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La sala da barba


La sala da barbaIgnazio aveva frequentato la sala da barba non per apprendere l’arte e metterla da parte, ma perché la madre intendeva sottrarlo alle insidie e ai pericoli della strada. Dentro la sala e nel tratto di strada di fronte, zio aveva la possibilità di tenere Ignazio sott’occhio, osservando i sui movimenti e vigilando su di lui continuamente. Ignazio aveva il compito di sciacquare il pennello con l’acqua corrente, dopo che al cliente era stata fatta la barba; di spazzolare le spalle allo stesso dopo il taglio dei capelli; di dare alcuni colpi di scopa sul pavimento per eliminare la peluria sparsavi; di ringraziare il cliente dopo il pagamento del servizio.
Nel corso degli anni Ignazio vide barbe e capelli di tutti i tipi e non dimenticò mai che a partire del 1956 il taglio dei capelli e la rasatura della barba erano cinquanta lire, di cui trentacinque per i capelli e quindici per la barba.
Durante le festività natalizie e pasquali il tavolinetto, ‘ che di solito stava in mezzo alla sala con “La domenica del corriere” sopra in bella vista, veniva spostato in un angolo e il settimanale collocato in una sedia. Sul tavolinetto compariva, adorno di palline colorate e di fili d’oro e d’argento, un alberello di Natale che aveva al suo fianco, come scudiero, un vassoio sul quale cadevano, a seconda delle possibilità e della generosità del cliente, monete da cinque e dieci lire. Buona era la raccolta di soldi che terminava il giorno di Natale, più ricca quella di Capodanno, magra quella dell’Epifania.
A Natale e a Capodanno venivano distribuiti da zio piccoli calendarietti illustrati e profumati, frutto di un’accurata ed oculata selezione effettuata nel mese di novembre, quando nella sala, in tutte le ore del giorno, facevano la loro rapida apparizione i rappresentanti di questi almanacchi natalizi. Allora zio contava il numero dei clienti che aveva, li suddivideva a seconda delle possibilità economiche e dell’età di ognuno di loro, ordinava vari tipi di calendarietti: popolari, piccolo e medio borghesi, per professionisti.

In ognuno di essi vi erano raffigurate donne procaci e dive del cinema assieme ai giorni e ai mesi dell’anno. Verso la fine del 1950 zio distribuì calendarietti con donne in costume da bagno.
A Ignazio parve sempre straordinaria la rapidità con la quale zio prendeva dalla tasca oppure dal cassetto dell’armadietto a muro i vari tipi di calendari e come li facesse scivolare nelle tasche delle giacche e dei cappotti dei clienti, per non fare notare la disparità dell’omaggio, che dipendeva dalla generosità delle monete che cadevano sul vassoio delle mance, dalla condizione sociale e dall’età del cliente.
Ogni anno a Ignazio toccavano gli spiccioli, la parte “più congrua andava al primo aiutante, l’equivalente della spesa per acquistare i calendarietti nelle tasche di zio. Ma era bello il clima di attesa che veniva a crearsi attorno alle mance natalizie per quello che potevano fruttare in denaro. Eppure si trattava di poche migliaia di lire, che non avrebbero cambiato la condizione sociale di nessuno.

Dai ricordi d’infanzia di
Antonio Cammarana

Memory

Memory
Uscii di casa in ritardo, percorsi in fretta via Duca D’Aosta e arrivai finalmente all’interno della palestra all’aperto della Scuola elementare “Capitano Puglisi” di via Balilla. Trovai parecchi miei compagni di classe.
Due di essi parlavano animatamente non di quale cinema fosse migliore in paese, ma dei film che si proiettavano alla comunità. Erano i primi anni Cinquanta e la visione di un film in bianco e nero, in seguito anche a colori, affascinava grandi e piccini.
Di recente, il cineteatro Eden del commendatore Morale aveva proiettato “Guerra e Pace”, un film cinemascope e technicolor della durata di quattro ore con scansione in quattro tempi, tratta dall’omonimo romanzo storico dello scrittore russo Leone Tolstoj.
E uno dei miei compagni di classe ne magnificava l’eccezionalità per gli attori, per i colori, soprattutto per le scene che riscostruivano l’ambiente climatico e la catastrofe della Grande Armata di Napoleone Bonaparte sulla strada del ritorno da Mosca al ponte della Beresina al territorio europeo vero e proprio fino alla disfatta finale a Waterloo.
Ma non aveva fatto i conti con l’altro mio compagno di classe, che aveva la fortuna di potere vedere gratuitamente tutti i film che venivano proiettati al cinema di don Salvatore Castiglione sia d’inverno che d’estate. E che, come una mitragliatrice in piena azione di contenimento di un assalto alla baionetta di una trincea, cominciò a sparare a raffica titoli di film e contenuti in modo stupefacente. Da “Sansone e Dalila” a “La tunica” a “I dieci comandamenti”, da “I figli di nessuno” a “Roma città aperta” a “Catene”, pellicole che rappresentavano il momento “clou”, di massimo interesse al cinema Castiglione, quelle per cui si mandavano i ragazzini a chiedere alla moglie del titolare, donna Giovannina, se quella sera stessa si proiettasse un film di “cianciri”, cioè che faceva piangere.
Lei invariabilmente e puntualmente rispondeva: “Cà sicuru, dall’inizio alla fine” e “Purtati i seggi di casa, perché stasera (da leggere “come al solito”) i posti non basteranno”. Intanto arrivava il maestro, che, gridando e roteando la bacchetta, si sforzava di “raccozzare” (proprio come fa il Griso con i Bravi ne “la notte degli imbrogli” de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni) tutti gli alunni della classe, che si schieravano ora a favore di un compagno ora dell’altro. E finalmente, dopo essere stati messi in fila per due, uscivamo dalla palestra scoperta e ordinati e composti come bravi soldatini entravamo nell’edificio scolastico dal portone di via Balilla, lasciando alla nostra sinistra una schiera di alunni che cantavano – musicato da Giacomo Puccini tre anni prima dell’avvento del Fascismo – “L’inno a Roma”: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”.
L’Italia stava uscendo faticosamente dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale; contadini braccianti agricoltori faticavano, dall’alba al tramonto del sole, nei campi, con zappe e aratri, muli cavalli e asini. Eppure l’inno a Roma, esaltazione e celebrazione dell’Urbe (la città per antonomasia), era ancora lì – nella scuola elementare di via Balilla – a ricordare alla neonata nazione democratica (1946) le antiche origini di romano popolo guerriero di tradizione regia repubblicana e imperiale, inno che mi spinge oggi – 28 aprile 2014 – oggi, che sono ritornato indietro nel tempo con la memoria, in odore di malinconico Amarcord, a pormi una domanda perentoria e che non ammette più dilazioni:
“Quando è finito veramente il Fascismo ad Acate – antica Biscari?”
Si affacciava, intanto, siamo nel 1953, nella vita del paese – che assisteva alla grande ondata migratoria nelle regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) – un potentissimo strumento di unità civile e culturale (ma non solo) delle genti italiane: la televisione, che, nei suoi primi anni di vita, ebbe anche un ruolo di positiva azione educativa e didattica, contribuendo ad eliminare una parte notevole di analfabetismo con programmi come “Non è mai troppo tardi”; e che radunò e inchiodò allo schermo televisivo milioni di persone con le puntate settimanali del capolavoro di Alessandro Manzoni, “i Promessi Sposi”; con i programmi pomeridiani dei ragazzi di “Zurlì, mago del giovedì”; con le serate del “Lascia o Raddoppia” di Mike Bongiorno; con “La domenica sportiva”, che di sera aggiungeva le immagini alla semplice radiocronaca pomeridiana di “Tutto il calcio minuto per minuto”, che immancabilmente si concludeva con lo spot pubblicitario: “Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock; se la squadra del vostro cuore ha perso, consolatevi con Stock. Stock 84, il signore si che se ne intende”; con la tribuna politica diretta da Jader Iacobelli.
Ricordo che il locale al chiuso del cinema di don Salvatore Castiglione, per tutto l’inverno e parte della primavera, a mezzogiorno, funzionava come mensa scolastica per gli alunni delle famiglie bisognose di Acate, mensa da tutti conosciuta come “la refezione”; di sera, diventava sala cinematografica al coperto; per tutta l’estate e parte dell’autunno, per mezzo di uno schermo gigante in pietra, intonacato di bianco e innalzato nella palestra all’aperto attigua alle Scuole elementari e al Collegio delle suore, si trasformava in Arena Castiglione.
Il cinema di don Salvatore Castiglione, il cine-teatro Eden del commendatore Morale e l’Arena argentina dell’ingegnere Traina
riempirono i miei spazi vuoti serotini degli Anni Cinquanta e Sessanta. E io non dimenticherò mai una sera dell’estate del 1962, quando venne proiettato “Il pozzo e il pendolo”, un film del 1961, diretto da Roger Corman e tratto da un racconto di Edgar Allan Poe.
Nel silenzio dell’oscurità, tutto preso dalle scene del film, un vero classico del terrore e dell’orrore, mentre una mano insanguinata spuntava da una tomba, spostando lentamente la lastra di pietra che la ricopriva, per la paura e per l’emozione, accesi maldestramente una nazionale esportazione dalla parte del filtro e cominciai a tossire fortemente e ininterrottamente. Ad un certo punto, nel silenzio, rotto soltanto dai colpi di tosse, si levò una voce acida e risentita: “A ci ni sunu miegghiu di tia o spitali!”, che trasformò un ambiente attentissimo alla visione e all’ascolto in un luogo di bassa ilarità e di rumorose flatulenze.
A partire però dalla proiezione di film di un certo spessore culturale quali “West side story”, “Scandalo al sole”, “I due volti della vendetta”, “I magnifici sette”, “Assassinio sul treno”, il cinema Morale attrasse come una calamita il gruppo di amici che si era costituito attorno a Pippo Puglisi, a Rosario Manusia, a Gigi Albani, a Carmelo Pinnavaria (Dollar Man), quest’ultimo da tutti chiamato “il professore”, perché, fin dalle prime sequenze di un film giallo, indovinava chi fosse l’assassino.
Il gruppo era attratto soprattutto dal film del giovedì, quasi sempre un giallo, che i fratelli Morale non facevano mai mancare in quel giorno settimanale, anche se (come spesso accadeva) lavorassero per niente, essendo equivalenti per loro la spesa e il ricavo.
Il gruppo evitava (con la mia sola eccezione), le proiezioni della domenica, seguite da vere e proprie fiumane di persone di tutte le età che, per almeno quattro ore di seguito, seguivano il cinegiornale della settimana Incom, le reclame, il primo e il secondo film, spizzicando simenta e calacavisi, e ruminando fave abbrustolite e pastiglie secche, infine raschiando la gola con bottiglie di gassosa e dissetanti caramelle carrubba.
In seguito avrebbe preso piede ad Acate il cinema del professore Vincenzo Lantino, con elegante galleria e accogliente tribuna, ma io potei apprezzare poco sia la bellezza del locale, sia i film che vi si proiettavano.
L’iscrizione all’Università di magistero di Catania mi allontanò a poco a poco, ventenne, dalle sale cinematografiche di Acate; come la frequenza dell’istituto magistrale mi aveva già allontanato, ancora quattordicenne, dal campo di calcio, in cui non avevo intravisto alcun futuro.
Rimaneva la televisione, che, dopo preadolescianziali entusiasmi, cominciai a trascurare, considerandola una monotona trasmissione di programmi e notizie, che spersonalizzavano lo spettatore conformandolo alla piattaforma ideologica del potere. Buona, comunque, per pappagalli politici e professoricchi ripetitori, che comunicavano, nella loro rampante ascesa, concetti e nozioni sulla scia del manovratore di turno rosso bianco o nero.

Antonio Cammarana

Era la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive

Via Duca D'Aosta - AcateQuando alle sue orecchie arrivarono soltanto miagolii di gatti e abbaiare di cani, Ignazio si alzò per fumare una sigaretta all’aperto nella strada parallela al Corso. Fuori non faceva freddo, né spirava vento.
A Ignazio il paese parve immerso dentro la profonda notte, prima che nel sonno: una notte, che l’immenso cielo scuro apparentava al vasto “mare nero”, nelle cui acque culturali aveva vissuto la lunga veglia del ghetto.
Le casette a pianterreno di fronte alla sua appartenevano alla famiglia di Ignazio e degli zii paterni da oltre un secolo e conservavano un aspetto ostinatamente storico e malinconicamente decadente.
Alla sua sinistra Ignazio osservò la casa adibita a deposito di carrube, la cui porta e la cui finestra venivano intonacate di gesso per impedire al fortissimo odore di espandersi per l’abitato circostante. Essa non conteneva più quintali di carrube come nel passato, ma ospitava decine di gatti che vi avevano fissato la loro residenza notturna, nei mesi invernali, per via di un considerevole buco mai riparato nella porta d’ingresso e che, quando la temperatura scendeva sotto lo zero, levavano al cielo prolungati lamenti. Ignazio ricordò le sere di fine estate in cui, davanti a quella casetta, si fermavano bestie e carri con sacchi pieni di carrube che, una volta vuotati, avrebbero formato un mucchio largo quanto il pianterreno che, giorno dopo giorno, copriva le pareti e, alla fine, toccava il tetto e la cui porta, dopo essere stata chiusa, era aperta nel tempo in cui i sensali giravano per il paese come avanguardia di trattativa economica dei commercianti.
Allora, non molto tempo dopo aver fissato un accordo sul prezzo e avere ricevuto la caparra, arrivavano i camion e veniva chiamato il vigile urbano che, con tanto di cappello e di divisa di uomo della legge, impediva il passaggio ad autovetture e carri lungo la strada ed era portato fuori il bilico e, per tutto il giorno, era un insaccare e un pesare carrube e la sera, quando i mezzi di trasporto carichi di prodotto andavano via, la madre e le zie, in cucina, contavano i denari di carta di ferro e di alluminio, che avrebbero permesso alle loro famiglie di guardare con fiducia i giorni a venire, ringraziando ancora la benevolenza del cielo e la grazia di Dio per non avere abbandonato le loro campagne e le loro case.
Accanto alla casetta delle carrube c’era la dispensa. Continuavano a chiamarla così perché, fino al primo governo Giolitti, aveva ospitato enormi botti di vino, in parte bevuto, in gran parte venduto. Trasformato – in seguito all’arrivo della fillossera, che aveva distrutto le viti della contrada e della contea – il vigneto in mandorleto e uliveto, soltanto una botte capace e una di più ridotte dimensioni rimasero nella dispensa, testimoni mute di un tempo e di un luogo ove Bacco aveva dimorato a lungo.
Nei mesi di luglio e di agosto l’antica dispensa diventava luogo di deposito di quintali di mandorle. Qui si fermavano, infatti, come ultima meta, a mezzogiorno e di sera, asini stracarichi di sacchi di mandorle, dopo l’abbacchiatura e la raccolta nei campi. A togliere le bucce, che ricoprivano la scorza e il frutto, lavoravano tutti quelli che, delle famiglie, rimanevano in paese: Ignazio, la madre, le zie, i cugini.
Dall’alba al tramonto prima sbucciavano le mandorle al fresco, poi le stendevano al sole come lenzuola color terra, perché il frutto dentro la crosta si asciugasse per bene e non ammuffisse, per poter essere venduto.
A intervalli di un’ora, Ignazio il cugino Rosario e il cugino Luigi, a torso nudo, il fazzoletto in testa e il tridente in mano, in tutto simili a solari Poseidoni, andavano a smuovere il prodotto affinché i raggi infuocati di Elios lo penetrassero da tutte le parti. Intanto Ignazio cantava: “Suli ca spacchi i petri da chianura, suli c’abbruci l’ossa c’a calura…”. Quando l’ardente morso del sole cominciava a far posto alla dolce ombra, che lentamente calava sui marciapiedi, delle mandorle si facevano grandi mucchi che, in capaci canestri e corbelli, si portavano nella dispensa. Ora che la madre e le zie si ritiravano in casa per cambiarsi d’abito e preparare la cena, iniziando a far bollire l’acqua nella tannura, Ignazio e i cugini spalavano il marciapiede dalle bucce, che il mattino seguente sarebbero state disperse nei campi.
E mentre si aspettava l’ultimo carico di mandorle e l’aria tutt’intorno si faceva più fresca, Ignazio spendeva il tempo a giocare con i compagni nella strada e, quando da lontano – con l’ultima lama di luce, che stava per essere sopraffatta dalle serali sfumature del grigio e del nero – vedeva il padre con i fratelli, i contadini e gli animali, che portavano gli ultimi sacchi, correva loro incontro, mandando al cielo grida di gioia: il padre lo metteva a sedere sopra il dorso peloso e sudaticcio di una bestia, compensando, in tal modo, una non lieve giornata di lavoro del suo ragazzo.
E Ignazio era felice di fare ritorno a casa sopra un asino o un cavallo per un centinaio di metri. Così passava l’estate. Tutta intera.
Ma giorni restavano ancora – prima dell’inizio dell’anno scolastico – a Ignazio e ai suoi compagni per sognare inesistenti vacanze al mare in montagna in collina in compagnia di femmine belle e di molta carne. E, poi, quando finivano i sogni, l’ultimo scampolo di solleone si trascorreva andando a caccia di verdi lucertole e di neri calabroni e di variopinti serpentelli d’acqua e di macchia.
Ed ore si vivevano all’aperto, sdraiati per terra, ora fissando l’orizzonte di un azzurro assoluto, ora ascoltando il respiro del vento e i frullii degli uccelli, ora sotto l’effetto di soporiferi oppiacei che spontanei crescevano su lunghi steli come piccoli melograni, ora rotolando come umani cilindri – davanti all’occhio indifferente dei cercatori di creta – giù per le oblique scarpate fin nell’incavo di grandi valloni, per risalire contusi e laceri lungo le nascoste serpentine percorse da antichi briganti e ladri di passo in affannosa fuga da uomini di legge e compagni d’armi.
Granchi si cercavano ancora nei punti in cui – come paesaggio di antiche leggende – diventava torrentello il letto del fiume.
Per ricevere alla fine, sulla groppa, un sacco di colpi di scopa a ogni tocco di campana di mezzogiorno, quando, simili a merdosi strapazzieri, la comparsa si faceva di fronte all’uscio di casa. Ma, allora, si era spensierati e un pezzo di pane casereccio con un coccio di zucchero era già un lauto pasto e faceva la gioia anche di quelli che, come Ignazio e i suoi familiari, nel paese, vestivano di nero. Ed erano tanti.Ignazio osservò, poi, il garage: piccolo, bastava appena per una “Topolino”.
Alla sua destra c’era un altro garage della stessa estensione del primo. I due posti macchina, nel passato, erano stati la stalla di animali che, con lavoro non sempre onesto, si erano guadagnati avena e fieno come razione quotidiana e carrube come supplemento straordinario. La stalla aveva avuto una comoda mangiatoia alta a petto d’asino, capace quanto una vasca da bagno di grande dimensione, un solaio sempre ripieno di fieno, un pavimento in terra battuta immancabilmente condito di paglia e cacata.
Decine di asini e di cavalli vi si erano succeduti, secondo il principio adottato dai padroni di comprare un asino se il cavallo acquistato in precedenza si fosse dimostrato stracco, e di non avere mai un mulo perché poteva tirare calci traditori. Non tutti i cavalli si erano dimostrati valorosi nel lavoro, spesso lasciando nei guai i loro proprietari.
Si raccontava di un cavallo di aitante aspetto un episodio che a lungo fu pretesto di ilarità generale. Si era ad ottobre inoltrato, si abbacchiavano e si raccoglievano le olive per portarle al frantoio del paese. Verso sera al cavallo era stato attaccato il carro carico di sacchi e ci si era messi sulla via del ritorno, quando si scatenò un violento temporale, che colse cavallo carro e padroni ancora sulla trazzera. L’animale piegò le ginocchia e non si mosse, nonostante la
tempesta di nerbate che gli si arrovesciava sulla groppa e rischiava di mandarlo all’altro mondo. Rivelatesi inutili anche le imprecazioni e la botta di sancu latru puorcu e assassinu, che uscivano dalle bocche dei padroni che la malaventura rendeva luciferini, si dovette spaiare il cavallo dal carro e, con l’aiuto di parecchi contadini, spingere carro e bestia fino in paese, per non lasciare marcire le olive a causa della pioggia. Ma se la roba fu salva, la reputazione del cavallo e il buon nome dei proprietari andarono in malora. Per anni, anche quando non c’era più, si continuò a parlare di un cavallo tanto fiacco che, ogni sera, dai padroni veniva portato in paese sopra il carro sotto la pioggia. Il cavallo fu messo in vendita e una mattina fu appiccicato a dei forestieri di passaggio, che, del tutto ignari della sua fama, lo portarono dalle loro parti.
Si fece festa, la sera, con il ricavato e si bevve il vino della botte piccola e si andò a letto felici di aver concluso un buon affare. Ma l’indomani mattina, alle prime luci dell’alba, quando il padre di Ignazio uscì di casa per chiamare i fratelli, si ritrovò, davanti alla stalla, il cavallo del buon affare, i compratori del giorno prima e diversi compari di rinforzo con intenzioni non pacifiche. Il cavallo, messo al tiro, si era dimostrato buon incassatore di bastonate, ma cattivo lavoratore, per cui era stato riportato ai suoi vecchi padroni che, vista la mala parata, lo ripresero per venderlo ad altri ignari offerenti.
Ora che il padre di Ignazio e anche i suoi fratelli hanno lasciato per sempre questo mondo, portandosi via un pezzo di storia della comunità – che viveva dei prodotti della terra e che il lavoro l’onestà e il rispetto della legge rese simile all’età dell’oro dell’umanità; ora che il mandorleto è morto e produttivi di miseria sono il carrubeto e l’oliveto; ora che due grigi posti macchina in cemento hanno assassinato la calda stalla dal muro sbrecciato, il vecchio solaio ricco di paglia e fieno e la mangiatoia alta a petto d’asino, rimane il ricordo della via Duca d’Aosta come la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive.Intanto anche la luna era sparita e il buio si era fatto più fitto, e il fresco pizzicava a Ignazio le braccia e il petto.
Come alla fine di un lungo incanto, Ignazio si trovò solo in mezzo alla strada, perplesso, un po’ infreddolito.
La notte aveva favorito il recupero di un altro spicchio di memoria di uomini e cose del mondo lontano, consentendo a Ignazio di vincere, ancora una volta, non tanto la guerra o una battaglia quanto una scaramuccia contro l’oblio, che profonde crepe scava al sentiero del nulla.
Fino a quando Mnemosine – sposa di Zeus, madre delle Muse, soprattutto dea della Memoria – dall’alto del suo lontanissimo regno, concederà a Ignazio il suo conforto, donandogli uno stilo e un rotolo di carta su cui scrivere, per continuare a fare bottino di schegge di luce del tempo che fu?

Antonio Cammarana

 

Una sera

una sera del passato AcateLa sera è scesa all’improvviso, portando via dalla piazza i crocchi di contadini, che si sono fatti vivi in cerca di lavoro nel latifondo. E il calzolaio, che tiene pure scarpe per chi ne può comprare, spegne la lampada del negozio; e il giornalaio, che, all’inizio di ottobre, s’improvvisa libraio per gli alunni delle Elementari e delle Medie, chiude le imposte.
Nel Corso vedo soltanto coloro che dal vizio del fumo sono spinti verso la rivendita di “Sali e tabacchi”, che, a quest’ora, tiene aperta soltanto mezza porta. Poi non scorgo più nessuno; anche i cani – che hanno sostato a lungo davanti alla carnezzeria nella speranza di potere addentare qualche osso – a causa dell’insoddisfatta fame, gagnolando, vanno appresso all’odore di carni varie, che emana dalla pelle e dal pastrano del macellaio, che lascia la bottega e ritorna lemme lemme a casa.

Ora che il buio si fa più fitto, mia madre viene a chiudere le finestre, accende le lampade, sparisce in cucina. Ciò facendo, mia madre non sa di che cosa mi priva. Fin quando io osservo il buio da dietro i vetri, esso non mi fa paura. Non vedendolo più, vivo nel timore che esso mi soffochi, stritolandomi assieme alla mia casa.

Pure oggi ho atteso l’arrivo di questo messaggero della notte con ansia crescente, da quando ho finito di fare i compiti. D’inverno esso giunge di colpo e porta con sé la tenebra, che copre di nero persone e cose. E ora che mia madre ha sprangato le imposte, io vado a sedere vicino a uno spigolo del tavolo appoggiato al muro della sala da pranzo: così almeno creo l’illusione di proteggermi dall’urto della tenebra, che di già circonda la mia casa.

E aspetto.

Attesa vana non è la mia, né lunga: silenziosa mi raggiunge la paura, in punta di piedi insinuandosi nel mio corpo fino a farlo fremere come quello di una persona, che soffre a causa del freddo intenso. Dalla cucina, intanto, vengono delle voci, che mi fanno riprendere il contatto con la realtà. E’ arrivato mio padre, dopo una giornata trascorsa in campagna: possediamo un appezzamento di terra non molto distante dal paese e lui, dall’alba al tramonto del sole, segue il lavoro di alcuni contadini presi a giornata. Io vorrei correre dal mio vecchio, salutarlo, abbracciarlo. Sentire il suono della sua voce mi libererebbe da questa stretta, che mi farà uscire di senno. E, però, non posso farlo, perché mio padre mi permette di avvicinarmi a lui soltanto all’ora di cena.

Fuori, frattanto, il buio si è fatto più fitto e la tenebra starà serrando in una morsa la mia casa. Il mio cuore batte forte. La mia paura cresce ancora, s’ingigantisce, diventa sgomento, angoscioso spasmo del corpo e della mente, animo che si decompone.

E’ terrore panico il mio?

Mi sento avviluppato come in una spirale, che mi trascina verso l’orlo di un abisso! Mi faccio piccolo piccolo, premo il petto contro il tavolo, solo ora mi accorgo che sopra di esso c’è il tappeto di velluto rosso brillante che prediligo. Questo colore così vivace mi sarà di qualche aiuto?

C’è tanta nebbia nella mia testa! Tanta nebbia, che ora s’infittisce, ora si dissolve, ora s’addensa, ora si dirada, Che cosa può essermi successo? Chi mi ha derubato del pensiero, della memoria, dei sogni? Chi ha privato la mia vita di ogni bellezza futura? Ora che non riesco a muovermi come gli altri, un uomo e una donna molto avanti negli anni mi portano in giro per la casa sopra una sedia a rotelle e, quando fuori si fa buio, mi sistemano dietro la finestra, che, da tanto tempo, ha le imposte aperte giorno e notte. Dietro i vetri, io vedo l’alba spuntare e la sera scendere, la luce del giorno e l’oscurità della notte e m’addormento con dolcezza, quando il sonno vince le mie ore di veglia. Non so dire chi siano la donna e l’uomo che si occupano di me, anche se mi sembra di vedere i loro volti da sempre: volti familiari, dove scolpiti sono un dolore terribile e un infinito amore.

Antonio Cammarana
La morsa del nulla: linea ultima
dell’infamie trompeuse de la vie.

San Vincenzo, la Festa che fu

Acate Palio San Vincenzo 60

Acate – Corsa degli Anni Sessanta con cavalli appaiati, “Arisa”

La festa che Ignazio, da piccolo, prediligeva di più era quella di San Vincenzo martire, protettore del paese, perché andava avanti per diversi giorni.
Cominciava il venerdì, alle undici, dopo lo sparo di un mortaretto, con la fiera del bestiame; ma già, nei giorni precedenti, per le strade del paese, c’era grande movimento di animali (soprattutto asini, muli, cavalli) e di uomini:
tanti di questi ultimi indossavano pantaloni e giacche di fustagno, avevano fazzoletti rossi al collo, li chiamavano i “firuoti”, coloro che fanno affari in fiera.
Era uno spettacolo seguire da vicino – il venerdì e il sabato – le discussioni estenuanti dei venditori e dei compratori, che stavano in mezzo a quadrupedi che ora scalpitavano, ora defecavano, ora mandavano peti; non riuscendo, però, a capire se, dopo il lungo tira e molla sul prezzo, a guadagnarci o a rovinarsi fossero i venditori o i compratori. Ignazio mai era stato portato ad una fiera del bestiame, per timore che si prendesse un calcio di mulo; ma lui, la fiera, da un buon punto di osservazione, l’aveva potuto seguire: un’enorme macchia mobile grigio-scura, che si stagliava in quella zona bassa del paese (la contrada Fontanella), dalla quale il Castello dei Principi di Biscari appariva una linea difensiva arroccata su un picco, su un’altura, su uno sperone di roccia, come se dovesse proteggere ancora gli abitanti da un attacco nemico: i mai dimenticati saraceni o brandelli superstiti di truppa spagnolesca alla macchia o i lanzichenecchi di manzoniana memoria.
Il venerdì pomeriggio iniziavano pure le corse dei cavalli: cinque il venerdì, sei il sabato, otto la domenica, perché – alle sette di rito – se ne aggiungeva una (l’ultima) dedicata a San Vincenzo, con i cavalli che correvano appaiati e i fantini che, per tutto il Corso Indipendenza, si stringevano la mano.
Terminate le corse, all’imbrunire della domenica, la folla superava le transenne di corda e dai marciapiedi brulicava nel Corso. Sembrava la piena di un fiume di voci e di colori, che lo sparo di un mortaretto chiamava dalla strada principale al Piano San Vincenzo, dove sorgeva la Chiesa. Tante persone, paesani e forestieri venuti da centri vicini e lontani, dei mortaretti, all’uscita di San Vincenzo, sentivano soltanto l’eco; molte altre, del Santo protettore, vedevano soltanto il Fercolo d’oro splendente di luce, che – con due carabinieri ai lati e con il maresciallo, il sindaco, il parroco (le autorità militari, civili e religiose) davanti – veniva portato a spalla lungo il percorso stabilito. Tutte potevano osservare, anche se da lontano, due alti principeschi pesanti stendardi colore rosso e azzurro l’uno, colore avorio e verde l’altro, che aprivano la processione e che erano tenuti dritti da uomini che, pur nerboruti, rischiavano di procurarsi un’ernia.
Quando la processione scendeva dall’alto del Corso era accarezzata dal sibilo schioccante di decine di fiaccole che – come fontane ardenti di fuoco – da tanti balconi altoborghesi inondavano di luce e di fumo i larghi marciapiedi, che, in prossimità del Centro cittadino, avevano diverse bancarelle con bomboloni avvolti in carta rossa o verde, torrone bianco, gelato di campagna e zucchero filato.
Non mancando, in un angolo dei Quattro Canti, il rudimentale scaffale  dell’improvvisato libraio, che esponeva – tra gli altri – “I miserabili” di Victor Hugo, “Quo vadis?” di Enrico Sienkiewicz, “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre, nelle popolari e illustrate Edizioni Lucchi e Nerbini.
E, intanto, la banda del paese, rinforzata da un corpo musicale fatto venire, per la ricorrenza, da una città vicina, intonava marce sinfoniche, che aprivano il cuore a sentirle; mentre il rumore di migliaia di piedi faceva da sfondo sonoro alla processione dei fedeli, che accompagnava San Vincenzo fino alla Chiesa sia per devozione, sia per assistere allo spettacolo dei fuochi d’artificio, che fu sempre impressionante, vuoi in tempo di vacche grasse, vuoi in tempo di vacche magre, tanto con le amministrazioni comunali garibaldine, quanto con le amministrazioni comunali degasperine. Tornando a casa stanchi, si diceva che ne era valsa la pena; ma chi potrà mai dimenticare il patimento di coloro che, per voto, avevano seguito il Santo a piedi nudi?
L’indomani mattina, mentre gli uomini – tranne gli artigiani – andavano a lavorare, le donne camminavano ancora, per la fiera del lunedì, al Piano San Vincenzo e davanti al Castello dei Principi di Biscari, dove si concentravano i venditori di oggetti casalinghi, che esponevano, per terra, pentole piatti coltelli forchette e una gran varietà di oggetti di rame, di ferro e di alluminio. E c’erano pure le bancarelle, che facevano bella mostra del San Vincenzo a cavallo di creta con il fischietto.
Ignazio raramente si recava alla fiera del lunedì, considerando già tutto finito la domenica sera, dopo che San Vincenzo era rientrato in Chiesa e, per le strade, si respirava un residuo odore di polvere di mortaretti, di zucchero cotto e di carbone semiacceso, che davano una sensazione di reale appagamento e di vago malessere a un tempo. Ma era la festa che finiva, erano le strade che si vuotavano di gente, erano le bancarelle in disarmo con i dolci che venivano ritirati e con le lampadine che venivano spente. E c’era anche la folata di vento primaverile, che sollevava polvere e carta, nel Corso: sembrava rivolgere un estremo saluto agli ultimi venditori ambulanti, che raccoglievano – da impassibili e muti tentatori – le lacrime e i singhiozzi di quei bambini a cui i padri di famiglia, con un’occhiata di mite rimprovero, negavano, una volta ancora, di comprare il palloncino colorato .

Antonio Cammarana

La tradizione e la leggenda del martire crociato
di cui parla il poeta e scrittore Carlo Addario
e
la memoria dolorosa del diacono martire di
Saragozza documentata dallo storico, parroco
don Rosario Di Martino,
vivono da sempre nella realtà della grande festa
di popolo di San Vincenzo.

A.C..

Quando la gallina in brodo odorava di cannella.

San Giuseppe Acate
Il giorno di San Giuseppe, quando era piccolo, alle otto del mattino, Ignazio era già fuori dal letto. Lesto lesto si lavava si vestiva e raggiungeva in piazza i musicanti, che controllavano per l’ultima volta i loro strumenti, prima che il maestro li mettesse tutti in fila e desse il colpo di bacchetta per l’inizio della prima marcia: perché, per suonare per le vie del paese, si deve essere tutti ordinati in riga uno davanti e accanto all’altro, come tanti soldatini che debbono sfilare innanzi al loro comandante.
Quando il serpentone musicale si muoveva, Ignazio correva a mettersi dietro l’ultima fila e, con il corpo bandistico, faceva il giro del paese; e vedeva, in una volta sola, tutte le abitazioni e le strade per le quali, nel corso dell’anno, non passava mai: case basse dai muri sbrecciati; stradine mal tenute con tanto di buche nel terreno, ove si formavano pozzanghere d’inverno; cacate di vacca, larghe quanto impanate di pane, che gli spazzini, nel giorno di festa, non eliminavano; galline dentro larghe gabbie di legno, collocate sopra i marciapiedi accanto alle porte di casa; asini muli cavalli legati alla “boccola”. Uno spettacolo, che si ripeté sempre durante l’infanzia e la fanciullezza, che ogni anno rendeva felice Ignazio, perché lo metteva a contatto con la realtà sconosciuta e marginale del paese, ove l’umanità che ci viveva non trovava strano, né incivile essere tutt’uno con l’animale e i suoi escrementi.

Poi, dopo che i musicanti avevano finito di fare il giro del paese, Ignazio andava in piazza a trovare i compagni e, assieme a loro, passeggiava per i vialetti della villa comunale, ai genitori dando a credere di essere in Chiesa, come un ragazzino devoto. Terminata la funzione religiosa, mentre la Chiesa si svuotava e i fedeli affollavano il Corso del paese per fare bella mostra dell’abito nuovo, Ignazio con i compagni si metteva in mezzo a quella piccola folla e ci restava fino al tocco della campana di mezzogiorno.
Quindi il gruppo si scioglieva e Ignazio andava a casa sua, felice, perché sapeva che quel giorno, a tavola, ci sarebbe stata la gallina in brodo, che odorava di cannella: anche sua madre teneva le galline nella gabbia di legno vicino alla porta, ma nella strada parallela alla via principale.
Ora Ignazio non andava più appresso alla banda del paese, perché si era fatto grande e a tavola, a mezzogiorno, non c’era più il brodo, né la gallina che odoravano di cannella. Dacché la madre era morta, la gallina in brodo era diventata soltanto un ricordo del passato, un passato lontano, di quando il paese era ancora piccolo e attorno ad esso vi era il “bosco” e i più piccini giocavano nel tratto di strada di fronte alla propria casa e si viveva tutti raccolti attorno alle piccole cose, che rendevano felici e la felicità costava quattro soldi.

Nel pomeriggio della domenica di San Giuseppe, c’era pure la “cena” e il santo raccoglieva molto in offerte sia in denaro che in natura.
E sotto un sole che, a marzo, non era ancora cocente, Giuseppe Occhipinti, di cui si tace il soprannome passato alla storia, membro della commissione della festa, sopra un palco di legno costruito per l’occasione, levava in alto le offerte al santo e – “Cento lire uno, cento lire due, cento lire tre, aggiudicato! Viva san Giuseppe!” – i paesani portavano a casa ora una torta di ricotta con codette colorate, ora un mazzo di asparagi, ora un canestro di pane casereccio, ora un’altra delle tante diavolerie, che le nonne e le mamme riuscivano sempre ad inventare, per rendere la famiglia più devota al santo e il santo più disposto verso la famiglia: perché quelli erano tempi avari per tutti e il buon cuore generoso, dimostrato verso il santo, che si vede soprattutto quando si vive in ristrettezze, poteva voler dire, per il piccolo proprietario, il miracolo di una buona annata e, per il contadino, molte giornate di lavoro durante l’anno.
Così, una dopo l’altra, le offerte venivano alzate al cielo, ché tutti potessero vederle e ognuno potesse comprare quella che più gli piaceva.
Era un via vai continuo di uomini dalla piazza verso casa con le cose acquistate e dalla casa verso la piazza per le offerte; e la “cena” andava seguita fino all’ultimo, tutti tenendoci a sapere quanto avesse fruttato, perché l’ingenuità popolare era solita collegare il ricavato della cena al rumore e alla quantità di mortaretti, che sarebbero stati fatti esplodere la sera sia all’uscita che al rientro del santo, di fronte alla Chiesa Madre.

Antonio Cammarana

Il narratore porta a consapevolezza
universale i contenuti particolari, che dormono
nella memoria della comunità
A.C.