portava a Vittoria, raggiungevo la Scuola Media Statale “Vittoria Colonna”.

Contrada Casazza Acate 1
Appena un chilometro oltre il centro abitato, in contrada Casazza, alla mia destra, vedevo una trazzera che recava a un complesso di case rurali, di cui si scorgevano le tegole dei tetti e parte delle mura. Proprio all’inizio del sentiero di campagna c’era una struttura a forma di piramide d’imprecisato materiale, che poggiava su quattro grossi tubi di ferro e che aveva al suo vertice una croce.

Contrada Casazza Acate 2
Per otto anni di seguito, tranne le domeniche e i giorni di vacanza, vidi, due volte al giorno, questa scheletrica ed enigmatica costruzione, immaginando spesso che fosse un posto di guardia per consentire o vietare l’accesso al casale; per otto anni di seguito, almeno una o due volte la settimana, sentii la voce del bigliettaio dell’autobus dire al collega conduttore di fermare il mezzo per fare salire o scendere diverse persone che andavano o venivano da lì. Dopo le Medie e le Superiori non salii più sul mezzo pubblico per Vittoria, gli studi universitari mi portarono a Catania, l’insegnamento mi catapultò in Piemonte a Chieri, a Beinasco, a Carmagnola, a Torino. Non dimenticai però la piramide con la croce, né la trazzera che portava al caseggiato di campagna, che rividi quando, tornato nella mia terra di Sicilia, in macchina da Acate-antica Biscari mi recavo a Vittoria. Nel giugno del 2013, l’amico Stefano Pepi mi fece dono del volume “Obiettivo Biscari” sullo sbarco anglo americano in Sicilia del luglio 1943, scritto assieme a Domenico Anfora e con la Prefazione di Giovanni Iacono per la Casa Editrice Mursia di Milano. L’introduzione al testo, firmata dai due Autori, mi fece tornare indietro nel tempo ai miei undici anni, allorquando in autobus passavo in Contrada Casazza e vedevo la piramide e la grande costruzione. Dopo la presentazione del libro alla Società Operaia di Mutuo Soccorso “Giuseppe Garibaldi” del mio Paese, chiesi a Stefano di poter visitare il terreno e il fabbricato, chiamato Case Paternò di Contrada Casazza, da qualche anno acquistati dai suoi genitori. Fu in un pomeriggio di febbraio del 2014 che Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e io raggiungemmo il posto. Così vidi da vicino quello che ritengo un monumento alla memoria eretto sia dai proprietari e dai contadini del luogo, sia dai soldati americani che da Vittoria (la prima città della Sicilia che si arrese agli Alleati) avanzavano verso Acate:
quattro grossi pali di ferro ormai arrugginiti – uno di essi corroso in tutta la parte mediana – sorreggono la cupola a piramide al cui vertice sta una croce ricavata da tubi di alluminio con otto buchi, quattro in orizzontale e quattro in verticale. Dalle testimonianze rilasciate dai proprietari a Stefano e ai suoi familiari attraverso i fori era avvitato alla croce un simbolo religioso celtico irlandese. Sotto la tettoia a forma piramidale, per molti anni, ci fu una statua di pietra raffigurante San Patrizio, protettore dell’Irlanda e degli americani di origine irlandese. Alla base dei quattro lati di questa copertura ci sono dei perni, che sorreggevano strutture contenenti vasi per fiori. E questo spiega, secondo quanto mi dice Stefano, il pellegrinaggio di persone del posto che, per anni, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, continuarono a portare mazzi di fiori. Siamo nel territorio di Vittoria, ci troviamo ad appena un chilometro sia da Acate, sia da Monte Calvo. I militari tedeschi, che erano stanziati nel caseggiato, nell’imminenza dell’invasione anglo-americana della Sicilia, avevano in dotazione una batteria antiaerea, oltre all’armamento tipo di un avamposto germanico in zona di guerra. Il luogo era stato scelto in base alla sua posizione strategica, che consentiva ai tedeschi di controllare Acate, Comiso e il suo aeroporto, il litorale di Macconi fino alla foce del fiume Dirillo e Monte Calvo.
Ci avviciniamo Pepi, Anfora, Iacono ed io al rustico, che copre un’area di tremila metri quadrati e che si presenta subito, ora che vi siamo vicini, come un antico casale fortificato a forma di ferro di cavallo con palazzo padronale o pars dominica, corte interna con pozzo per l’acqua, palmenti per la raccolta delle uve e delle olive da trasformare in loco in vino e in olio, magazzini per il frumento e altri prodotti della terra, stalle per gli animali, laboratori con i principali mestieri per produrre strumenti di lavoro e manufatti della vita quotidiana. Insomma una curtis vera e propria, non medioevale, ma moderna, con sistema economico chiuso e aperto, in cui si produceva ciò che era necessario per il consumo interno e per gli scambi con l’esterno.

Contrada Casazza Acate 3
La corte interna o baglio ha una struttura quadrangolare, in parte saccheggiata da ignoti visitatori diurni e notturni. Immediatamente alla sinistra della scala di pietra, che permette di accedere alla parte padronale, troviamo un capitello con la scritta 1765 VO I> 46. In un altro capitello non molto distante dal primo, un’altra scritta <<904 HG> 179° U.S.>>.

Contrada Casazza Acate 4
Nel 1943, il 10 luglio, un aereo americano con paracadutisti, di cui molti feriti, colpito dal fuoco proveniente da navi amiche, precipitò a cento metri dall’ingresso del caseggiato. Come se fossero caduti vicino ad una fossa di leoni o ad una tana di lupi, i paracadutisti diventarono bersaglio della batteria tedesca. I soldati e gli ufficiali dello zio Sam, che riuscirono ad uscire dal velivolo, risposero al fuoco nemico, ingaggiando una dura battaglia, anche se alla fine morirono tutti.

Contrada Casazza Acate 5
Ancora oggi è possibile trovare rottami dell’aereo, bossoli di mitragliatrici e di K98 MAUSER tedeschi, nonché bossoli e proiettili di Garand americani.
Tutto quello che era in dotazione dei militari statunitensi: cassette, stoffe di paracadute, taniche, borracce, mitra, fucili, baionette, bombe a mano vennero trafugati o trasformati dai contadini e dai proprietari del luogo in oggetti d’uso personale casalingo e campagnolo.
Pepi, Anfora, Iacono ed io lasciamo lo spazio chiuso, ancora una volta
facciamo il giro di tutto il complesso di Case Paternò. Comiso è davanti a noi con il suo aeroporto; alla sua sinistra vedo, in tutta la sua magnificenza e possanza, il vulcano dell’Etna imbiancato di candida neve; Acate con la sua Chiesa Madre e i suoi campanili, che da sempre fanno corna beffarde al visitatore, ed il cinquecentesco Castello dei Principi di Biscari; ed ancora le acque luccicanti della marina di Macconi e l’altura di Monte Calvo, da dove gli americani, che provenivano da Vittoria, cannoneggiarono per l’ultima volta Acate, ormai abbandonata dalle truppe italo-tedesche in ritirata; e da cui si mossero, per salvare il paese dal fuoco statunitense, “il profugo d’Africa, cav. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese; il calzolaio Giovanni Gallo; il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma”.
Esterna ed indipendente dalla costruzione si presenta a noi ciò che rimane della secentesca chiesetta, che doveva avere una estensione,
stando ai modesti ruderi che osserviamo, di sessanta metri quadrati e quindi capace di ospitare per le funzioni religiose la popolazione contadina e padronale del luogo.
Dalle ricerche effettuate e dalle testimonianze avute dalla famiglia Pepi la chiesetta fu abbattuta dalle batterie americane, che bombardavano Acate da Monte Calvo.
Il sole comincia a calare, nel dolce declino i suoi raggi non offendono più gli occhi, mentre permettono di osservare, in tutto il suo verde brillante di questo inverno piovosissimo, l’erba di tutta la campagna circostante. Pepi, Anfora e Iacono sono visibilmente soddisfatti di avermi fatto visitare questo luogo, che fu teatro di un cruento e sanguinoso episodio di guerra, e in cui scaturì un’accesa lite verbale tra Anfora e Pepi, che si trasformò in una solida amicizia e aprì la strada alla stesura di un testo che apporta nuovi dati e notizie sullo sbarco anglo-americano in Sicilia.
Da parte mia sono lieto di avere trascorso un pomeriggio, che ha arricchito il mio bagaglio culturale con la conoscenza di un luogo storico della Seconda Guerra Mondiale, con gli autori di “Obiettivo Biscari”. Ho calpestato un pezzo di terra da tempo figlia del silenzio, che custodisce il lontano tuono dei cannoni americani e il crepitio delle mitragliatrici tedesche, un luogo dove ancora ai fortunati visitatori potrà succedere di trovare qua e là bossoli schegge e arrugginiti rimasugli di rottami di armi e di mezzi, che furono portatori di dolore di morte di desolazione.
Mi fermo ancora a guardare la piramide e la croce con gli otto buchi, gli amici mi dicono che dovrebbero essere interessate le autorità militari statunitensi per il recupero e il restauro dell’edicola storica innalzata a San Patrizio. Io abbasso la testa, in segno di assenso, poi a parole riesco a proferire che sì, questa è la cosa più giusta da fare. L’esercito degli Stati Uniti sa onorare tutti i propri soldati in qualunque parte della terra essi combattono e muoiono. Noi, forse, lo sapremo fare in un futuro vicino o lontano, quando, sopra i morti delle nostre guerre, non sarà più buttato il fango delle ideologie politiche.

Prof. Antonio Cammarana
Via Duca D’Aosta n. 58
Tel. 0932874261 – C.A.P. 97011 Acate (RG)

Prima Guerra Mondiale. L’imbecillità criminale che segnò la fine della Belle Epoque

Assassinio di Francesco Ferdinando

Quando Gavrilo Princip, studente serbo, assassinò, il 28 gennaio 1914, a Sarajevo, l’erede dell’imperatore d’Austria – Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, un grave turbamento pervase le capitali europee, ma nessuno ebbe coscienza che un’epoca stava avviandosi alla fine: non l’ebbero i sovrani d’Europa, né i loro diplomatici, né i loro plenipotenziari, né i loro generali; né gli industriali grandi medi piccoli; tanto meno i commercianti (presi dai loro traffici), gli artigiani (chiusi nelle loro botteghe), i contadini (che zappavano le terre feudali dei padroni).
Da tempo l’Europa viveva un’epoca di pace, di agiatezza, di prosperità, di invenzioni, di scoperte scientifiche e tecniche, che avevano portato i transatlantici, i dirigibili Zeppelin, gli aerei, i treni, i tram, le metropolitane, le automobili, l’elettricità, il cinematografo, la fotografia, il telefono, il telegrafo, i fornelli, le stufe, i ferri da stiro.
Erano migliorate le condizioni igieniche, erano progredite le conoscenze mediche, si erano costituite le organizzazioni sindacali, il diritto di voto veniva progressivamente esteso a tutti i cittadini maschi.
Cominciava a prendere piede l’alfabetismo con l’istituzione delle scuole elementari, si facevano più prospere le condizioni economiche, si diffondeva una grande illusione, l’illusione di vivere in un crescente benessere che, prima o poi, avrebbe raggiunto tutte le classi sociali. Questa illusione alimentava una euforia universale, soprattutto nelle grandi capitali europee, centri concreti e tangibili di splendore e di prestigio. In modo particolare Vienna, capitale dell’operetta e del valzer; Berlino, capitale del militarismo mondiale; Londra, patria dell’industrializzazione e del colonialismo; ma soprattutto Parigi, che, negli anni che vanno dall’inizio del 1900 al 1914, divenne il simbolo di un’età felice; a cui si addicevano gli aggettivi propri di un’epoca prospera e i sostantivi legati a un senso di superiorità rispetto ai popoli dei continenti extra-europei; verso cui convergevano la moda la cultura il divertimento, gli aristocratici gli altoborghesi, gli artisti gli scrittori i poeti i pittori; in cui prosperavano il “Mouline Rouge” e il “Chez Maxim’s” “con le relative
“Chambres Séparés”, di cui Toulouse-Lautrec ha saputo eternare gli aspetti più squallidi e disgustosi” (Mittner), perché mostricciatolo dal pennello geniale; “Chambres Séparés”, di cui furono protagonisti principali e indiscussi le moderne “ammiratissime cortigiane come Cléo de Mérode, mantenuta di lusso di Leopoldo III del Belgio, per non parlare di altri regnanti o di principi e banchieri meno facoltosi o generosi “(ibidem)”.
Quando l’impero d’Austria-Ungheria inviò un ultimatum alla Serbia, ponendo delle condizioni inaccetabili, con il non troppo segreto intento di vederselo respingere, allo scopo di attaccare militarmente la Serbia, schiacciarla, annetterla tutta o in parte oppure esigere un forte indennizzo, nessun sovrano o diplomatico europeo prevedeva ripercussioni più ampie di una guerra limitata tra il senescente elefante austro-ungarico e il giovane lupo serbo.
Il meccanismo delle alleanze e il rispetto delle loro clausole segrete fece precipitare, però, nella catastrofe, i maggiori Stati europei. I quali, soltanto in apparenza, cercarono di evitare un conflitto che si rivelerà senza precedenti nella storia d’Europa, sia per mai superati motivi di “revanche” (la Francia nei confronti della Germania) o di influenza (tra l’impero d’Austria-Ungheria e l’impero Russo nei Balcani), sia perché non si resero conto che la vera partita militare si sarebbe giocata tra l’impero britannico e l’impero germanico che, all’alba del 1900, erano i due galli del pollaio europeo.
Il primo, perché intendeva mantenere intatto il primato del suo potere industriale navale e coloniale a livello mondiale, che considerava indiscutibile.
Il secondo, perché incominciava a costituire una reale minaccia al predominio assoluto dell’Inghilterra su tutti i mari, avendo raggiunto una estensione territoriale e una potenza economica e militare senza precedenti nella sua storia.
Come si permetteva il gallo germanico di insidiare e di mettere in discussione l’indiscutibile supremazia britannica su tutte le acque del globo?
La prima guerra mondiale durò 51 mesi, oltre quattro anni. Cominciata come guerra di movimento, ben presto diventò guerra di posizione, poi guerra di logoramento, infine guerra di annientamento delle forze offensive fisiche e spirituali dell’avversario.
Si combatté principalmente sul continente europeo, ma coinvolse nazioni di altri continenti come gli Stati Uniti, l’impero turco, il Giappone imperiale.
Mobilitò risorse umane e risorse del territorio in modo totale.
Si lottò con le armi, con le idee, con i giornali, con i volantini, con le notizie false, con la criminalizzazione del nemico.
Il soldato al fronte, il soldato in carne ed ossa, il fante che fu il vero emblema della Grande Guerra, ora combatté, ora disobbedì, ora si diede ammalato, ora fuggì, ora si ammutinò, ora impazzì, ora si suicidò, ora subì la più orribile delle punizioni, la decimazione.
I generali furono certamente i grandi criminali del conflitto. Lontani dai fronti di guerra, mandarono al massacro milioni di uomini per conquistare una trincea, spesso una manciata di terra che avrebbero perduto un giorno, una settimana, un mese dopo.
Ogni città, ogni paese, a partire dal 1919, eresse un monumento ai caduti in guerra.
Nessuna città, nessun paese eresse un monumento all’Imbellicità Criminale Europea (dei sovrani, dei ministri, dei diplomatici) causa fondamentale, a partire dalla fine della “Belle Epoque” e della “Grande Guerra” della decadenza e del declino dell’assoluta supremazia mondiale, nel campo tecnologico scientifico e culturale, dell’Europa. Ogni città, ogni paese d’Europa attende ancora di innalzare questo monumento più duraturo del tempo.
Attenderà ancora!
Perché l’Imbecillità Criminale, che è figlia dello stomaco e non della testa, è patrimonio generazionale comune dei governanti di ogni terra e di ogni epoca.

Antonio Cammarana

Una pagina di storia: la nascita del sindacato nazionale fascista dei “Massari”

Avvocato Bellomo
Il 24 maggio del 1925, nella sede di via XX Settembre, in seduta straordinaria e in seconda convocazione alle ore 20 ( la prima convocazione ore 18), si riunisce l’Assemblea dei Soci del Circolo della Borghesia per trattare, come ordine del giorno,” la costituzione in sindacato fascista” del Sodalizio. Relatore è l’avvocato Vincenzo Bellomo, Direttore del Circolo, il cui discorso si snoda in due parti.
Nella prima non mancano periodi paludati da una retorica declamatoria, enfatica e patriottarda, nella seconda la retorica cede sensibilmente terreno ad una più realistica presentazione degli accadimenti storici, politici e sindacali relativi agli anni che vanno dal 1919 al 1925. Nella prima parte l’avvocato Bellomo dichiara che è “grande ventura”, per lui, Direttore del Circolo della Borghesia di Biscari, “raccogliere ancora una volta”, nella “fausta ricorrenza del decimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia (la Prima Guerra Mondiale)”, il “giuramento incorruttibile di fede e di devozione agli uomini preposti alla tutela dei sacri diritti della Patria”; precisa che il 24 Maggio del 1915 “la giovinezza italica”, per correre a combattere “contro le tirannidi imperiali in difesa dei popoli oppressi”, non esitò un istante ad abbandonare “le scuole, le officine, i campi”; evidenzia che “il millenovecentodiciannove” fu “una pagina nera sinistra della storia politica italiana”, perché trionfò “la demagogia mostruosa”, che ubriacò “le masse dei lavoratori italiani, mettendoli gli uni contro gli altri allo scopo di realizzare, in Italia, quello che i soviet avevano fatto in Russia: il trionfo del comunismo”; mette l’accento sul ruolo di Benito Mussolini, che, “in una Piazza di Milano, aveva sparato il primo colpo contro il mostro bolscevico, togliendo gli Italiani dall’abisso in cui stavano precipitando e ricevendo da essi il giuramento di fedeltà”.
Nella seconda parte l’avvocato Bellomo spiega che “l’Istituto parlamentare italiano, nel lontano passato, ebbe innegabilmente una funzione di altissimo prestigio, ma in seguito si ridusse – prima dell’avvento fascista – in una decorativa palestra di vana eloquenza e in un indecente locale di disonorati turpiloqui e di più umilianti pugilati!”.
La rivoluzione fascista non fece solo giustizia di tutto ciò, ma cominciò a realizzare la riforma della burocrazia, della pubblica istruzione, dell’esercito, della marina, della milizia, la sicurezza all’interno e all’estero, i trattati di commercio, la valorizzazione di Vittorio Veneto.
“Ma la più bella, la più importante manifestazione del fenomeno fascista fu, senza dubbio, il grande movimento sindacale, che trionfalmente compie il suo inevitabile destino”.
Capitale e lavoro – come afferma Edmondo Rossoni – non sono “due termini irriducibilmente contrastanti e antitetici, ma due fattori concomitanti connessi ed omogenei; essi percorrono la stessa strada, vogliono lo stesso obiettivo: l’aumento, cioè, della produzione”. Non solo.
“Alla implacabile lotta di classe il fascismo redentore oppose la collaborazione delle classi”, quella che viene chiamata “la pace feconda tra il lavoratore e il datore di lavoro”.
Cessino, dunque, “gli odi di parte, le passioni morbose che ci immiseriscono e ci disonorano, si ravvedano i tristi e i traviati, e la parola di pace e di amore del nostro Duce avvinca tutto il popolo italiano in un indissolubile abbraccio fecondo di prosperità e di benessere, sentendo, come nelle gloriose giornate di Vittorio Veneto, l’orgoglio di essere italiani, veramente italiani!”.
Così sono descritti, nel verbale della seduta, i momenti che seguono la conclusione dell’avvocato Vincenzo Bellomo:
“Un frenetico lungo applauso accoglie il discorso del Direttore, avvocato Bellomo, e l’Assemblea, ad unanimità e per acclamazione, vota l’oggetto segnato all’ordine del giorno. In seguito a tale votazione il Circolo degli Agricoltori di Biscari (già Borghesia) si costituisce in Sindacato Nazionale Fascista dei Massari e affida allo stesso Direttore Avvocato Bellomo l’incarico di procedere, visti gli atti e le formalità inerenti, al Riconoscimento Ufficiale da parte delle Autorità Gerarchiche Sindacali, nonché al tesseramento obbligatorio per tutti i soci, ai quali si assegna un periodo di tempo massimo di giorni 25 per provvedere alla iscrizione e alla tassazione personale”.
Correttezza storica impone i seguenti rilievi:
– il verbale della seduta, a me non esperto calligrafo, pare che sia stato scritto per intero dallo stesso Direttore del Circolo della Borghesia, che aveva fatto la relazione;
– nel verbale non si fa riferimento alla convocazione dei soci mediante lettera, né all’esposizione della bandiera alla porta;
– nel verbale c’è la firma del Segretario Catania Giuseppe di Biagio e del Direttore Avvocato Vincenzo Bellomo, ma non del Presidente Guardabasso Gaetano fu Vincenzo;
– quelli della mia generazione ricordano questa comunità di uomini – che il lavoro dei campi, nel corso dei decenni, ha logorato o ha irrobustito, ma in ogni caso ha affratellato – non con la denominazione di Circolo della Borghesia o Circolo Agricolo, ma con il nome di ” Società dei Massari”, con l’accezione del termine “massaro”, intendendo non solo il piccolo o medio proprietario terriero, ma anche il gabellotto o mezzadro. In ogni caso il lavoratore di terre sue o di terre sulle quali ha dovere di lavoro e diritto di guadagno, non essendo né il semplice contadino o il semplice bracciante, che, faticando in una campagna non sua riceve una paga settimanale o giornaliera;
– non esistono documenti validi successivi, che possano illuminare la vita del Sodalizio a partire dal 1927 fino al 1942, per cui questo quindicennio di storia dell’Associazione rimane in ombra. A meno che lumi non vengano dai registri delle Amministrazioni Comunali di Acate o da altro materiale in possesso di Enti o di privati cittadini;
– la nascita del Sindacato Nazionale Fascista dei Massari a Biscari, come in tanti altri centri, fu possibile perché, in campo nazionale, Benito Mussolini poté superare indenne tutte le conseguenze politiche e morali del delitto del deputato socialista Giacomo Matteotti, grazie al coraggio e all’appoggio di Roberto Farinacci, che rappresentò il volto autentico del fascismo rivoluzionario, quello che non si venderà al Grande Capitale, né verrà a patti con la Monarchia dei Savoia. All’epoca della crisi del 1924 Benito Mussolini se ne stava “all’interno del Palazzo” intontito e paralizzato dagli avvenimenti, non sapendo quali pesci pigliare e rischiando la distruzione di sette anni di dura lotta contro il socialcomunismo, nonché la perdita stessa del potere. Il Duce fu salvato dal colpo di mano “dei trentatré consoli della Milizia, che il giorno dell’ultimo dell’anno 1924 – armi in pugno – fecero irruzione nel suo studio di Capo del Governo per obbligarlo a rompere gli indugi e a riprendere, con decisione, l’iniziativa politica”, che rischiava di sfuggire al suo controllo. Tale pronunciamento delle “camicie nere della prima ora” svegliò Mussolini dal torpore e dall’inazione in cui era caduto, facendogli preparare il discorso tenuto alla Camera dei Deputati il 3 gennaio del 1925 con il quale giustificò le azioni squadristiche e se ne assunse la responsabilità: “Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto in Italia”.
Secondo me, questo è il momento – l’ultimo momento, prima che gli ideali politici e sociali del fascismo venissero traditi – del fascismo rivoluzionario, che aveva il suo leader riconosciuto e incontrastato in Roberto Farinacci, da cui il Sindacalismo Fascista ricevette la massima spinta per piegare, prima del compromesso o, il che è lo stesso, della sconfitta, il Grande Capitale alle esigenze sociali del Sindacalismo Corporativo con il suo teorico di punta Edmondo Rossoni.

Antonio Cammarana

Il lavatoio di contrada Canale: Cammarana e Cultraro presentano il Quaderno della “Biblioteca dell’antica Biscari e della valle dell’Acate”


Lavatoio circolo conversazione acate

“Il Lavatoio di contrada Canale, luogo d’incontro e simbolo del duro lavoro quotidiano”. E’ questo il titolo del Primo Quaderno della Biblioteca dell’Antica Biscari e della Valle dell’Acate, pubblicato dal professore e storico Antonio Cammarana e dal giornalista pubblicista e studioso del territorio Salvatore Cultraro.
Il volumetto è stato presentato, nel corso di una manifestazione patrocinata dall’Amministrazione Comunale di Acate, tenutasi venerdì 27 dicembre 2013 nei locali dello storico Circolo di Conversazione di Piazza Libertà, alla presenza di un folto ed attento pubblico. “Il lavoro – frutto di una minuziosa ricerca storica a seguito del ritrovamento sia delle tavole del progetto originario del 1910, redatto dal perito agronomo di Niscemi, Rosario Cavalieri Iacono; sia della richiesta all’Autorità competente, in data 10 novembre 1910, del dottor Francesco Licitra, Ufficiale Sanitario di Biscari; sia della relazione del Regio Commissario Straordinario Gianani Giovanni, pronunciata nella seduta del nuovo consiglio comunale di Biscari in data 5 febbraio 1911 – vuole essere, come hanno spiegato gli Autori, il punto di partenza per la realizzazione di un successivo percorso storico, didattico, paesaggistico ed archeologico, che avrà il suo fulcro nella contrada Canale e nella splendida valle dell’Acate”.

Il professore Antonio Cammarana, nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza che “lo studio monografico, Il Lavatoio di contrada Canale, si presenta come documentazione d’epoca, vagliata con il rigore dell’indagine metodologica volta a penetrare, all’interno del tempo storico esaminato, il mondo umano nella sua concreta e sofferente realtà esistenziale; punto di partenza di un progetto di rivalorizzazione e di salvaguardia di quei valori paesaggistici, che rischiano di essere cancellati per sempre ed infine strumento di cultura pluridirezionale, perché, attraverso un itinerario non solo storico, ma anche di forte valenza didattica, rivolto agli studenti, ai giovani, agli appassionati di storia locale del nostro paese, consentirà il raggiungimento di obiettivi validi sul piano scolastico e l’assimilazione di conoscenze, che andando oltre l’utilizzazione immediata, costituiscono una solida base di conoscenze per il futuro”.
Il Lavatoio Comunale, quale luogo d’incontro e di duro lavoro quotidiano per le donne di Biscari, è stato il tema centrale dell’intervento dell’altro autore del volumetto, il giornalista pubblicista Salvatore Cultraro. “Non è raro vedere in quadri, stampe e fotografie dell’Ottocento e dei Primi del Novecento- ha sottolineato Cultraro- immagini di donne piegate, curve su pietre intorno a grandi vasche o a canali di acqua intente a lavare panni. Probabilmente un tributo da parte degli artisti per sottolineare che, pur nella fatica quotidiana, quelle figure erano donne prima che lavandaie. Ormai grazie all’avvento delle lavatrici, sempre più sofisticate, lo sforzo più grande che oggi si può fare è quello di caricarle e successivamente stendere ad asciugare gli indumenti. Eppure vi fu un momento in cui la costruzione di un lavatoio pubblico coperto era percepita da una comunità come una irrinunciabile conquista sociale. Le antiche lavandaie non avevano la lavatrice in casa e non avevano l’acqua corrente. Però avevano le vasche di zinco. Già pesanti da vuote, se le appoggiavano su un fianco, colme sino al bordo e partivano per il lavatoio. Un grande lavatoio comunale si trovava anche a Biscari, in contrada Canale, dove le nostre lavandaie arrivavano spesso, subito dopo il levar del sole. Costrette a lavare gomito a gomito, non mancavano ogni tanto i litigi per questioni di spazio.
Altre cantavano, pettegolavano, commentavano i vari avvenimenti paesani. Un quotidiano di tribolazioni e di miseria affrontato con realismo e coraggio che rendeva le nostre lavandaie un pò dure, animose mai vittime”.

Lavatoio circolo conversazione acate  Giovanni Pignato

Parole di elogio, per il lavoro dei due storici-ricercatori, sono state espresse dal presidente del Circolo di Conversazione, professore Giovanni Pignato, dopo aver ringraziato e salutato i numerosissimi presenti, comprese le autorità istituzionali e la stampa, per aver preso parte al decimo ed ultimo incontro culturale organizzato nel 2013 dallo storico Circolo di Conversazione. “I nostri relatori di oggi-ha sottolineato il professore Pignato- illustreranno gli usi e i costumi di un tempo lontano e di un luogo distante dal centro abitato, da raggiungere spesso a piedi, ma che era punto d’incontro per donne ed uomini, simbolo del duro lavoro quotidiano”.
“L’importanza di questo lavoro di ricerca, realizzato in un particolare momento di totale sconforto per le conseguenze della preoccupante crisi economica che ci attanaglia”, è stata evidenziata nel suo intervento, dal sindaco di Acate, Francesco Raffo. “Con questo lavoro sul Lavatoio Comunale di contrada Canale- ha dichiarato il primo cittadino, rivolgendosi agli autori del volumetto-ci state insegnando ad amare nuovamente i luoghi legati alle nostre origini, spesso intrisi di ricordi tristi di duro lavoro e di sofferenza”.

La recente riscoperta e rivalutazione di importanti monumenti del nostro passato è stata evidenziata dall’assessore alla Cultura, Luigi Denaro. “E’ dal 1950- ha dichiarato visibilmente amareggiato, il dottor Denaro- che Acate viene deturpata e derubata di tutti i suoi beni culturali ed artistici. Dagli anni Novanta fino ai nostri giorni c’è stato solo qualche intervento sul territorio, che ha riportato alla luce monumenti importanti del nostro passato per iniziativa di alcuni volenterosi tra cui il sottoscritto ed il Parroco don Rosario Di Martino”. Quindi il titolare della delega alla Cultura ha concluso auspicando che “anche il Lavatoio Comunale possa essere restaurato eventualmente con fondi o collette private”.
“Quello che più mi ha colpito di questa pregevole ricerca storico fotografica- ha invece dichiarato la scrittrice Teresa Carrubba nel suo intervento- non è solo l’impegno o l’argomento che tratta, e che la rende degna di merito, ma l’angolo visuale che la connota, soprattutto per una semplice condivisione di punti di vista. Il taglio metodologico, infatti, a me sembra motivato da ragioni etiche e storiografiche, che fanno rivivere in tutti noi sentimenti sopiti, mai dimenticati”. Quindi la scrittrice ha rievocato commoventi ricordi legati alla figura del padre Gabriele (egli stava come sospeso tra il ricordo e il rimpianto nostalgico di quelle allegre scampagnate fatte nel giardino di proprietà della famiglia, che si trovava a due passi dal lavatoio, e dove erano soliti riunirsi i fratelli Carrubba quando gli impegni di lavoro lo consentivano. I suoi ricordi mi offrivano una chiave per aprire altri ricordi: i miei, una carrellata di avvenimenti in cui mi rivedevo bambina in giro per il lavatoio che già mostrava i segni dell’abbandono), ed ai suoi contatti con il pittore Biagio Carpinteri, che nel corso della serata ha esposto al Circolo alcune delle sue recenti opere, contatti che portarono alla realizzazione del bellissimo dipinto, un olio su tela, ordinato proprio da Gabriele Carrubba, raffigurante una ricostruzione della contrada “Canale” con la presenza di alcuni membri della sua famiglia.
Dipinto che Antonio Cammarana e Salvatore Cultraro hanno voluto inserire come preziosa immagine di copertina nel loro lavoro.
A conclusione dei lavori un breve intervento della professoressa Maria Giovanna Baglieri, la quale ha ricordato le sue iniziative finalizzate al recupero e restauro del Lavatoio Pubblico all’epoca della sua esperienza amministrativa quale assessore alla Cultura nella giunta Battaglia. Quindi, prima del momento di festa conclusivo, per il tradizionale scambio di auguri di fine anno, il presidente del Circolo di Conversazione ha voluto consegnare a tutti i relatori un prestigioso attestato, in ricordo dell’Evento storico.

Redazione

“Obiettivo Biscari”. Il saggio di Anfora e Pepi presentato da Antonio Cammarana alla Società Operaia

Obiettivo Biscari
Sabato 30 novembre, nei locali dello storico sodalizio, “Società Operaia di Mutuo Soccorso ” di Acate, fondato nel 1869, ho avuto l’onore di presentare il saggio storico “Obiettivo Biscari: 9-14 luglio 1943. Dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504” di Domenico Anfora e Stefano Pepi, pubblicato dalla Casa Editrice Mursia di Milano, “che sta compiendo un lavoro egregio di analisi dei fatti realmente accaduti durante l’invasione alleata”;
segnalato e recensito da diverse testate giornalistiche da “La Sicilia” al “Giornale di Sicilia”, da “Libero” al “Giornale”, da “Il Fatto Quotidiano” a “La Repubblica” a “Rinascita”, a “Il Secolo d’Italia”, al “The Times” di Londra.
In qualità di coordinatore della serata ho evidenziato che il volume ha meriti e punti di forza: ci accompagna a rivivere i luoghi, i volti, le vicende drammatiche, gli scontri cruenti; mette in risalto che, tra la sera del 9 e la mattina del 14 luglio 1943, “si scatenò una sanguinosa battaglia nel triangolo di Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate”; ci offre una documentazione storica attendibile che – oltre alle uccisioni di prigionieri di guerra e di civili che, già conosciamo da precedenti pubblicazioni – fa luce sulla strage dei Carabinieri compiuta dagli Americani a Passo di Piazza e sulla strage di militari italiani e tedeschi compiuta sempre dagli Americani all’Aeroporto di Comiso; si fregia, inoltre, dell’autorevole Prefazione del Tenente Colonnello, Dottor Giovanni Iacono, il quale definisce il libro “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia del luglio-agosto 1943”.
Ho dato, poi, la parola al Presidente Saverio Caruso, che si è detto orgoglioso di ospitare un evento di così notevole interesse culturale.
“L’invasione del territorio di Acate da parte delle truppe americane – ha riferito – l’ho vissuta da testimone oculare, anche se all’epoca avevo circa 9 anni. Mi ricordo delle bombe sganciate nel paese e delle violente esplosioni che provocarono diversi morti e feriti, generando grande panico tra la popolazione. Sono più che convinto che il bombardamento fu effettuato per la presenza di due camion tedeschi fermi nella strada principale del paese, tra via XX Settembre e via Roma”.
A seguire l’intervento del Sindaco Franco Raffo, il quale si è complimentato con gli autori del libro per aver fornito ancora un frammento di storia e di vita della nostra cittadina nelle atrocità della guerra.
Il Tenente Colonnello Giovanni Iacono, poi, si è soffermato sugli scontri che hanno avuto luogo “nelle vicinanze del bivio di Biscari, lungo la Statale 115, in località Biazzo; e nella “mossa a tenaglia” di “due battaglioni verso Biscari, uno da Sud, cioè dalla strada che va verso la SS 115, ed un altro da Est, proveniente da Vittoria e che si trovava già attestata nella zona di Monte Calvo”, da dove “bombardava il paese credendolo presidiato dalle truppe tedesche, che in realtà si ritiravano verso Caltagirone”, dopo avere lasciato “tra le retroguardie un carro armato Tigre, che muoveva lungo Corso Indipendenza e che sparava sia verso gli Americani provenienti dalla SS 115, sia verso quelli provenienti da Vittoria. Forse a salvare Biscari dai bombardamenti americani furono alcuni coraggiosi cittadini che andarono incontro al Gen. Mc Lain, che stava comandando l’attacco, il sig. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese, il calzolaio Giovanni Gallo ed il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma. Questi, a rischio della propria vita, s’incamminarono verso la chianata a Serra, che corrisponde dove c’è la rotonda andando per Vittoria, venendo fermati dagli Americani ai quali comunicarono che dentro il paese erano rimasti solo pochissimi tedeschi e che erano in fase di ritirata. Li pregarono di smettere quindi il bombardamento del paese. Non fidandosi gli Americani li fecero salire su una Jeep e li tennero come ostaggi, mentre le compagnie si avviavano verso il centro abitato. Vi furono delle scaramucce contro gli ultimi soldati tedeschi che si erano attardati nella ritirata, ma alle venti Biscari era in mano americana”.
Tra i presenti anche il signor Cesare Pompilio, che ha rievocato, con viva commozione, con la sua testimonianza diretta di ragazzino di 9 anni, episodi di guerra che offrivano uno spettacolo allucinante, di morti orrendamente mutilati tra grida e lamenti dei sopravvissuti. Purtroppo non mancò, tra tanto disastro, chi cercò di approfittare della situazione con indegni atti di sciacallaggio, tra le rovine delle case bombardate o abbandonate, alla ricerca di denaro e di effetti personali.  Il volume, ha affermato Stefano Pepi nel suo intervento, è nato per caso, quando davanti al casale di sua proprietà, nel territorio di Vittoria, in località Casazza, vede aggirarsi Domenico Anfora attratto da alcuni particolari (presenza di varie feritoie rivolte verso la strada) e da una iscrizione su “un capitello di una delle entrate di destra sul quale vi era inciso 179° U.S.”, che gli destano curiosità.
Dopo un primo malinteso e lo scambio di reciproci chiarimenti, tra i due nasce una forte sinergia. E’ l’inizio di una grande amicizia e di una valida collaborazione tra la consolidata esperienza di serio ricercatore storico vizzinese e ” l’uomo entusiasta col fiuto dell’investigatore”. Un unico denominatore comune: la passione per la ricerca storica sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e l’amore per la verità. Da qui i motivi che hanno spinto Domenico Anfora e Stefano Pepi a cimentarsi in un “lavoro di ricerca, d’indagine, di studio sulla battaglia di Biscari, che insanguinò il territorio compreso tra Acate, Niscemi, Ponte Dirillo, Vittoria”. Una impresa entusiasmante e interessante – aggiunge Domenico Anfora nel suo intervento – che nasce “sul campo”, ispezionando luoghi, consultando archivi, interagendo con le cronache del tempo, ricercando documenti inediti, intervistando testimoni. Indimenticabile l’incontro con Riccardo Mangano, pronipote del Podestà di Acate, Giuseppe Mangano, che insieme al figlio Valerio e al fratello Tenente Medico Ernesto, fu vittima di una strage perpetrata dagli Americani a Vittoria.

Antonio Cammarana

I Crimini di guerra americani nei primi giorni dell’operazione Husky. Compendio.

Compendio
Tanti, forti e profondi dovettero essere i sentimenti provati dal nemico invasore, da coloro che difesero la loro terra, e dalla popolazione civile che assistette agli scontri e che ne patì le conseguenze nei primi sei giorni dell’Operazione Husky (“cane da slitta” il nome in codice) nel settore delle truppe del generale George J. Patton (Licata, Gela, Macconi, Ponte Dirillo, Acate, Scoglitti, Vittoria).
Innanzitutto la tensione e la paura generate nell’animo di coloro che vissero l’attesa di entrare in azione in luoghi che non conoscevano o che conoscevano per averli visti soltanto in mappe approssimative e imprecise, fossero essi paracadutisti, soldati di fanteria, di artiglieria o di cavalleria corazzata.
Nel libro di Domenico Anfora e Stefano Pepi, “Obiettivo Biscari, 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’aeroporto 504” (Milano, Mursia, 2013), che il Tenente Colonnello dott. Giovanni Iacono considera “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia” (p.7), leggiamo le parole che descrivono lo stato d’animo dei paracadutisti americani in attesa di lanciarsi nel buio: “Aspettavamo in piedi, le ginocchia che tremavano sotto l’enorme carico, il cuore che martellava contro le costole, i nervi pronti a quel salto nell’oscurità, la mente tesa a tenere lontano ogni funesto pensiero” (Idem, p.43).
E possiamo soltanto immaginare con quanto stress si conviva scendendo dall’alto con il paracadute, per la prima volta in una zona di guerra, vedendo i compagni che stanno vicino colpiti in aria prima di prendere terra o catturati subito dopo aver preso contatto con il terreno o rompersi gli arti o la schiena nell’atterraggio o rimanere per lungo tempo isolati o in piccoli gruppi in un luogo sconosciuto, lontani dall’obiettivo e con il solo pensiero di congiungersi agli altri prima di incappare in una pattuglia nemica.
Sentimenti non dissimili a quelli dei paracadutisti vivono una parte degli uomini della “Thunderbirds”, la 45a Divisione di fanteria americana, che si trova su una nave in avvicinamento alla costa tra Scoglitti e Capo Sgalambro, in attesa di ricevere l’ordine di sbarcare: “I giovani e inesperti soldati dello zio Sam, quasi tutti coscritti, nell’oscurità inciampavano e imprecavano, mentre tastoni cercavano il corrimano e dondolavano abbrancati alle scale a corda sui fianchi delle navi beccheggianti nel mare mosso. Alcuni caddero mentre tentavano di scendere, infortunandosi seriamente. Un fante annegò”. (p. 66).
E ancora al largo di Capo Sgalambro e di Punta Braccetto, “sui mezzi da sbarco che giravano a cerchio a causa del mare grosso” (p.69) e “con la paura che oscurava la ragione e per la nausea” (Ibidem), le stesse emozioni vivevano i fanti che “vomitavano, pregavano e imprecavano, e vomitavano ancora” (Ibidem). E solo quando cominciò “il fuoco di sbarramento della flotta americana verso la costa siciliana, illuminandola al ritmo delle cannonate”(Ibidem), quei
soldati dimenticarono la nausea e “guardarono quelle scie di fuoco e quelle esplosioni con gli occhi sgranati e le dita nelle orecchie”(Ibidem).
Dal momento dello sbarco cominciarono a susseguirsi le esecuzioni sommarie di prigionieri militari disarmati e di civili inermi.
Le truppe americane della Cp “I” del 3°/505° , venute a contatto con il nemico, non avevano motivi validi per fucilare, o meglio per assassinare, i carabinieri che difendevano Passo di Piazza e che si arresero, dopo gli interventi dei cannoni navali della Marina Statunitense.
“In località Passo di Piazza, a Nord del Biviere e a Ovest del Ponte sul Dirillo, a presidio della linea ferroviaria, c’era un posto fisso dei Carabinieri forte di 15 uomini al comando del Vicebrigadiere Carmelo Pancucci. Il carabiniere Antonio Cianci, ventunenne di Stornara (FG), vedendo in avvicinamento un gruppo di soldati sconosciuti, fece fuoco abbattendone uno. Iniziò un conflitto a fuoco tra i carabinieri, armati di soli moschetti e asserragliati nella casa rurale, utilizzata come Caserma, e i paracadutisti americani che la circondavano.
L’intervento dei cannoni navali americani convinse il vicebrigadiere ad alzare bandiera bianca. Nel frattempo erano morti quattro carabinieri. I dodici, che si erano arresi, furono messi al muro e sottoposti a raffiche di mitra, che provocarono la morte di altri quattro militari italiani e il ferimento di uno. I sopravvissuti, tra i quali Pancucci e Cianci furono deportati in Algeria. Gli aggressori appartenevano probabilmente alla Cp “I”, lanciatasi sulla vicina contrada di Piano Lupo”(p.46).
Lo stress emotivo, il non potere dormire, la collera incontrollata causata dalla morte in combattimento dei compagni del Combact Team, una notte intera trascorsa dentro una trincea; l’assunzione di benzedrina “sia per attenuare i malori causati dalla terribile tempesta che aveva investito il Canale di Sicilia, sia per animare i soldati al loro battesimo del fuoco” (p.191); le parole del Generale Patton che incitano a non fare prigionieri, anzi a uccidere ( ” Kill, kill and kill some more”: “Uccidi, uccidi e uccidi ancora”) quelli che egli chiamava, con parole rimaste tristemente famose nella storia dell’esercito statunitense, “Beach of songs”, “Figli di puttana”, sono alla base di un altro aberrante crimine di guerra compiuto dal sergente Horace West . Il “sottoufficiale ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie, perché fossero interrogati dal Servizio Informazioni S-2 del reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati.
Spiegando che avrebbe ucciso quei figli di puttana, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani” (Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia, Milano, Mondadori, 1990, p. 255).
Ancora un altro crimine di guerra si consumava nello stesso giorno dagli “uomini della Cp “C” agli ordini del Capitano Jhon T. Compton”, che, “incontrando una dura resistenza nel settore Est dell’Aeroporto di Biscari, adirati per le perdite subite, fucilarono i 36 militari italiani catturati” (Anfora-Pepi, op. cit., p.185).
Il capitano Compton, “imputato di 36 omicidi, non cercò scuse”, dicendo, “davanti alla Corte Marziale”, che aveva obbedito all’ordine di Patton: “Giusto o sbagliato, l’ordine di un Generale a tre stelle, con una esperienza di combattimento, mi basta. Io l’ho eseguito alla lettera” (Idem, p.191).
“Ripugnante” è l’aggettivo di cui Carlo D’Este si serve per condannare ciò che definisce come “il primo incidente” dell’Operazione Husky, in realtà si tratta di due aberranti crimini di guerra compiuti da un ufficiale ( il Capitano Jhon T. Compton) e da un sottoufficiale (il sergente Horace West) del 180° reggimento della 45aDivisione di fanteria Thunderbird dell’Esercito degli Stati Uniti.
Questi crimini di guerra furono incoraggiati anche dalla “voce”, che circolava tra le truppe di terra della 45° Divisione, quando, nell’area compresa tra Acate, Santo Pietro e Piano Stella, si rinvennero a decine i corpi senza vita dei paracadutisti americani che si trovavano a bordo dei 23 Dakota abbattuti per errore dal fuoco amico della flotta.
La “voce” diceva che “gli italiani avessero aperto il fuoco sui parà prima di toccare terra, violando la Convenzione di Ginevra, o che addirittura avessero giustiziato anche quelli che si erano arresi. Queste voci, del tutto infondate, incoraggiarono comportamenti vessatori o addirittura criminali contro i prigionieri italiani” (Andrea Augello, Uccidi gli Italiani, Milano, Mursia, 2009, p.108 ).
Se si è riusciti a fare luce su questi avvenimenti lo si deve anche al prof. Vincenzo Castaldi di Varese, Docente di Storia e Filosofia, il quale “il 29 gennaio del lontano 1995” inviò “un esposto al Procuratore della Repubblica di Ragusa (copia del quale invierà successivamente anche al giornalista della Gazzetta del Sud Salvatore Cultraro per conoscenza), denunciando un eccidio avvenuto il 14 luglio del 1943 nei pressi dell’Aeroporto di Biscari” (Salvatore Cultraro, I ricercatori ignorati. I meriti del prof. Vincenzo Castaldi, Archivio AcateWeb, 15-11-2013 ).
In verità i crimini di guerra compiuti dal Capitano Compton e dal Sergente West non saranno i soli crimini dei primi sei giorni dell’Operazione Husky.
Mentre rileggo il volume ” Obiettivo Biscari” continua a colpirmi la ricchezza di particolari con cui gli autori hanno ricostruito la fine di Giuseppe Mangano, insegnante elementare e podestà di Acate, di suo figlio Valerio, e la scomparsa di Ernesto Mangano, Tenente del Regio Esercito Italiano, a Vittoria, cittadina della Provincia di Ragusa. E non tanto per una ideale consonanza giovanile di fede politica con l’ideologia del fascismo, che l’inesorabile falce del tempo ha reciso anche con il contributo non indifferente dei figli della Fiamma Tricolore che lasciarono la scomoda “casa (ghibellina) del padre” per la comoda “casa ( guelfa) del potere”; quanto piuttosto per le vili e non documentate parole raccattate in chissà quale sentina da coloro che usurpano il nome di storici.
Fucilato Giuseppe Mangano, assassinato con un colpo di baionetta alla guancia Valerio Mangano, scomparso senza lasciare traccia Ernesto Mangano, “emerge così un’altra storia dei ragazzi Yankee in divisa, da un lato alta e nobile, scritta da combattenti tenaci, generosi e pronti al sacrificio, dall’altra inaccettabile, imperscrutabile, fatta di eccidi di prigionieri inermi, di civili innocenti, di presunti e reali fascisti” (Andrea Augello, op. cit., p.13).
Un’altra storia che è ancora la storia dell’eccidio di Piano Stella del 13 luglio 1943, ricostruita da Gianfranco Ciriacono ne “Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella”( Coop. C.D.B. Ragusa 2003).
E’ ancora la storia del massacro dell’Aeroporto di Comiso. Secondo il giornalista inglese Alexander Clifford, testimone dell’episodio, sessanta soldati italiani e cinquanta soldati tedeschi, “catturati in prima linea, furono fatti scendere dai camion e massacrati con una mitragliatrice” (Anfora- Pepi, op. cit., p.147); secondo la versione americana, “un agente della Military Police della 45a, caricando su un camion un gruppo di prigionieri tedeschi per trasferirli dal fronte al campo di prigionia nelle retrovie, scoprì che nei camion in dotazione avrebbe potuto trasportare solo 200 dei 235 prigionieri nemici. Così egli allineò i 35 prigionieri in eccesso e li falciò con il suo mitra” ( Ibidem).
Se ciò che abbiamo scritto non è stato un inutile esercizio storico-linguistico, prende corpo la tesi che i giorni dal 9 al 14 luglio 1943 rimarranno nella memoria perché rappresentano “l’unico momento in cui gli Italo-Tedeschi rischiarono di vincere, contro ogni logica ed ogni possibile pronostico, come qualche rara volta accade sui campi di battaglia di ogni tempo” (Andrea Augello, op. cit., p.10); e perché vi vengono consumati diversi crimini di guerra, come conseguenza di un deragliamento della ragione, da parte di parecchi fanti americani della 45aDivisione, i quali considerarono il nemico vinto e arresosi non come prigioniero di guerra, ma come “figlio di puttana” da ammazzare, o per una personale e distorta interpretazione del discorso del Generale George J. Patton pronunciato alle truppe prima dello sbarco in Sicilia, o per una criminale ed efferata vendetta per la morte dei compagni caduti negli scontri a fuoco con i soldati italiani e tedeschi.

Antonio Cammarana

“Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”. Inaugurata un’importante mostra ad Acate

Letizia Zaffarana
Inaugurata dal vice sindaco Letizia Zaffarana, alla presenza di un discreto numero di appassionati d’arte, nel castello dei Principi di Biscari, la mostra intitolata “Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”, inserita nel programma del “Settembre a Biscari 2013”. Al tavolo dei lavori Giovanni Bosco di Vittoria, titolare della galleria polifunzionale “Edoné”, che ha sottolineato che la mostra ha come obiettivo di promuovere l’arte nel territorio siciliano e favorire così l’approccio all’arte pittorica, l’assessore alla Cultura, Luigi Denaro, promotore dell’interessante iniziativa culturale, che ha ringraziato i pittori, i relatori e il comitato organizzatore e spiegato le tappe che hanno reso possibile l’evento, lo storico Antonio Cammarana, la scrittrice Maria Teresa Carrubba (pubblichiamo le due relazioni), il critico d’arte Alfredo Campo, che ha presentato i pittori e si è soffermato sul significato delle opere, il vice sindaco Letizia Zaffarana e il presidente del Consiglio comunale, Isaura Amatucci, che hanno messo in evidenza che la straordinaria mostra dà spessore alla cultura e pregio ad Acate.

innaugurazione mostra arte acate
Il prof. Giovanni Lantino ha coordinato i lavori. Il percorso artistico della mostra comprende il Futurismo, il Pixeling, l’Arte Figurativa, la Transavaguardia, l’Arte Informale, l’Arte Povera e lo Spazialismo con le opere di Lucio Fontana, Piero Dorazio, Antonio Corpora, Mino Maccaniri, Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Alberto Sughi, Remo Vespignani, Giuseppe Migneco, Renato Guttuso, Michelangelo Pistoletto, Emilio Vedova, Giulio Turcato, Mauro Reggiani, Mario Schifano, Franco Angeli, Ugo Nespolo, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Mimmo Germanà, Tano Festa, Felice Casorati, Fausto Pirandello, Antonio Bueno, Fiorenzo Tomea, Antonio Nunziante, Fabrizio Clerici, Jean Calogero, Giulio D’Anna, Pippo Rizzo, Fortunato Depero, Marianna Sallemi, Federica Meli e degli artisti iblei Arturo Barbante, Vincenzo Napolitano, Maurizio Cugnata, Francesco Iacono e Gino Baglieri. Le numerose opere della mostra potranno essere visitate dal 4 al 13 ottobre, dalle ore 18 alle ore 22 nei giorni feriali, e dalle ore 10 alle 12,30 e dalle 16 alle 22 nel giorno di domenica.

Redazione (Acateweb)

Il Novecento: un itinerario storico, di Antonio Cammarana

Non è semplice indicare sinteticamente i tratti dominanti ed essenziali del Novecento, anche perché parliamo di una Storia non completamente sistematizzata e ancora soggetta ad una pluralità di contrastanti interpretazioni.
Alcuni storici definiscono il Novecento “secolo delle ideologie”, altri “secolo delle avanguardie”, altri ancora “secolo della tecnologia”. Definizioni che, assieme alle altre, confluiscono, secondo me, nella rappresentazione del Novecento come Apogeo e Simbolo della Modernità.
Antonio Cammarana innaugurazione mostra arte acate
Il Novecento si apre con “un segnale telegrafico, la lettera S, tre punti nell’Alfabeto Morse”, che, per la prima volta, ad opera dello scienziato italiano Guglielmo Marconi, attraversa l’Oceano, “viaggiando nell’etere, e non lungo un cavo sottomarino, alla velocità
di 300.000 chilometri al secondo, cioè alla velocità della luce”, gettando le basi per la grande rivoluzione delle comunicazioni transatlantiche a beneficio dell’Umanità, tanto da meritarsi nel 1909 il Premio Nobel per la Fisica.
Si afferma il fascino della velocità, di cui è simbolo l’automobile, che è venuto ad appagare il bisogno di emozione, di avventura, di rischio, secondo il proclama del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, apparso a Parigi nel 1909 nel quotidiano “Le Figaro”.
Dal nuovo mondo arriva una grande forma artistica d’Avanguardia, il Cinema, considerato “la decima Musa, che, a differenza delle sue sorelle della mitologia greca, non abita sul monte Elicona, ma in un regno tutto suo, chiamato Hollywood”, la cui figura più grande è quella di Charlie Chaplin, che ci darà due pellicole di rara bellezza: “Tempi moderni” nel 1936 e il “Grande Dittatore” nel 1940.
Nel 1914 e nel 1939 l’Europa precipita, per ben due volte, nella catastrofe della guerra, che vede prima una Germania guglielmina e imperiale, poi una Germania hitleriana e nazionalsocialista impegnata in quello che è stato chiamato “l’Assalto al potere mondiale”( Fritz Fischer,1961).
Sia nella prima come nella seconda guerra mondiale, l’umanità è stata vicinissima alla distruzione universale, ha visto i campi di sterminio e l’Olocausto, la figura più tragica inquietante e criminale del Novecento, portando milioni di esseri umani ad affermare: “Ad Auschwitz Dio non c’era!”.
Ad Auschwitz Dio non c’era, ma non c’era nemmeno ad Hiroshima e a Nagashaki, soprattutto non c’era nella mente di quei fisici nucleari americani che, a Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico, guidati dal fisico Robert Hoppenheimer, direttore dei laboratori atomici, fecero la bomba atomica e la consegnarono al Presidente americano Truman per scopi militari.
Leonardo Sciascia, nel saggio “La scomparsa di Majorana”, afferma che si comportarono da uomini liberi, e furono uomini liberi, gli scienziati tedeschi che con Werner Heisemberg non fecero l’atomica, perché ne intravidero gli effetti catastrofici per l’umanità e
ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia. E, secondo me, furono filosofi, filosofi della vita, anziché essere scienziati, scienziati della morte.
Si comportarono da schiavi, e furono schiavi, gli scienziati americani che proposero l’atomica, vi lavorarono, la consegnarono al Presidente Truman, che ordinò di farla cadere in due città del Giappone accuratamente e scientificamente scelte per poterne valutare gli effetti distruttivi: “che l’obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse un’alta percentuale di edifici in legno; che non avesse, fino a quel momento, subito bombardamenti, in modo da potere accertare con la massima precisione gli effetti di quello che sarebbe stato l’unico e il definitivo”.
Nel 1941, Renato Guttuso, pittore dal forte impegno sociale, dipinge “Crocifissione”, in cui rappresenta, non solo la crocifissione di Cristo, ma la crocifissione di tutta l’umanità, resa martire dalla guerra.
L'”Osservatore romano” e il Vaticano considerano Renato Guttuso “pictor diabolicus” (pittore diabolico, pittore del diavolo) e condannano il dipinto giudicandolo eretico soprattutto per la presenza della figura della Maddalena nuda e lo propongono per la messa all’Indice dei Libri e delle Opere proibite dal Tribunale del Sant’Uffizio.
Nel 1945 l’umanità si salva dalla rovina della guerra, ma assiste impotente, alla divisione del mondo nei due blocchi contrapposti del Capitalismo e del Comunismo e al sorgere di quella realtà, che è stata chiamata “la guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica: uno “status” di forte competizione e confronto tra le più grandi nazioni del mondo che si scontrano, si attaccano, si danneggiano con ogni mezzo, politico economico propagandistico, escluso il mezzo militare.
Nel 1947 l’India, la “perla dell’Impero britannico”, ottiene l’Indipendenza dal dominio coloniale inglese, sotto la guida spirituale di Gandhi, chiamato il Mahatma, la “grande anima”, che propugna i grandi temi della non violenza e del pacifismo.
A Gandhi si ispira Martin Luther King, il “redentore dalla faccia nera”, per l’affermazione della parità dei diritti civili tra Bianchi e Neri negli Stati Uniti. Indimenticabile il suo discorso più famoso pronunciato nel 1963 al Lincoln Memorial di Washington, che incomincia con le parole ” I have a dream” -“Io ho un sogno: che un giorno questa Nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Nel 1964 gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace.
A Ghandi si ispira anche Nelson Mandela, uno dei più prestigiosi uomini politici africani, guadagnandosi, nel 1993, il Premio Nobel per la Pace per aver posto fine all’odioso regime dell’Apartheid, nel Sudafrica.
“Nel 1955 si ebbe la conferma che un nuovo mondo – il Terzo Mondo – era nato e si poneva come Terza Grande Forza accanto al blocco statunitense e al blocco sovietico.
I rappresentanti di 29 Paesi africani e asiatici, che avevano ottenuto l’Indipendenza, si incontrarono a Bandung, in Indonesia, e proclamarono la fine di ogni forma di colonialismo, dell’arretratezza e del sottosviluppo, soprattutto il rifiuto di schierarsi con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica. Nascevano in questo modo, i Paesi Non Allineati”.
Nel 1963 muore Giovanni XXIII, “il Papa buono”, il Papa che, con il suo linguaggio semplice e diretto, si era rivolto a tutti gli uomini di buona volontà e aveva affermato la centralità dell’uomo nel mondo: “Ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e doveri che sono universali, inviolabili, ineliminabili”.
Nella seconda metà del Novecento vive combatte e muore Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come Che Guevara, o semplicemente il Che. Diventato per milioni di intellettuali di studenti di lavoratori il Mito per eccellenza della difesa dei poveri e degli oppressi, della rivoluzione e della guerriglia del XX secolo, davanti al quale si inchinano tutti coloro che hanno vissuto, di persona e non a parole, la” Battaglia delle idee”, nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, nelle Università, in tutti i luoghi di lavoro.
Nel 1968 dai Campus delle Università americane arriva in Europa e in Italia il “Vento della contestazione”, che sfocia nell’occupazione delle facoltà universitarie da parte degli studenti in lotta, che rifiutano di subire le varie forme del potere come dominio di pochi privilegiati, concetto sintetizzato dal “Time” con queste parole:” Il rasoio che ha separato per sempre il passato dal presente”.
Tutti i partiti politici – dalla Destra alla Sinistra – furono colti di sorpresa, nessun partito politico – dalla Destra alla Sinistra – capì che cosa spingeva un’intera generazione di studenti universitari e degli istituti superiori a mettere a rischio il loro futuro e la loro incolumità personale.
Mentre continua, negli Anni Ottanta, la contrapposizione tra le due Superpotenze si afferma, in ogni campo, “anche in quelli che nulla hanno a che fare con le Arti”, il Postmoderno, non tanto come nuovo movimento quanto come negazione di tutti i principi, i valori, i giudizi, che erano stati propri del Moderno, avendo in comune uno  Scetticismo Essenziale, un Relativismo Radicale, un Nichilismo Assoluto, che erano stati portati avanti soprattutto da Federico Nietzsche e da Martin Heidegger.
Alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, alla riunificazione della Germania, alla dissoluzione del Comunismo in Unione Sovietica e nei Paesi del Patto di Varsavia, alla fine della “guerra fredda” hanno contribuito in modo determinante Michail Gorbaciov e Papa Giovanni Paolo II. L’uno propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka (rinnovamento) e alla Glasnost (trasparenza); l’altro, gigante della Chiesa Cattolica, con la sua instancabile azione politica e diplomatica, in campo internazionale. Questi grandi avvenimenti di fine secolo hanno dato agli Stati Uniti, per almeno un decennio, la coscienza di potere essere, nel campo militare, “l’Impero planetario”; primato che, sul piano economico, è stato messo in discussione dall’irruzione, nei mercati internazionali, della Cina e dell’India, che contano la metà della popolazione mondiale. Anche se la scienza e la tecnica ci hanno fatto guardare la terra dalla luna, si continua a non accorgersi delle sofferenze fisiche e spirituali di tanta parte dell’umanità, che, per tutta la sua lunga vita, ha cercato di alleviare quella che è considerata l’EMBLEMA del secolo che si è chiuso: Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace nel 1979, che, dall’alto della sua grandezza, ha voluto considerarsi sempre una PICCOLA MATITA nelle mani di Dio.
Sembra ieri, invece sono passati anni, decenni dall’inizio del Novecento, secolo di guerre, di distruzioni, di olocausti, come pure d’invenzioni, di conquiste, di risorse; secolo che si è chiuso lasciando aperti tanti problemi, che rimarranno sempre irrisolti se si continuerà ad ignorare che tutto nel mondo parte dall’uomo, fa riferimento all’uomo, ritorna all’uomo in modo positivo o negativo, nel bene o nel male.

Antonio Cammarana

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IL XX SECOLO nell’arte, di Maria Teresa Carrubba

Prima di ammirare i dipinti di questo meraviglioso percorso artistico ritengo sia necessario e indispensabile conoscere tutto ciò a cui i loro autori si sono ispirati. A volte ci si chiede cosa si può trovare di interessante nelle opere d’arte di questo magnifico itinerario oltre al bello artistico?
Vi si trova la storia, la vita, i sentimenti dell’uomo, dell’artista che vive il suo tempo. Vi si trova la giusta dose di ironia intelligente che sorregge il tema dei quadri, capace di congelare in una sola immagine LE NOTIZIE DELLE QUOTIDIANITA’.
Si raccontano attraverso la pittura le tappe fondamentali del cammino dell’umanità in un secolo, il novecento, fatto di contraddizioni e perciò complesso e tanto articolato.

teresa carrubba innaugurazione mostra arte acate
Il sogno dell’Italia unita, la pace rincorsa da una grande schiera di uomini travagliati da una crisi profonda, fu un miraggio per chi visse in un secolo segnato da due guerre, e avvertì dentro di se forte il peso di una società ingiusta e crudele.
La condizione dell’individuo sviluppò una coscienza che dava l’amara constatazione dell’assurdità della vita e dell’impossibilità di cambiarla. Spesso non vi si riusciva a trovare la connessione di una vita sociale, della comunicazione con gli altri; contemporaneamente si avvertiva l’impossibilità di sfuggire alle convenzioni, in quanto fuori da esse la vita diventava impossibile.
L’uomo comune, ma anche e ancor più l’intellettuale e l’artista, si sentiva assalito da sentimenti contrastanti, a volte avvertiva l’instabilità della propria condizione, a volte alimentava la voglia di esaltare quotidianamente la vita, a volte diffondeva nella coscienza il sapore amaro della solitudine e dell’alienazione. Essi, tutti quanti, subivano fatalmente la realtà, ma ognuno da quella realtà traeva fuori una sua verità, del tutto soggettiva e quindi diversa da quella degli altri. Molti, come i futuristi, maturarono una coscienza ribelle, un’esasperazione dell’animo, provocate da un forte senso di delusione che serpeggiò e dilagò rapidamente.
Ci si sentiva proiettati in situazioni nelle quali la linea di confine tra il sacrificio e la crudeltà era sottilissima. Posto ogni momento davanti alla necessità di dover scegliere se subire la morte o procurarla, l’uomo avvertì l’incertezza del proprio destino. La coscienza appariva insofferente a lasciarsi sottomettere da qualsiasi schema razionale, appariva angosciata e rifiutava la vita così come gli si prospettava. Per venire fuori da questo stato di cose, alcuni decisero di prendere in mano la propria sorte, di vivere fuori dalla banalità della vita comune, come gli esistenzialisti. Si andò spesso alla ricerca di una propria verità da trovare in se stesso, legata alla propria vita in particolare. Vi furono anche quelli che rivendicavano una vita fortemente individualista, rifugiandosi magari nella natura che offriva quiete e tranquillità, ritenuta l’unica capace di rasserenare gli animi angosciati.
Tra l’artista e la natura si stabiliva talvolta un’intesa perfetta, perché dal contatto e dall’osservazione di essa si traeva l’ispirazione per rappresentarla. Ma l’arte del novecento non consisteva in questo o quel tema, non aveva un motivo dominante come quella del secolo precedente, essa stava in una contrapposizione di temi, in un mobile gioco in cui la caratteristica era l’instabilità di ogni singola unità e la somma di tanti motivi. Accanto alla perpetua ricerca di un riparo riaffiorava sempre l’aspirazione all’eterna evasione da esso, al desiderio di spazi limitati e quieti si contrapponeva l’improvvisa nostalgia di vasti e diversi orizzonti, alla ricerca del tempo perduto faceva da contrasto l’infanzia ritrovata, il desiderio di una vita reale. In questa mobilissima concatenazione di contrasti, dal rifugio all’evasione, è da cercare forse l’autenticità di quest’arte fatta appunto da un continuo passaggio di temi. La maggior parte degli artisti nascevano da una crisi che portava a vedere il mondo senza significato, la loro arte manifestava una negazione estrema, un’ estrema decisione che riempiva di significato metafisico i particolari più semplici e comuni come la rappresentazione di povere creature o grandi simboli o immagini scarne e immediate, colte isolatamente. All’arte del XX° secolo si chiedeva tutto: ragioni di vita e di fede, dimenticanza e consolazione, l’orgoglio di stare solo e la forza di amare, la fiducia nell’azione al di là di ogni limite, lasciando aperto all’ispirazione tutto il sentire dell’animo.
Contro la vanità del mondo restava l’esaltazione dell’arte, ed ecco che lo scacco, il limite umano veniva esteso a tutto fuorché all’arte. Sosteneva D’Annunzio “Il mondo non è del vano conquistatore, ma dell’artefice solitario, il mondo non fu creato se non per essere convertito dall’arte in forme sovrane e immortali”. E poi accanto alla storia che faceva il suo corso camminavano gli uomini del secondo novecento, arrivarono gli anni sessanta carichi di ventate rivoluzionarie, del pluralismo, delle grandi svolte. Gli anni degli intrecci tra gli Stati Uniti, i poteri locali. Il tempo triste e buio della guerra era ormai lontano, ma c’era ancora chi nascondeva i suoi pensieri, i suoi segreti nel dipingere. La luce delle opere create, ancora il loro valore artistico rivelava la realtà interiore vissuta e rivissuta intensamente, ancora si metteva in luce nei volti dipinti la realtà di tutti i giorni, ma anche la dolcezza del temperamento.
L’artista della seconda metà del secolo in questione era antieroe per eccellenza, sempre povero, ma carico di ideali. In questo contesto incontriamo i “quattro grandi siciliani”, Guttuso, Fiume, Mignego e Caruso. Gli italiani vanno dove li porta il loro realismo, e i siciliani tanto di più, unici nella loro insularità psicologica prima che geografica. La loro arte è fatta di volti scomposti, patetici, sereni. Alcuni sono riflessivi, altri concettuali, immagini esilaranti, in cui vi si può leggere anche la follia quasi ordinaria della vita nei manicomi.
Sono tesori, un vero e proprio viaggio nel mondo e nella società di cui sono il frutto, sono esigenza di tutte le persone che vivono in un tessuto sociale come il nostro appunto che fa parte di un popolo la cui storia è così antica, così bella, ma anche dolorosa. L’arte dunque come medicina che curi l’apatia dell’uomo vittima della politica e dei fatti storici. Un’arte che fa riflettere e lascia in bocca un retrogusto persistente, il retrogusto della verità.

Maria Teresa Carrubba