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Al Castello la prima edizione del “Premio Gabriele Carrubba”: il riconoscimento all’insegnante in pensione Maria Iemmolo

Premio Gabriele Carrubba Acate

Si è svolta sabato 19 aprile, nella suggestiva sala consiliare del settecentesco Castello dei Principi di Biscari di Acate, la Prima Edizione del “Premio Gabriele Carrubba”.
Una iniziativa fermamente voluta dalla famiglia del compianto illustre concittadino e, in modo particolare, dalla figlia, la professoressa Maria Teresa Carrubba. “Un premio nato con l’intento di strappare all’oblio pezzi di vita, mettendo in risalto l’operato di un cittadino esemplare, che ha dato un grande contributo alla crescita civile, sociale, politica ed amministrativa di Acate”.
E, in effetti, il direttore Carrubba ha rappresentato sempre, per la piccola cittadina iblea, un valido punto di riferimento.
Indimenticabile il suo costante impegno che spaziava dalle attività culturali, sociali e religiose a quelle politicoamministrative.
In passato, fu più volte consigliere comunale dell’allora Partito Socialista Italiano, ricoprendo le cariche di assessore, vice sindaco e, nel 1994, presidente del Consiglio Comunale, durante l’amministrazione Masaracchio. Negli anni ’70 del secolo scorso diede il suo valido contributo quale assessore alla Cultura, per la realizzazione di opere importanti per la nostra cittadina quali la costruzione del plesso scolastico “Carlo Addario” di Via Neghelli, l’acquisto del castello dei Principi di Biscari e la crescita gestionale ed organizzativa della Biblioteca Civica, “Enzo Maganuco”.
Quindi, nel suo intervento introduttivo, Maria Teresa Carrubba ha spiegato al numerosissimo pubblico presente in sala, compresa una delegazione della Guardia di Finanza, guidata dal dottor Giovanni Raffo, dell’Associazione Trasporto Dializzati e delle signore Maria Carmela La Lisa e Rosalba Carnemolla in rappresentanza dell’Ufficio Postale di Acate, le motivazioni che hanno indotto la sua famiglia ad istituire questo prestigioso premio, riservato a personalità cittadine, che si sono particolarmente distinte per qualità ed ingegno.
Ad inaugurare la prima edizione del “Premio Gabriele Carrubba”, la signora Maria Iemmolo, maestra in pensione, definita da Maria Teresa Carrubba “simbolo ed emblema della scuola in generale e dell’insegnante in particolare. Una vera colonna portante della Scuola acatese, quella scuola alla quale la Iemmolo ha dedicato più di 42 anni della sua vita, prima nella veste di insegnante ed educatrice e successivamente di coordinatrice e responsabile dei servizi scolastici comunali. Una maestra, ma soprattutto una donna coraggiosa, di cui abbiamo rilevato molte affinità con mio padre, due persone che hanno sempre amato mettersi in gioco”.
Anche l’altra figlia del direttore Gabriele Carrubba, l’insegnante Ginetta, ha voluto ricordare la figura del compianto genitore, soffermandosi su quelli che ha definito “i ricordi più belli”, legati agli anni in cui Gabriele Carrubba ricopriva l’incarico di direttore dell’Ufficio Postale di Niscemi. “In quel periodo – ha tenuto ad evidenziare la signora Ginetta – seguivo mio padre passo dopo passo, facendo tesoro dei suoi insegnamenti e dei nobili valori che mi inculcava, in modo particolare, quelli legati al concetto di libertà”.
Parole di elogio nei confronti dei due “protagonisti” della serata, il direttore Carrubba e la maestra Iemmolo, sono state espresse dal sindaco di Acate, professor Francesco Raffo, che, unitamente alla giunta comunale (presente al completo all’evento oltre al presidente del Consiglio Comunale e a numerosi consiglieri, sia di maggioranza che di minoranza), ha voluto assicurare il patrocinio dell’Ente Comune alla manifestazione culturale.

Visibilmente emozionato, il primo cittadino ha brevemente ricordato la figura del direttore Carrubba, definendolo “un preziosissimo collaboratore per la ricchezza dei suoi suggerimenti politico-amministrativi”, con un chiaro riferimento al periodo in cui entrambi si ritrovarono ad operare politicamente, Raffo nella veste di sindaco di una amministrazione di centrosinistra e Carrubba in quella di suo vice ed assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione.

Non sono mancate, poi, parole di elogio anche per la signora Iemmolo definita, sempre dal sindaco Raffo, “insostituibile protagonista della vita culturale acatese”. Quindi il primo cittadino ha tenuto a mettere in risalto l’importante ruolo del Castello dei Principi di Biscari, “vero e proprio tempio della cultura e quindi sede naturale per ricordare ed omaggiare personaggi, che hanno dato lustro alla città di Acate”.

Un breve ricordo sull’esperienza comune, vissuta quali componenti dell’apposito comitato, istituito in occasione della traslazione delle spoglie di San Vincenzo Martire, è stato tracciato dalla Delegata alla Cultura e Pubblica Istruzione, insegnante Immacolata Licitra.

Il professore Antonio Cammarana ha presentato un dettagliato profilo biografico di Gabriele Carrubba, partendo dalla sua esperienza adolescenziale fino agli ultimi anni della sua vita, percorrendo le tappe fondamentali dell’ attività lavorativa, culturale, politica, sociale al servizio della comunità acatese.
L’ultimo percorso doloroso dell’esistenza del direttore Carrubba è stato ricordato dal cognato, l’insegnante Biagio Mezzasalma. “Un tragico momento vissuto sempre con dignità, senza mai abbattersi, ma rifugiandosi, al contrario, negli affetti della famiglia e nelle attività culturali e letterarie della figlia Maria Teresa. Suo unico rammarico quello di non poter leggere personalmente le opere della figlia a causa delle sue ormai precarie condizioni di salute”.
“Un personaggio ed un cittadino esemplare che ha dato tantissimo alla sua Acate, di cui andava estremamente fiero ed orgoglioso”. Queste le parole iniziali dell’intervento dell’altro cognato, il professore Gaetano Masaracchio, il quale ha concluso dicendo che “Gabriele era un galantuomo. Per il suo carattere mite, che lo contraddistingueva, egli rappresentava non solo la saggezza, ma la mitezza personificata”.
La lunga militanza politica del direttore Carrubba, nelle file del Partito Socialista, è stata ricordata dal giornalista pubblicista Salvatore Cultraro, che ha definito l’illustre concittadino, “un alfiere della pace”.
Il ricordo del direttore Carrubba si è concluso con la commovente lettura del commiato in occasione dei funerali, che la professoressa Giovanna Laura Longo ha definito:” Una pagina sublime di cristiano commento, di rara bellezza e di intensità emotiva, quella che il reverendissimo Parroco don Rosario Di Martino rivolge a Gabriele Carrubba per affidare alla memoria il legame profondo che lo ha unito alla sua famiglia, per la quale ha profuso tutta la sua carica affettiva, insieme ad Ada, la compagna della sua vita; i tratti esemplari che ha lasciato alla comunità; il ricordo del suo essere stato padre, amico, fratello, compagno, ma soprattutto per chiedere alla tenerezza di Dio di accogliere, nella sua infinita Misericordia, l’anima di un Giusto alla fine del suo cammino terreno. Un commiato dal pathos trascinante e sofferto, che, con la levitas della parola, porta conforto ai suoi cari e trasmette vere ed autentiche emozioni, che toccano il cuore di tutti”.
Prima di passare alla consegna materiale del premio a Maria Iemmolo, due sue ex alunne hanno voluto ricordare brevemente la figura della loro amata maestra. Per l’insegnante Biagia Gravina, che si è definita con orgoglio una delle prime alunne, la Iemmolo è stata “una educatrice rigorosa, ma allo stesso tempo tenera e gentile, sempre pronta a far sue nuove esperienze didattiche e percorsi educativi alternativi”. “Da lei ho imparato la grinta e la determinazione, la forza di raggiungere gli obiettivi al di la delle barriere, al di la delle difficoltà”, ha invece sottolineato l’altra alunna, l’insegnante Biagia Lima. “Oltre che di conoscenza, la maestra Iemmolo ci nutriva di vita ed i suoi insegnamenti ho cercato di trasmetterli sempre ai miei figli”.
Quindi si è proceduto alla consegna alla maestra Maria Iemmolo del “Premio Gabriele Carrubba”, consistente in un’ artistica targa. Anche l’Amministrazione Comunale ha voluto donare alla signora maestra un gentile pensiero consistente in un omaggio floreale offerto dal sindaco Raffo. Visibilmente commossa per le manifestazioni di affetto e di stima, la Iemmolo, dopo aver ringraziato gli organizzatori della manifestazione, ha rivolto affettuose parole “al carissimo amico di sempre Gabriele” ed un elogio alla figlia Maria Teresa per la sua produzione letteraria. Quindi, dopo aver simpaticamente scherzato sulla sua “novantennale” esperienza ed attività, ha concluso il suo intervento con una pillola di saggezza: “Una maestra può insegnare a leggere e a scrivere, ma questo possono farlo tutti. La cosa difficile, invece, è contribuire a far crescere dei futuri cittadini e per fare ciò bisogna metterci il cuore”. A conclusione della serata, la famiglia Carrubba ha voluto ringraziare tutti i relatori, consegnando loro una pergamena ricordo.

Antonio Cammarana
Salvatore Cultraro

“PREMIO GABRIELE CARRUBBA” – 1 Edizione
Castello dei Principi di Biscari – sabato,19 aprile 2014 – ore 18
Intervento prof. Antonio Cammarana
Gabriele Carrubba: biografia

Il 24 luglio del 1925, a Biscari, da Giovanni Carrubba (intarsiatore del legno) e da Teresa Berrafato (ortopedica del popolo), secondo di tre figli, nasce Gabriele.
Fin dall’infanzia dimostra di avere un carattere forte ed estroverso, una intelligenza intuitiva che lo fa apprezzare, negli anni della scuola elementare, sia dal maestro Giuseppe Leone, sia dal poeta Carlo Addario, che nutriranno per Gabriele affetto e stima durature, invitando i genitori a far proseguire negli studi il ragazzo in cui hanno colto capacità intellettuali e desiderio di conoscenza.
La Seconda Guerra Mondiale dà, però, un corso diverso all’esistenza di Gabriele. Il padre viene fatto prigioniero in Africa, il fratello Giovanni, già nel corpo di polizia, viene chiamato alle armi. Sulle spalle di Gabriele, appena adolescente, cade il peso del sostentamento di una famiglia allargata, costituita dalla madre, dalla sorella Maria Rosa, dagli anziani nonni, che non godono di alcuna pensione.
Già accolto nell’Ufficio Postale di Biscari, che, nel frattempo, su proposta di Carlo Addario, dal 1938 ha preso il nome di Acate, Gabriele, per le notevoli doti di telegrafista, accetta pure di fare i turni di notte nel medesimo ufficio; perché qui può arrivare, in qualsiasi ora, dall’aeroporto di Comiso, tramite il telegrafo, il segnale di allarme delle incursioni aeree inglesi ed americane. Ricevuto il segnale Gabriele, per mezzo di un campanello, trasmette a don Pietro Ravidà il pericolo imminente e don Pietro, suonando le campane, invita la popolazione a mettersi al riparo.

Negli anni ’60 Gabriele vince il concorso di Direttore d’Ufficio Postale e dirigerà nell’ordine gli uffici di Fiumedinisi, di Scoglitti, di Niscemi e di Comiso, lasciando sempre un ricordo di professionalità, di competenza e di umanità.
A Fiumedinisi ritornerà con la memoria la figlia Maria Teresa, dando alle stampe il quaderno “Il cuore delle donne , il cuore di mia madre”, in cui traccerà un vivo e toccante ricordo sia di quella terra, sia di persone e cose.

Sentendo il desiderio di dare sempre il meglio al suo paese, anche nella terza età, Gabriele, ormai in pensione, vive all’insegna di una partecipazione attiva e costruttiva nel campo culturale sociale politico.
E’ tra coloro che progettano e realizzano il nuovo Plesso Scolastico di via Neghelli, intitolato nel 2011 al poeta Carlo Addario; l’illuminazione di via del Carmelo dall’angolo di via XX Settembre alla Piazza Francesco Crispi; l’acquisto del Castello dei Principi di Biscari, in seguito restaurato ed aperto al pubblico.
In qualità di assessore alla cultura dedica cure particolari alla Biblioteca Comunale “Enzo Maganuco”, promuovendo l’acquisto di testi, nonché la realizzazione di progetti e di attività culturali.
Come membro del Consiglio Pastorale un ruolo di prim’ordine ha nella vita della Parrocchia “San Nicola di Bari”, facendosi sempre portatore di proposte importanti quali l’acquisto della campana della Chiesa Madre, il restauro e il riordino della Chiesa di San Vincenzo.
Non a caso il nostro Parroco Don Rosario Di Martino, che Gabriele affianca costantemente nel corso degli anni, gli concede l’onore di consegnare al Vescovo Monsignor Angelo Rizzo, la chiave della chiesa stessa in occasione della Consacrazione avvenuta nel 1992.
Con la stessa forza d’animo con la quale era vissuto, affronta con serenità i mali che lo assalgono nell’ultima parte della sua esistenza e le prove durissime a cui il suo corpo deve sottostare e che sostiene (credo di non esagerare dicendo che “stoicamente” sostiene), avendo parole di coraggio per coloro che, a lui vicino, per lui hanno parole di conforto.
Serenamente consegnandosi nelle braccia del Padre Celeste, che tanto in opere gli aveva fatto realizzare e che tanto in sofferenza gli aveva chiesto di sopportare.

Antonio Cammarana

 

 

La figura di Ipazia, la prima donna scienziato assassinata.

Ipazia

All’inizio del terzo millennio 190 Stati membri hanno chiesto all’UNESCO di “creare un progetto internazionale”, che favorisca “piani scientifici al femminile”, per realizzare “un migliore equilibrio nella partecipazione di entrambi i sessi alla scienza e al progresso”. Questo progetto internazionale è stato chiamato dall’UNESCO con il nome di IPAZIA. Ma chi era Ipazia?
Ipazia (370 – 415 d.C.) fu la prima donna scienziato barbaramente assassinata da una turba di monaci fanatici nel marzo del 415 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Per Ipazia, che da sempre rappresenta, secondo Margherita Hack, “il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza”, il prof. Antonio Cammarana ha scritto “Ipazia, fiaccola della conoscenza”.
Fonti antiche – sia di tradizione ellenica, sia di tradizione bizantina, sia di tradizione alessandrina, sia di tradizione cristiana – concordano nel dire che IPAZIA fu donna di rara bellezza, di grande saggezza, di eccezionale intelligenza; che fu astronoma, matematica, filosofa; che realizzò l’astrolabio, l’idroscopio, l’aerometro; che – come leggiamo nella voce biografica della SUDA (o SUIDA, lessico enciclopedico bizantino, secolo X) – fu autrice (anche se delle sue opere non è rimasto nulla) del Commento all’Aritmetica di Diofanto, del Commento alle Coniche di Apollonio di Perga, del Canone Astronomico; che dall’ideale classico dell’educazione acquisì autocontrollo, franchezza, imperturbabilità nell’eloquio, diventando una maestra del modo di vita ellenico (hellenike diagoge), mai in contraddizione violenta con il rispetto delle opinioni altrui, nel quadro di un equilibrato pluralismo, che risaliva alla tradizione dell’antica AGORA’ greca.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nel 370 d.C. Dal padre, il matematico Teone, che curò il Commento all’Almagesto di Claudio Tolomeo e l’edizione degli Elementi di Euclide, fu iniziata agli studi di Matematica e di Filosofia; e, ben presto, più ricco di quello di Teone, si rivelò il di lei pensiero, sul piano filosofico e sul piano scientifico, tanto da diventare la degna erede della sua dottrina e della “Scuola Alessandrina, la più importante comunità scientifica della storia, dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo e tutti i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale” (Petta, 2009).

Ipazia teneva le sue lezioni in sedute pubbliche (DEMOSIA) e insedute private (IDIA). Sedute pubbliche erano quelle legate alla sua pubblica cattedra nella rinata Scuola del “Museo”; sedute private erano quelle che Ipazia teneva nella sua abitazione, situata a non molta distanza dal Centro cittadino, ad una ristretta cerchia di alunni, che facevano parte del suo circolo esoterico – “l’elite dei suoi discepoli” – figli dei rappresentanti sia della classe dominante, sia della classe governativa della città. Oltre ad impartire lezioni pubbliche e lezioni private, Ipazia portava l’insegnamento fuori della scuola, tra la gente, per le strade della città; e indossava il TRIBON (nell’antichità il mantello filosofico tout court); che, in età protobizantina e tardoantica, non era più il mantello di ruvida cappa grezza da portarsi sulla nuda pelle, già comune ai filosofi di varie scuole e agli Spartiati della società spartana, ma una veste ufficiale, protocollare, che ricadeva fino ai piedi (Ronchey 2010).

Una scelta di vita, quella di Ipazia, definita da Luciano Canfora, nella sua “Storia della letteratura greca” (2001), una scelta maschile, di un ruolo tradizionalmente maschile, che si configura come sfida dell’establishment cristiano e radicale rottura della tradizione. Non solo. Ipazia é una donna, che rifiuta di annullarsi ed anzi si mette a fare un mestiere degli uomini (predicare alla gente) pur essendo, appunto in quanto donna, lo strumento del peccato e di perdizione che tanta letteratura patristica ravvisa nel suo sesso. Inoltre Ipazia è accusata dagli ecclesiastici di influire negativamente sul prefetto imperiale Oreste, provocando diffidenza avversione inimicizia nei confronti del vescovo Cirillo.

Cirillo, diventato vescovo di Alessandria (412 d.C.), sa già che la partita per il potere si gioca tra la comunità cristiana, la comunità pagana e la comunità ebraica. Con il pretesto di vendicare un agguato notturno contro i cristiani da parte degli ebrei, il vescovo Cirillo usa i parabolani, monaci dei monti di Nitria (ad Alessandria sono la sua milizia privata) per aizzare il popolo cristiano all’assalto e al saccheggio delle case degli ebrei, i quali, spogliati dei loro beni, sono costretti a lasciare in massa la città. Alla dura protesta mandata a Costantinopoli dal prefetto augustale Oreste, il vescovo risponde con l’assalto al corteo del prefetto, che viene colpito alla testa dal monaco Ammonio, il quale, arrestato, morirà sotto tortura, ma di cui il vescovo tesserà l’elogio funebre, chiamandolo Taumasio, cioè il mirabile, offendendo apertamente il prefetto. Quando si rende conto che l’ala più moderata degli ecclesiastici si schiera dalla parte di Oreste, il vescovo chiede udienza al prefetto, portandogli in dono il libro dei Vangeli, ma Oreste non dà alcun segno di mettere da parte il suo risentimento. Così il contrasto tra il prefetto imperiale e il vescovo continua in modo più esacerbato di prima.

In questo clima di ostilità si colloca l’orribile fine di Ipazia, di cui il mondo tardoantico ci ha lasciato due fondamentali testimonianze: quella dello storico Damascio e quella dello storico Socrate scolastico. Secondo la prima il vescovo Cirillo, esasperato “alla vista dell’enorme folla, che si accalcava davanti alla porta di Ipazia per la SALUTATIO (visita di cortesia, omaggio), tramò la sua uccisione, crimine empio tra tutti i crimini (Canfora, 2001)”. La seconda testimonianza insiste sulla causa politica del crimine, fondata sul convincimento, da parte del clero di Alessandria e del vescovo Cirillo, dell’influenza di Ipazia sul prefetto imperiale d’Egitto, Oreste, e, di conseguenza, sulla persuasione del pericolo da lei rappresentato in una città inquieta e importante come Alessandria” (Canfora, 2001).

La spedizione per eliminare Ipazia è capeggiata da un certo Pietro, lettore della Chiesa di Alessandria. Pietro il lettore e una moltitudine di monaci parabolani aspettano il rientro di Ipazia da una delle sue pubbliche apparizioni; e, quando la donna ferma la sua carrozza davanti alla sua abitazione, la tirano giù in modo violento, la trascinano prima dentro la grande chiesa, chiamata Cesareo, illuminata da centinaia di lampadari a trilumi e dalle torce accese dai
monaci; poi davanti all’altare; quindi le strappano di dosso il mantello, le squarciano la tunica bianca e ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia non viene violentata. Secondo la terminologia pagana, Ipazia è sacrificata.
Secondo la terminologia cristiana, Ipazia è martirizzata.

Se Damascio chiama gli uccisori di Ipazia hoi sphageis, i macellai, gli immolatori, Socrate scolastico e Filostorgio usano il verbo diaspao, fare a brandelli, tecnico per indicare lo smembramento rituale della vittima (Ronchey 2010).

Nella sua “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88)”, lo storico Edward Gibbon afferma che “Ipazia fu disumanamente macellata dalle mani di Pietro il lettore, che le cavò gli occhi; e da quelle di una ciurma di selvaggi e di implacabili fanatici”, che servendosi di cocci taglienti di terracotta, prima le strapparono la pelle e la carne dalle ossa, poi la eviscerarono e la smembrarono, infine bruciarono ciò che rimaneva del suo corpo nel Cinerone della città di Alessandria.

La morte di Ipazia, nel V secolo dopo Cristo, non costituisce la fine di un’epoca, ma come avevano intuito sia Denis Diderot, sia Reneé Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia diventa una fiaccola della conoscenza, la cui luce illuminerà il cammino delle idee di altre donne, di altri uomini; fiaccola che arriverà all’Umanesimo con la centralità della “dignitas hominis” nel mondo; all’Illuminismo con la centralità della “ragione” come guida critica del pensiero e dell’azione dell’uomo; a tutte le altre correnti di opinione, che hanno fatto di Ipazia, come dice Margherita Hack, il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, un’icona della libertà di pensiero.

Antonio Cammarana

Ipazia, fiaccola della conoscenza
All’umanità: In ogni tempo, presso ogni luogo,
il male, anche se orribile, è preferibile subirlo, piuttosto che farlo.

A.C.