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La sala da barba


La sala da barbaIgnazio aveva frequentato la sala da barba non per apprendere l’arte e metterla da parte, ma perché la madre intendeva sottrarlo alle insidie e ai pericoli della strada. Dentro la sala e nel tratto di strada di fronte, zio aveva la possibilità di tenere Ignazio sott’occhio, osservando i sui movimenti e vigilando su di lui continuamente. Ignazio aveva il compito di sciacquare il pennello con l’acqua corrente, dopo che al cliente era stata fatta la barba; di spazzolare le spalle allo stesso dopo il taglio dei capelli; di dare alcuni colpi di scopa sul pavimento per eliminare la peluria sparsavi; di ringraziare il cliente dopo il pagamento del servizio.
Nel corso degli anni Ignazio vide barbe e capelli di tutti i tipi e non dimenticò mai che a partire del 1956 il taglio dei capelli e la rasatura della barba erano cinquanta lire, di cui trentacinque per i capelli e quindici per la barba.
Durante le festività natalizie e pasquali il tavolinetto, ‘ che di solito stava in mezzo alla sala con “La domenica del corriere” sopra in bella vista, veniva spostato in un angolo e il settimanale collocato in una sedia. Sul tavolinetto compariva, adorno di palline colorate e di fili d’oro e d’argento, un alberello di Natale che aveva al suo fianco, come scudiero, un vassoio sul quale cadevano, a seconda delle possibilità e della generosità del cliente, monete da cinque e dieci lire. Buona era la raccolta di soldi che terminava il giorno di Natale, più ricca quella di Capodanno, magra quella dell’Epifania.
A Natale e a Capodanno venivano distribuiti da zio piccoli calendarietti illustrati e profumati, frutto di un’accurata ed oculata selezione effettuata nel mese di novembre, quando nella sala, in tutte le ore del giorno, facevano la loro rapida apparizione i rappresentanti di questi almanacchi natalizi. Allora zio contava il numero dei clienti che aveva, li suddivideva a seconda delle possibilità economiche e dell’età di ognuno di loro, ordinava vari tipi di calendarietti: popolari, piccolo e medio borghesi, per professionisti.

In ognuno di essi vi erano raffigurate donne procaci e dive del cinema assieme ai giorni e ai mesi dell’anno. Verso la fine del 1950 zio distribuì calendarietti con donne in costume da bagno.
A Ignazio parve sempre straordinaria la rapidità con la quale zio prendeva dalla tasca oppure dal cassetto dell’armadietto a muro i vari tipi di calendari e come li facesse scivolare nelle tasche delle giacche e dei cappotti dei clienti, per non fare notare la disparità dell’omaggio, che dipendeva dalla generosità delle monete che cadevano sul vassoio delle mance, dalla condizione sociale e dall’età del cliente.
Ogni anno a Ignazio toccavano gli spiccioli, la parte “più congrua andava al primo aiutante, l’equivalente della spesa per acquistare i calendarietti nelle tasche di zio. Ma era bello il clima di attesa che veniva a crearsi attorno alle mance natalizie per quello che potevano fruttare in denaro. Eppure si trattava di poche migliaia di lire, che non avrebbero cambiato la condizione sociale di nessuno.

Dai ricordi d’infanzia di
Antonio Cammarana

Sogno

Sogno
Ora che le foglie dell’albero della vita cominciano ad ingiallire, un ricordo dolceamaro mi spinge a volgere lo sguardo al tempo in cui giocavo e correvo in prossimità dei palmenti, fermandomi a guardare i pigiatori che pestavano, dentro i tini di legno e di pietra, l’uva onesta disonesta o puttanella con i piedi scalzi; al tempo in cui riempivo le narici e i polmoni dell’odore asprigno dei grappoli caduti per terra e calpestati dai carrettieri e dai passanti; al tempo in cui sfidavo con infantile temerarietà i pungiglioni delle api, che scendevano come aeroplani in picchiata sulle ceste e sui corbelli lungo le strade della vendemmia.

Fu proprio in uno di quei giorni che io, Ignazio, ancora bambino, vidi per la prima volta raffigurata Ofelia, personaggio femminile della tragedia “Amleto” di William Shakespeare, in una tela di autore ignoto, che il padrino di Cresima aveva portato dalla Francia e che rappresentava la tragica e romantica morte della nobile fanciulla danese.
Quante volte guardai Ofelia in quel quadro! Quando il mio padrino mi portava a pranzo nella sua casa giardino stile Douce France; quando terminavo di fare i compiti nel piccolo tavolo adorno di un bruno tappeto d’Oriente, che dava un tono di grazia decorosa garbata e fine alla stanzetta che faceva da studio da salotto da ingresso; quando mi fermavo a cenare nel suo giardino alle luci delle stelle o del lume a petrolio.
Quante volte, sognai Ofelia casta e pura caduta e annegata nelle acque del fiume, dove il suo corpo riposa e leggero fluttua, accarezzato dalle ninfee!
Quante volte, in un libro di racconti sui paesi nordici di proprietà del mio padrino, lessi: “Ofelia è il nome portato dal vento, la goccia d’acqua che scende dal vetro della finestra, il rumore dei passi della strada, il fruscio della veste che passa vicino. Ofelia è l’amore d’infanzia, il battito del cuore, la lacrima sulla guancia del fanciullo che sogna il fiore mai visto prima. Ofelia è l’anfratto oscuro della memoria, la nebulosa fluttuante sopra le acque, il velo che cela il pallido riflesso del volto che si svela e non si svela”.
E quante altre volte, il mio padrino, tra un sorriso ironico e una battuta pungente, il cui significato compresi dopo, mi disse che certamente, un giorno, avrei incontrato un’Ofelia e che la sua bellezza mi avrebbe scioccato!

Per questo incontro io vissi e dolce fu per me l’attesa. Trascorsero giorni mesi anni. Io mi lasciai alle spalle la Scuola Elementare, la Scuola Media, l’Istituto Superiore e le parole del mio padrino.
Fu in un pomeriggio che, tornando a casa dall’Università contento per il voto preso nell’esame di Storia Medievale, sentii pronunciare il nome di Ofelia.
Dopo un lungo istante d’incredula meraviglia, mi girai per guardare la fanciulla tanto sognata e desiderata per anni. I libri mi caddero dalle mani, la vista mi si annebbiò, credetti di svenire, la mia mente smarrendosi inesorabilmente. Davanti a me stava una creatura di rara bruttezza, più vicina ad un ranocchio che ad un essere umano, affiancata da una donna bassa di statura e tozza di corpo, che derideva, con malcelato sarcasmo, tutti gli uomini che si erano avvicinati ad Ofelia per conoscerla, attratti dalla bellezza del nome, ma scappati per le sue sgraziate fattezze e per il roco e stridulo suono della voce.
Arrivai a casa, mi buttai sul letto e pensai allo scherzo di un diavoletto burlone, che si era preso gioco della mia vista e del mio udito, mettendomi davanti un essere che niente aveva a che fare con la vergine di Danimarca che, per tante notti, aveva costituito il soggetto del mio fantasticare e l’oggetto dei miei sogni più arditi.
Mi chiusi in me stesso, mi discostai dalla vita di ogni giorno. Con la paura, soprattutto, d’incontrare per la seconda volta quel corpo che la natura aveva così tanto deturpato. Per sfatare quelle sembianze deformi con pennelli e colori iniziai a dipingere volti, che assomigliassero sempre più all’Ofelia vista nella tela del mio padrino di Cresima e all’Ofelia dei miei sogni. Ma per quanti disegni e dipinti facessi, io non riuscii, però, nel mio intento. La donna ranocchio incontrata un giorno per strada non solo continuò ad essere sempre presente nei miei pensieri, ma continuò ad esserlo anche nei miei disegni e nei miei dipinti.

La mia barba e i miei capelli si facevano grigi e poi bianchi, il mio corpo invecchiava e s’indeboliva ed io cominciai ad ironizzare amaramente del mio destino non benevolo.
Trovai la forza di non disegnare, né dipingere più quel volto grottesco di donna che, in un giorno ormai lontano, avevo incontrato per strada e aveva sconvolto la mia esistenza.
Incominciai a viaggiare da un paese all’altro e in uno di questi viaggi ebbi la fortuna di vendere tutti i miei disegni e i miei dipinti a un mercante di opere d’arte conosciuto alla Fiera di Francoforte, più per liberarmi dall’ingombro di fogli e di tele diventati ormai l’ossessione della mia vita, che per ricavarne un utile in denaro.

I miei giorni volgevano alla fine quando venni a sapere che i miei disegni e i miei dipinti erano molto apprezzati e considerati capolavori universali.
Era stato il caso a volere che fossi proprio io ad incontrare Ofelia per strada, in quel lontano giorno della mia giovinezza e che, con la sofferenza di tanti anni, riscattassi e volgessi la sua bruttezza in opera d’arte duratura?

Mentre racconto i miei accadimenti lontani ai pochi parenti che vengono a farmi visita e a questo mio nipote che continua a scrivere pagine della mia vita, penso davvero che , nel destino di ognuno di noi, ci sia qualcosa d’imperscrutabile, che si frappone tra il nostro presente e il nostro futuro e condiziona pesantemente l’ulteriore corso della nostra esistenza.
Per me fu Ofelia, anzi furono tre Ofelia: quella della tela del mio padrino, quella sognata in tante ore del giorno e della notte, quella incontrata per strada.
Ma ora che una luce sempre più intensa comincia a chiamarmi dall’Alto ed io sento di essere più anima che corpo, le tre Ofelia diventano una sola Ofelia, sintesi ultima di lontanissime sovrapposte e sfumate memorie di un sogno fattosi nel tempo dolce amaro, la cui lunga dolente esperienza, in questi ultimi istanti della mia tarda età, si placa nel ricordo nostalgico che precede il mio trapasso.

Antonio Cammarana

Memory

Memory
Uscii di casa in ritardo, percorsi in fretta via Duca D’Aosta e arrivai finalmente all’interno della palestra all’aperto della Scuola elementare “Capitano Puglisi” di via Balilla. Trovai parecchi miei compagni di classe.
Due di essi parlavano animatamente non di quale cinema fosse migliore in paese, ma dei film che si proiettavano alla comunità. Erano i primi anni Cinquanta e la visione di un film in bianco e nero, in seguito anche a colori, affascinava grandi e piccini.
Di recente, il cineteatro Eden del commendatore Morale aveva proiettato “Guerra e Pace”, un film cinemascope e technicolor della durata di quattro ore con scansione in quattro tempi, tratta dall’omonimo romanzo storico dello scrittore russo Leone Tolstoj.
E uno dei miei compagni di classe ne magnificava l’eccezionalità per gli attori, per i colori, soprattutto per le scene che riscostruivano l’ambiente climatico e la catastrofe della Grande Armata di Napoleone Bonaparte sulla strada del ritorno da Mosca al ponte della Beresina al territorio europeo vero e proprio fino alla disfatta finale a Waterloo.
Ma non aveva fatto i conti con l’altro mio compagno di classe, che aveva la fortuna di potere vedere gratuitamente tutti i film che venivano proiettati al cinema di don Salvatore Castiglione sia d’inverno che d’estate. E che, come una mitragliatrice in piena azione di contenimento di un assalto alla baionetta di una trincea, cominciò a sparare a raffica titoli di film e contenuti in modo stupefacente. Da “Sansone e Dalila” a “La tunica” a “I dieci comandamenti”, da “I figli di nessuno” a “Roma città aperta” a “Catene”, pellicole che rappresentavano il momento “clou”, di massimo interesse al cinema Castiglione, quelle per cui si mandavano i ragazzini a chiedere alla moglie del titolare, donna Giovannina, se quella sera stessa si proiettasse un film di “cianciri”, cioè che faceva piangere.
Lei invariabilmente e puntualmente rispondeva: “Cà sicuru, dall’inizio alla fine” e “Purtati i seggi di casa, perché stasera (da leggere “come al solito”) i posti non basteranno”. Intanto arrivava il maestro, che, gridando e roteando la bacchetta, si sforzava di “raccozzare” (proprio come fa il Griso con i Bravi ne “la notte degli imbrogli” de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni) tutti gli alunni della classe, che si schieravano ora a favore di un compagno ora dell’altro. E finalmente, dopo essere stati messi in fila per due, uscivamo dalla palestra scoperta e ordinati e composti come bravi soldatini entravamo nell’edificio scolastico dal portone di via Balilla, lasciando alla nostra sinistra una schiera di alunni che cantavano – musicato da Giacomo Puccini tre anni prima dell’avvento del Fascismo – “L’inno a Roma”: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”.
L’Italia stava uscendo faticosamente dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale; contadini braccianti agricoltori faticavano, dall’alba al tramonto del sole, nei campi, con zappe e aratri, muli cavalli e asini. Eppure l’inno a Roma, esaltazione e celebrazione dell’Urbe (la città per antonomasia), era ancora lì – nella scuola elementare di via Balilla – a ricordare alla neonata nazione democratica (1946) le antiche origini di romano popolo guerriero di tradizione regia repubblicana e imperiale, inno che mi spinge oggi – 28 aprile 2014 – oggi, che sono ritornato indietro nel tempo con la memoria, in odore di malinconico Amarcord, a pormi una domanda perentoria e che non ammette più dilazioni:
“Quando è finito veramente il Fascismo ad Acate – antica Biscari?”
Si affacciava, intanto, siamo nel 1953, nella vita del paese – che assisteva alla grande ondata migratoria nelle regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) – un potentissimo strumento di unità civile e culturale (ma non solo) delle genti italiane: la televisione, che, nei suoi primi anni di vita, ebbe anche un ruolo di positiva azione educativa e didattica, contribuendo ad eliminare una parte notevole di analfabetismo con programmi come “Non è mai troppo tardi”; e che radunò e inchiodò allo schermo televisivo milioni di persone con le puntate settimanali del capolavoro di Alessandro Manzoni, “i Promessi Sposi”; con i programmi pomeridiani dei ragazzi di “Zurlì, mago del giovedì”; con le serate del “Lascia o Raddoppia” di Mike Bongiorno; con “La domenica sportiva”, che di sera aggiungeva le immagini alla semplice radiocronaca pomeridiana di “Tutto il calcio minuto per minuto”, che immancabilmente si concludeva con lo spot pubblicitario: “Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock; se la squadra del vostro cuore ha perso, consolatevi con Stock. Stock 84, il signore si che se ne intende”; con la tribuna politica diretta da Jader Iacobelli.
Ricordo che il locale al chiuso del cinema di don Salvatore Castiglione, per tutto l’inverno e parte della primavera, a mezzogiorno, funzionava come mensa scolastica per gli alunni delle famiglie bisognose di Acate, mensa da tutti conosciuta come “la refezione”; di sera, diventava sala cinematografica al coperto; per tutta l’estate e parte dell’autunno, per mezzo di uno schermo gigante in pietra, intonacato di bianco e innalzato nella palestra all’aperto attigua alle Scuole elementari e al Collegio delle suore, si trasformava in Arena Castiglione.
Il cinema di don Salvatore Castiglione, il cine-teatro Eden del commendatore Morale e l’Arena argentina dell’ingegnere Traina
riempirono i miei spazi vuoti serotini degli Anni Cinquanta e Sessanta. E io non dimenticherò mai una sera dell’estate del 1962, quando venne proiettato “Il pozzo e il pendolo”, un film del 1961, diretto da Roger Corman e tratto da un racconto di Edgar Allan Poe.
Nel silenzio dell’oscurità, tutto preso dalle scene del film, un vero classico del terrore e dell’orrore, mentre una mano insanguinata spuntava da una tomba, spostando lentamente la lastra di pietra che la ricopriva, per la paura e per l’emozione, accesi maldestramente una nazionale esportazione dalla parte del filtro e cominciai a tossire fortemente e ininterrottamente. Ad un certo punto, nel silenzio, rotto soltanto dai colpi di tosse, si levò una voce acida e risentita: “A ci ni sunu miegghiu di tia o spitali!”, che trasformò un ambiente attentissimo alla visione e all’ascolto in un luogo di bassa ilarità e di rumorose flatulenze.
A partire però dalla proiezione di film di un certo spessore culturale quali “West side story”, “Scandalo al sole”, “I due volti della vendetta”, “I magnifici sette”, “Assassinio sul treno”, il cinema Morale attrasse come una calamita il gruppo di amici che si era costituito attorno a Pippo Puglisi, a Rosario Manusia, a Gigi Albani, a Carmelo Pinnavaria (Dollar Man), quest’ultimo da tutti chiamato “il professore”, perché, fin dalle prime sequenze di un film giallo, indovinava chi fosse l’assassino.
Il gruppo era attratto soprattutto dal film del giovedì, quasi sempre un giallo, che i fratelli Morale non facevano mai mancare in quel giorno settimanale, anche se (come spesso accadeva) lavorassero per niente, essendo equivalenti per loro la spesa e il ricavo.
Il gruppo evitava (con la mia sola eccezione), le proiezioni della domenica, seguite da vere e proprie fiumane di persone di tutte le età che, per almeno quattro ore di seguito, seguivano il cinegiornale della settimana Incom, le reclame, il primo e il secondo film, spizzicando simenta e calacavisi, e ruminando fave abbrustolite e pastiglie secche, infine raschiando la gola con bottiglie di gassosa e dissetanti caramelle carrubba.
In seguito avrebbe preso piede ad Acate il cinema del professore Vincenzo Lantino, con elegante galleria e accogliente tribuna, ma io potei apprezzare poco sia la bellezza del locale, sia i film che vi si proiettavano.
L’iscrizione all’Università di magistero di Catania mi allontanò a poco a poco, ventenne, dalle sale cinematografiche di Acate; come la frequenza dell’istituto magistrale mi aveva già allontanato, ancora quattordicenne, dal campo di calcio, in cui non avevo intravisto alcun futuro.
Rimaneva la televisione, che, dopo preadolescianziali entusiasmi, cominciai a trascurare, considerandola una monotona trasmissione di programmi e notizie, che spersonalizzavano lo spettatore conformandolo alla piattaforma ideologica del potere. Buona, comunque, per pappagalli politici e professoricchi ripetitori, che comunicavano, nella loro rampante ascesa, concetti e nozioni sulla scia del manovratore di turno rosso bianco o nero.

Antonio Cammarana

Il signor “Capizzo”

Il signor Capizzo
Ero fermo davanti alla porta della sala da barba di zio Giovanni, in una giornata di tiepido sole primaverile del 1960, al numero 119 di Corso Indipendenza, e sgranocchiavo una melagrana dai chicchi rosso amaranto, allorché dalla via Gracchi spuntò un uomo alto e robusto, che calzava un paio di stivali di cuoio, indossando giacca e pantaloni di fustagno. Quando mi arrivò vicino, con i suoi capelli e baffi biondo oro rossiccio, mi parve davvero un vichingo o uomo del Nord uscito dalle brume e dai fiordi della Norvegia.
Rivolgendosi a me zio Giovanni disse:
-“Puntuale come sempre, il signor Capizzo”-.
-“Capizzi”- precisò quello che ritenevo un vichingo.
-“Capizzi”- ripetei io allo zio.
-“Capizzo”- ribatté lui.
Il vichingo sedette nel seggiolone di legno, facendo sgonfiare il cuscino sotto le sue natiche, mentre da lui zio attendeva “comandi”, che non si fecero attendere: shampoo, capelli e barba.
Zio riscaldò l’acqua, sciacquò e asciugò la folta capigliatura del vichingo, continuò con il taglio dei capelli e terminò con la rasatura della barba, mentre agitava – per farne cadere a terra i peli, di cui era piena a macchia di leopardo – l’ampia tovaglia tolta dal collo del cliente:
-“Servito signor Capizzo”.
-“Capizzi”- precisò l’uomo.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse zio, prendendo in mano le monete per il servizio
prestato.
Il signore, un pò meno vichingo e un pò più cristiano dopo il lavoro dello zio, uscì dalla sala da barba, mentre zio Giovanni – facendo saltare le monete ricevute- diceva:
-“Sempre generoso il signor Capizzo”-.
-“Capizzi”- osservai io.
-“Capizzo”- ripeté zio con un tono di voce, che non ammetteva repliche.
Poi, mettendomi in mano due monete da cento lire, ordinò:
-“Vai a prendermi un pacchetto di nazionali”-.
A passi svelti mi diressi verso il tabaccaio, ma, arrivato all’angolo di Corso Indipendenza con via XX Settembre, mi accorsi che il signore di prima entrava al bar Roma, gli sentii chiedere alla signora Delizia un tubetto di monete da cinquanta lire, lo vidi avvicinarsi alla grande vasca rettangolare di cristallo con il fondo pieno di pacchetti di sigarette estere ( Salem, Chesterfield, North Pole, Pall Mall, Camel, Marlboro, un mare di pacchetti di sigarette estere).
Quando gli arrivai vicino, il vichingo cominciò a inserire le monete da
cinquanta lire in una fessura della grande vasca, premendo poi un bottone che faceva andare prima in avanti, in seguito a destra una mano d’acciaio meccanica che catturava o soltanto accarezzava i pacchetti di sigarette.
Dieci minuti dopo, con un pacchetto di Pall Mall in una mano e uno di Chesterfield nell’altra, sorridendo compiaciuto sotto i baffi di uomo del Nord, il vichingo tornò alla cassa e cambiò il pacchetto di Pall Mall con denaro contante, tenendo le Chesterfield.
-“Ecco nove monete da cinquanta lire, signor Capizzo”- disse la signora Delizia.
-“Capizzi”- osservò lui.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse la padrona del bar.
Poi rivolgendosi a me:
-“Tu che cosa vuoi ?”-.
-” Un bicchiere d’acqua”-.
-“Alla fontanella !”- gridò lei, indispettita.
Io andai a comprare le nazionali per lo zio, sigarette senza filtro molto plebee in verità rispetto a quelle che avevo visto prima al bar Roma e feci ritorno nella sala da barba. Qui vidi il signore conosciuto in precedenza offrire una Chesterfield allo zio, che l’accarezzò e l’annusò parecchie volte prima di accenderla e aspirarla, alla fine dicendomi:
-“Che grand’uomo il signor Capizzo !”-.
-“Capizzi”- precisò il signore.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse zio.
E, mentre quel vichingo tanto generoso si allontanava sorridendo e scuotendo la testa, io pensavo:
-“Capizzo o Capizzi ? Capizzi o Capizzo? Oppure Capizzo dei Capizzi
come Albrizzo degli Albrizzi – marchese fiorentino del tempo di Dante; o Rubizzo dei Rubizzi – conte senese del tempo del Petrarca? Che sotto il Capizzo o il Capizzi si nasconda un nobiluomo venuto al seguito del normanno Ruggero d’Altavilla e da questi del titolo di barone di Capizzi, per nobili gesta contro i Saraceni di Sicilia, insignito? Per non parlare del portamento così aristocratico, del pelame oro rossiccio proprio della gente del Nord, che tolse la Sicilia agli Arabi “-. Deve andare così ! Che Capizzo sia Capizzi per i notabili del paese, Capizzi sia Capizzo per la gente del popolo.

Antonio Cammarana

Il nano

nano
Sono alto due spanne: non un centimetro di più, non uno di meno. Io sono il nano.
Le mie gambe sono corte come pure le mie braccia, esiguo ho il torace, insignificante il collo, piccola la testa, i miei piedi non superano quelli di un bambino.
Io sono il nano.
Ma rugosa è la mia faccia, tumide sono le mie labbra, ho larghe orecchie e grandi occhi.
Io sono il nano.
Come nature diverse dalla mia io guardo gli uomini, le donne, i ragazzi, considerandomi essi un errore divino tenace nei secoli e non meno perverso di un campo di sterminio.
Io sono il nano.
Asprezze e solitudini ha avuto sempre la mia vita. Imperatori e re, principi e duchi, conti baroni e marchesi, mi hanno fatto buffone di corte; la letteratura mi ha dileggiato come fenomeno da circo; la scienza mi ha esibito come meraviglia mostruosa o ingannevole referto.
Mentre il buffone è stato un “full” di comicità, io sono stato un “minus” da baraccone. E già Omero, nell’Iliade e nell’Odissea, aveva fatto di me un simbolo della doppiezza e della menzogna con la figura di Ulisse: guerriero di bassa statura, che arriva appena alla spalla di Agamennone e a quella di Menelao; per nulla gagliardo come Aiace, né forte come Achille; ma dotato soltanto di una astuzia così grande che nessuno è più furbo di lui nell’ingannare la gente. Nemmeno Alberico, il re dei nani vinto dall’eroe Sigfrido, nel poema nazionale germanico “La Leggenda dei Nibelunghi”.
Io sono il nano.
Quando venni al mondo i miei genitori dichiararono: -“Questo figlio, che abbiamo generato, è un protocollo del nulla”- .
Io sono il nano.
In seguito alla morte di mio padre sono cresciuto di una spanna.
Dopo il decesso di mia madre ho raggiunto l’altezza di ottanta centimetri.
Ma io resto il nano, perché credo di essere stato generato da un destino di pochezza fisica.
I miei fratelli ripetono che io crescerò di una spanna ogni volta che uno di loro passerà a miglior vita. E con queste parole mi feriscono in tutte le ore del giorno. Perché essi sono alti e robusti tanto da credere di campare cent’anni.
Io ho dieci fratelli.
Io sono il nano, ma voglio crescere.
Mi sono messo al lavoro per punire la cattiveria dei fratelli, per distruggere la diceria dell’errore divino e la nomea di figlio di un destino di pochezza fisica, per fare del protocollo del nulla che sono un protocollo dell’essere.
Io, il nano, che vuole crescere.
Io metto, in ogni pasto di mezzogiorno dei miei fratelli, un milligrammo di veleno per topi. E, quando essi saranno morti tutti, io sarò più alto di altre dieci spanne. Così eguaglierò in altezza il gigante Golia.
Io, il nano, errore divino, figlio di un destino di pochezza fisica e protocollo del nulla.

Antonio Cammarana

Il Gobbo. Racconto a due voci

Il Gobbo
Prima voce
Quadrata è la mia testa, un cerchio è il mio collo, ho il tronco a trapezio, due cilindri sono le mie gambe, due triangoli i miei piedi.
Sono davvero deforme.
Non solo.
Alto un metro appena, mi considero meno di un uomo. E mi riterrei il più sfortunato dei mortali, se madre natura non mi avesse fatto nascere con una gobba sulle spalle. Che mi fa essere più di un nano.
Vanto illustri antenati, resi immortali dalla letteratura. Un solo esempio valga per tutti: Quasimodo, il gobbo di Notre Dame de Paris: naso tetraedico, bocca a ferro di cavallo, occhiuzzo sinistro coperto da un sopracciglio rosso e cespuglioso, occhio destro nascosto dietro un’enorme verruca, denti sbrecciati come i merli di una fortezza, labbro carnoso, mento forcuto.
Ma se Quasimodo è un misto di malizia, di stupore e di tristezza, io sono un insieme di bontà, di indifferenza e di allegria. Se Quasimodo è il re dei folli, io sono il re dei saggi.
Perché: quando un uomo una donna un ragazzo vogliono toccare la mia gobba, convinti che ciò porterà loro fortuna, io li lascio fare a patto che comprino la mia frutta e la mia verdura.
Io, il gobbo, prototipo della deformità e venditore ambulante.

Seconda voce:
Io ricordo bene coloro che hanno accarezzato la gobba: uno ha perduto un dito, un altro una mano, un altro è diventato storpio, a qualcuno manca un occhio, a qualcun altro una parte del naso o delle labbra. E ognuno di loro ha la testa profondamente piegata sul petto: il loro essere spirituale e fisico è venuto meno a poco a poco, riducendosi ad icona della deformità.
Io li riconosco tutti, perché, da quando ho perduto entrambi i genitori, lui, il gobbo, mi porta sempre con sé per strade e paesi a vendere frutta e verdura con un carro a quattro ruote.

Antonio Cammarana

Ignazio Biscari

Ignazio Biscari
Avevo preso a frequentare una bottega di libri rari dal giorno in cui avevo visto il nome e il cognome di Gesualdo Bufalino, scrittore di Comiso e mio professore d’Italiano all’Istituto Magistrale ” Giuseppe Mazzini” di Vittoria nella seconda metà del XX secolo, guardando per caso dei bigliettini da visita, sparsi dentro una scatola rettangolare di legno, in parte scheggiata da colpetti di unghie non sempre innocue, in parte cenericciata da migliaia d’impronte di polpastrelli dalla dubbia lindura e che, orgogliosa delle sue ferite e del suo grigiume, stava posta al centro di un vetusto scagno.
Così puntualmente il martedì e il giovedì, alle undici, dopo le prime due ore d’insegnamento a scuola, passavo dall’antiquario per scambiare quattro chiacchiere e avere suggerimenti da intenditore per l’acquisto di qualche testo che mi avrebbe potuto interessare, ma soprattutto per gettare uno sguardo all’ingresso della bottega –con quel misto di attrazione e di paura, che, in determinati momenti della vita, è il preludio di grandi sventure– su un segnalibro gigante di sapore kafkiano in cartone bianco, raffigurante un uomo che strozzava con le sue mani quello che a me parve sempre essere un nero avvoltoio, a cui seguiva, nello spazio sottostante, la scritta “Libreria antiquaria Giancarlo Gatto succ. Berruto”- 10123 Torino, via S. Francesco da Paola 10 Bis, tel. 011836636, e che si concludeva con l’invitante e ardimentosa frase “Si acquistano Libri e Intere Biblioteche”.
La mia visita al “Gatto succ. Berruto” era diventata tanto un’abitudine che, in quei due giorni della settimana, io non riuscivo ad andare alla Biblioteca Nazionale di Piazza Carlo Alberto, dirimpettaia del Sardo-Piemontese Palazzo Carignano, se prima non avessi fatto questa tappa di cultura antiquaria, immancabilmente salutato dal sempre più spaventevole e ripugnante segnalibro gigante con l’uomo che strangolava l’avvoltoio nero.
Di tanto in tanto acquistavo un libro, sia perché avevo un reale bisogno per il mio lavoro d’insegnante e di ricercatore, sia perché il suo formato e la sua copertina suscitavano il mio interesse, sia perché potevo continuare a sfogliare, senza stare sullo stomaco del libraio, vecchi volumi le cui pagine ingiallite e imperlate di verdastre chiazze di muffa portavano evidenti segni delle stagioni passate.
Io notai un giorno, all’interno della bottega, un anziano signore, il cui viso, somigliantissimo al mio, mi ricordò subito un uomo che io incontravo ogni mattina quando andavo a prendere il tram per recarmi a scuola o nel primo pomeriggio, ritornando a casa, e che io avevo preso a ritenere il mio Doppio.
La mia sede di lavoro era in provincia, a Carmagnola. Io facevo sempre la stessa strada, prendevo il medesimo tram, salivo persino sull’identico treno. Non ho mai chiesto il trasferimento a Torino, perché mi trovavo a mio agio con gli alunni e in esaltante contrapposizione ideologico-politica con i colleghi, vecchi tromboni del ’68, e perché il viaggio in treno mi permetteva di leggere di riflettere di scrivere. E, poi, in fondo, tornavo a ripetere le stesse cose, non disdegnando di considerarmi “un pigro freudiano”, avendo fatto mio uno dei principi fondamentali della psicoanalisi: “ricercare soltanto ciò che porta piacere ed eliminare ciò che comporta dolore”.
I titoli dei libri da scorrere con l’occhio negli scaffali mi distrassero dall’osservare l’uomo che mi assomigliava tantissimo e che io non vidi più nella libreria, dopo che mi rivolsi all’antiquario per pagare, secondo me a buon prezzo, un testo, che ritenevo ancora valido sulle “Epopee” degli antichi popoli europei, su cui da tempo avevo soffermato la mia attenzione.
Mi diressi, quindi, alla Biblioteca Nazionale, compilai la carta d’entrata 0949 e andai ad occupare uno dei tavoli della sala di lettura. Io cercavo di fare, senza peraltro riuscirci, qualche scarabocchio su dei fogli, dove brevi ma numerose linee d’appunti letterari contendevano un dito di spazio a veloci e scarni giudizi globali sui miei alunni, quando l’uomo, che credevo il mio Doppio e che avevo visto, non molto tempo prima, nella bottega del “Gatto antiquario”, venne a sedersi proprio di fronte a me. Tirò fuori dalla sua borsa dei libri che sistemò alla sua sinistra, poi dei quaderni certamente di non antica data, perché, se il loro bordo era di un rosso stantio, le loro copertine erano invece di un nero zigrinato ancora ardito. E cominciò a sfogliarli.
Chiunque avesse sbirciato da lontano quest’uomo, che aveva un’aria strana inconsueta, avrebbe pensato subito che fosse sprofondato nella lettura, ma io che sedevo proprio davanti a lui mi resi conto che girava stancamente le pagine dei suoi quaderni, dopo averle soltanto fissate distrattamente. Notavo nel suo volto malinconia delusione sconforto, come se le parole scritte su quei fogli, che non mostravano ancora i segni del tempo, fossero il risultato di un lavoro rivelatosi, alla fine, non solo inefficace, ma anche inutile.
Pure io avevo sfogliato le pagine dei miei quaderni a quel modo, chiedendomi spesso se mai avessero potuto diventare pagine di libri. La mia iniziale indifferenza nei confronti del mio Doppio diventò dapprima turbamento, poi commozione, ragion per cui decisi di rivolgergli la parola: “Sono seduto, forse, di fronte a uno scrittore?” Il mio Doppio sollevò lo sguardo, che teneva sopra i quaderni, e, come se rientrasse nella realtà quotidiana da un metafisico mondo iperuranio, mi diede una occhiata insocievole, che manifestava lo stupore e il fastidio di colui che aveva dovuto interrompere una fantastica navigazione ad occhi aperti.
“Ho chiesto se lei è uno scrittore”- ripetei con un filo di voce.
Ancora a disagio nel suo impacciato imbarazzo, il mio Doppio riuscì a dire soltanto: “Uno scrittore? No, sono semplicemente uno che scrive, uno che ha scritto tanto”.
Per cercare di farlo uscire definitivamente dal suo intorpidimento mentale, velato ora di amarezza, ora di abbattimento profondo, che lui non faceva niente per nascondere agli occhi di chi lo osservasse, continuai: “Non ha mai pensato di pubblicare le sue pagine?”.
Mi parve che il mio Doppio, in un primo momento, cercasse di prendere una posizione più comoda, nella sedia che occupava, in realtà si lasciava scivolare all’indietro lentamente e, nel suo volto, c’era dipinta una pensierosa espressione di reale mestizia.
Io dissi ancora: “Ho proferito qualche parola di troppo? L’ho forse turbata?”.
Lasciando gradualmente la coda di quello che era ormai soltanto un impacciato imbarazzo, il mio Doppio riprese: “Sono sulla soglia dei settant’anni. Credo di aver vissuto la mia vita in modo unico, irripetibile. Leggendo le pagine di centinaia di libri di giornali di riviste, osservando le azioni degli uomini e su di esse riflettendo, ho creato una prosa che ritengo originale, ma non interessante per il mercato editoriale: una prosa debole, in cui si muovono personaggi deboli, che affermano una filosofia debole della vita e del mondo. Ma non è detto che i miei concetti inediti esprimano contenuti meno validi di quegli degli autori di successo. E’ stata certamente la lettura poco meditata delle pagine da me scritte, da parte dei critici, a condannarmi all’anonimato. Ma io, che non ho avuto il privilegio della pubblicazione, io Ignazio Biscari, ultimo rampollo di un principesco casato siciliano che vive in dignitoso orgoglio la decadenza e l’attesa della fine, leggerò a lei, perché so che cerca di farsi strada nel campo della letteratura –senza scendere a compromessi con nessuno dei potenti di turno– le linee essenziali del mio pensiero”.
Allora aprì il primo dei suoi quaderni e cominciò a leggere brani di quanto aveva scritto. Io ascoltavo e catturavo come un magnete di rara potenza, incollandoli nella mia memoria, i contenuti culturali di quest’uomo, che aveva trascorso tutta la vita nella lettura e nella ricerca di una via personale alla letteratura.
E fu come se il tempo, per me, nella Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto, si fermasse; ed io mi facessi famelico e rapace avvoltoio di parecchi lacerti letterari scritti da Ignazio Biscari da rielaborare su nuove basi e da vivificare dandogli vitalità e vigore. Tanto che quando il mio Doppio si alzò e andò via, io continuai a fissare a lungo la sedia vuota che lui poco prima aveva occupato, nello stesso tempo avvertendo una interiore sensazione di pienezza tematica e concettuale mai avuta prima, che attendeva soltanto di imboccare la strada maestra di una scrittura che rappresentasse la realtà naturale e la condizione umana con uno stile di notevole forza espressiva.
Io non passo più dalla bottega dell’antiquario, non vado più alla Biblioteca Nazionale, non compro più libri recenti o rari. Leggo i testi che gli editori piccoli medi grandi mi fanno pervenire con preghiera di una recensione e quelli che, ogni anno, mi pubblicano. Non ho più rivisto quell’uomo di cultura con cui parlai un giorno in Biblioteca, quell’Ignazio Biscari che mi fece dono della lettura dei suoi originali concetti di “letteratura debole” diventati i fondamentali “contenuti forti ” delle mie opere.
Mi sono trasferito in provincia, dove la vita e la mentalità senza dubbio meno frenetiche e più flemmatiche, un po’ monotone e forse anche più sonnacchiose rispetto alla città, a me sortiscono l’effetto di far sembrare le giornate più lunghe. Ho lasciato l’insegnamento, vivendo con la pensione datami dallo Stato e i diritti d’autore dei miei libri e di quanto vengo scrivendo sui quotidiani sui settimanali sui mensili.
Un giorno trovandomi in città per parlare con il direttore di una rivista di cultura, che mi aveva proposto di stendere un lavoro sulla via della solitudine interiore dello scrittore guerriero, decisi di passare dalla bottega di quel “Gatto antiquario”, che avevo frequentato per così lungo tempo, quando ero ancora un inseguitore di sogni letterari, prima di raggiungere la notorietà. Ma nella libreria non entrai. Poggiata la mano sulla maniglia esterna della porta a vetri rividi, tra gli altri, che scorrevano i titoli dei vecchi libri collocati negli scaffali, proprio Ignazio Biscari, il mio Doppio misterioso con il quale ero venuto in culturale contatto nella Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto anni prima. Anzianissimo ormai, bianchi tutti i capelli, una sciarpa verderame con righe giallo zolfo al collo sopra un pesante cappotto nero, gli occhiali dagli spessi vetri rotondi, un berrettino simile a quello dei fuochisti francesi tra le due guerre mondiali, che lo accostavano tanto agli scrittori mancati della letteratura universale, con i quali la vita è stata sempre avara di riconoscimenti culturali.
Ignazio Biscari sfogliava le pagine di un antico e prezioso testo rilegato in tela di seta rossa con fregi blu cobalto.
Gli scaffali della bottega dell’antiquario segnati dai morsi delle tarme, la luce fioca che doveva favorire la consultazione e l’acquisto dei libri da parte degli amatori, l’età avanzata del ” Gatto antiquario” dei lettori e di quell’uomo, Ignazio Biscari, così assorti assorbiti quasi perduti tutti nella lontananza epocale di chissà quale prosa o verso d’autore, mi diedero l’impressione di trovarmi davanti alla muffa e alla polvere opprimente di una vecchia casa rugosa e fatiscente in abbandono.
Dopo il primo momento vissuto in preda a vivo stupore, anche se avevo aperto la porta, mi convinsi ancora di più a non entrare nella libreria.
“Certamente il mio Doppio avrà ripreso ad inseguire il miraggio di una pubblicazione!” – dissi ad alta voce, ridendo in modo sconsiderato.
Dall’interno della bottega tutti i presenti mi guardarono profondamente meravigliati schifati a causa di quelle parole di dileggioso sarcasmo pronunciate e della mia fragorosa sguaiata risata.
Ignazio Biscari sollevò gli occhi dal testo che teneva tra le mani e mi osservò con quella che, a me, parve l’umile e tremula espressione di amarezza e di dolore propria della persona nobile e colta, che ha commesso l’imperdonabile errore di leggere le linee essenziali del suo pensiero a un borghese istruito, figlio legittimo dell’ingratitudine.
Io rimasi fermo davanti alla porta a vetri in tutto simile a colui che avesse preso una terribile botta in testa, né mai più riuscii a dimenticare ciò che successe quel giorno.
Comprendendo in seguito, sempre più, che da quel momento qualcosa mi causava vuoto nella mente, facendo ineluttabilmente svanire quelle linee essenziali del pensiero che Ignazio Biscari mi aveva letto e di cui io mi ero fatto rapace avvoltoio in un lontano mezzogiorno di alcuni anni prima. Perché da quegli occhi, solo apparentemente inoffensivi del mio Doppio, emanava un così potente magnetismo che generava dentro di me la sconcertante impressione che Ignazio Biscari succhiasse dal mio cervello ogni contenuto creativo che mi aveva elargito e che successivamente mi mettesse al collo le sue scarne e ossute mani, strozzandomi come faceva l’uomo con l’avvoltoio di kafkiana memoria del segnalibro gigante che, senza patire i segni del tempo, stava ancora davanti alla libreria antiquaria del “Gatto succ. Berruto”.
Da allora la mia attività di scrittore si è interrotta, i rapporti con il mio editore si sono guastati. Ogni volta che mi sono seduto al tavolo del mio studio per cominciare un lavoro nuovo, io sono stato sopraffatto dalla fortissima sensazione che Ignazio Biscari fosse davvero l’uomo che si riprendeva, con i suoi occhi, i pensieri che io avrei voluto esprimere e che strangolava con le sue scarne e ossute mani l’avvoltoio predatore ingrato quale io mi ero dimostrato nei suoi confronti.
Così io sono caduto in una miseria spirituale e materiale profonda, oscillando il mio vivere quotidiano nella condizione umana ora del fannullone, ora del vagabondo, ora del clocard, e senza più anima mi trascino sotto i portici della Cittadella Universitaria o faccio avanti e indietro all’interno e all’esterno della stazione ferroviaria, i miei abiti e il mio corpo sempre più divenendo simili ad un ammasso di letame in cui trovano nutrimento e dimora stanziali colonie di insetti parassiti, che giorno dopo giorno mi vanno riducendo a quattr’ossa rinsecchite dentro una lamina di ruvida pelle, non lontano preludio d’immondo carcame e di protocollo del nulla.

Antonio Cammarana

 

A. P.

alunno problematico
Conosco veramente A.P. nel mezzo della traversata dell’anno scolastico. Mentre diversi Capi d’Istituto delle Scuole Superiori illustrano, in classe, le discipline più impegnative, che gli Alunni affronteranno nel prosieguo degli studi.
E il mio cuore si fa improvvisamente triste.
Irrimediabilmente triste.
A.P. segue i contenuti proposti, ma io leggo nei sui occhi afflizione e sconforto, a causa della situazione in cui è caduto, e provo un senso di ribellione interiore contro una società rappresentata da una classe dirigente dalla zucca vuota.
Perché la condizione sociale di A.P. è diventata condizione umana di rassegnata disperazione.
Il padre di A.P. è un meccanico, che ha perduto il lavoro e che passa le giornate attaccato ad una bottiglia di vino.
La madre di A.P. è una casalinga, che fa le pulizie nelle case dove la pietà la chiama.
A.P. non fa più i compiti, non studia il programma svolto, libera i negozi e i supermercati da cartoni minutaglie ferrivecchi.
A.P. è diventato muto.
La Costituzione della sua Repubblica lo ha defraudato della parola, di se stesso, della famiglia, dei compagni di strada, di quelli della classe e della scuola.
A.P. nega la speranza. Ha già alle spalle l’attesa e lo svilimento, che conducono allo scacco.
A.P. è una testa piegata sul petto. Ha la forma che assumono le cose nell’oblio.
A.P. è un protocollo del nulla: in questo tempo, sotto questo cielo, con questa mia scrittura.
Perché A.P. è l’Alunno Povero, figlio della Famiglia Impoverita e fermo davanti all’abisso del niente.
Ma, Lui, A.P. è pulito.
Anche se calza un paio di scarpe di pezza smunta con strappi, sopra i calzini incolori con rattoppi. Anche se indossa una camicia e un Jeans d’imprecisata storia. Il lindore di A.P. è indubbio: lindore nel fisico, soprattutto lindore nello spirito.

Antonio Cammarana

Il portaordini

MotoE’ partito di notte per sentieri che lui solo conosce, ha superato fiumi sopra ponti di barche di legno di cemento, ha attraversato valli piccole e grandi, colline e montagne non hanno fermato lui, il portaordini.
E né la pioggia battente e il vento impetuoso, né la tormenta di neve e il gelo pungente, né il sole cocente e l’aria soffocante hanno avuto ragione di lui, il portaordini, che la sete e la fame ha vinto con una borraccia d’acqua e un pane raffermo, arrivando, infine, davanti alla tenda del comando supremo.
Lui, il portaordini, ha una benda all’occhio destro e una fasciatura all’avambraccio sinistro, che tiene al petto per mezzo di una striscia di tela che gli scende dal collo.
Lui, il portaordini, è provato nel fisico, ma è nelle migliori condizioni di spirito guerriero di sempre, perché veterano di cento battaglie e di tutti i fronti di guerra e ora ha il compito di portare l’ordine ultimo del comando supremo ai fanti delle Red Hills, le più lontane trincee.
Ma dalla tenda del comando supremo l’ordine ultimo non viene consegnato e lui, il portaordini, continua a stare sopra la ZKF 37 VIS, la vecchia motocicletta con la quale ha compiuto innumerevoli missioni nelle guerre tra popoli della stessa terra, finite per fare fronte comune contro i nemici del Mondo Oltre.
Così scende la notte e spunta l’alba, il sole sorge e si fa alto nel cielo, viene il crepuscolo, arriva la sera, è notte di nuovo.
Lui, il portaordini, è sempre sopra la vecchia ZKF 37 VIS.
Ora ricorda i camerati, che lo hanno preceduto nello sconfinato sentiero del nulla; ora pensa ai fanti delle Red Hills, che i continui attacchi delle Esistenze Ombra vanno respingendo nelle ridotte delle Lande Terminali; e che sognano di vedere spuntare lui, con l’ordine ultimo di sganciarsi dal nemico, per non diventare i fantasmi memoriali della prima guerra contro il Mondo Oltre.

Antonio Cammarana

Se calata è la notte. Il pendolo e l’animale pericoloso

Notte
Io non so precisare l’ora della notte in cui mi svegliai, restando fermo nell’oscurità, come una cosa qualsiasi posata in un luogo. Passò del tempo prima che muovessi il braccio sinistro e “con la mano” mi toccassi una gamba. Allora ricordai che ero andato a dormire, quando i miei piedi non riuscivano più a sopportare il freddo, che entrava dalla finestra aperta dello studio, perché uscisse il fumo delle sigarette.
Accanito fumatore come sono, e con un buon libro da leggere in mano, non avevo più tenuto il conto delle bionde, che facevo fuori: bionde francesi, bionde forti grasse pastose (Gauloises, Gitanes), che mi avevano preso la mano fin dal momento in cui, tra una boccata e l’altra, diversi colleghi di “Lotta continua” e di “Avanguardia operaia” mi avevano dichiarato irrecuperabile per l’ideologia marxista, dandomi la definizione di filosofo nero, filosofo solo. Mi girai lentamente nel letto, rivolsi lo sguardo al soffitto della stanza. Quanto mi parve grande! E quanto piccolo avvertii il mio corpo! Improvvisamente sentii un sibilo debole, ma continuo. Che cosa poteva essere? Non avevo ancora acceso la lampada nella stanza.
Ora feci luce e rimasi in ascolto. Il sibilo mi sembrò più debole di prima. Spensi la lampada. Sentii, di nuovo, il sibilo, come quando ero al buio. Mi feci coraggio, lasciai il letto. Nell’oscurità, urtai le ciabatte, spingendole in avanti, le cercai a tentoni.
Quando finalmente le trovai, le presi, le calzai, uscii lentamente dalla stanza, dove avevo dormito. Nel corridoio, tesi l’orecchio: il sibilo si fece più distinto. Mi avvicinai alla porta dello studio che vidi socchiusa, non ebbi più alcun dubbio: il sibilo veniva dall’interno. Pensai di tirare la porta.
Quand’ecco una paura improvvisa mi bloccò la mano. – “Se fosse il sibilo di un animale pericoloso?”. Mi ritrassi subito indietro, battendo le spalle contro la parete del corridoio. Dopo mi rannicchiai, facendomi piccolo piccolo. Ma, dopo aver superato il momento di smarrimento, ripensandoci, dissi tra me: – “La porta dello studio non posso tirarla soltanto, debbo chiuderla a chiave” – . Accesi, allora, la luce. Guardai il buco della serratura, ma non vidi la chiave. – “Sarà all’interno” – . Il pendolo, in quel momento, rintoccò una volta. Laggiù, nella strada, nessun rumore di macchine, di tram, di pullman. Né miagolii di gatti, né latrati di cani. Soltanto il vento.
Quel lamentoso dolente suono del vento, che portava via – dopo avermelo fatto, per un istante ancora, ascoltare – il canto triste del mendicante, che, sotto il lampione piantato vicino alla mia casa, aveva finito il primo sonno, dopo aver supplicato, nell’era della società opulenta, un centesimo di pane. – “Che strano!” – osservai – “Di giorno i rumori e le voci ci danno, spesso, fastidio; di notte, vicini o lontani, potrebbero essere, per noi, presenze amiche” – .
Il sibilo, intanto, continua. Oscuro, misterioso, incomprensibile, il sibilo continua, causandomi spossatezza psichica, pensieroso cupo abbattimento.- “Sarà certamente il sibilo di un animale pericoloso, fuggito dallo zoo comunale, che si trova vicino alla mia abitazione, e che, attraverso la finestra, è entrato nello studio e potrebbe assalirmi, mordermi” – .

Lascio la luce accesa, rimango immobile nel luogo in cui mi trovo, sforzandomi di sentire anche ciò che sfugge alla mia percezione immediata; ma il turbamento dei sensi mi provoca inquietudine, ansia; mi prende, di nuovo, la paura. – “La paura e il sibilo, la paura, il sibilo, l’essere soli: sarà forse, il preludio del terrore, del terrore panico?” – . Io faccio fatica a muovere le braccia le mani le gambe, mi sforzo di chiedere aiuto, ma la voce mi si strozza nella gola; mi sento, ad ogni istante che passa, simile a un uccello, stretto sempre più, dentro il pugno chiuso del cacciatore.
E, senza volerlo, comincio a fissare la porta dello studio con lo sguardo, ora debolmente, ora intensamente, con l’angoscia che genera l’ignoto , quando attraversa pesantemente la mente e provoca improvvisi brividi nel corpo. Il pendolo batte, ancora, un colpo, due. Perché non tre quattro cinque sei sette colpi? Inconsueti pensieri fanno mulinello nella mia testa. Ed io sono solo. Solo, nella notte. Solo, inchiodato a terra. Solo, sempre più probabile preda del terrore, del terrore panico.
Continuo a tenere gli occhi fissi sulla porta. E, a poco a poco, lo sgomento è tanto che comincia a prendere piede, nella mia mente, l’idea che sia il mio sguardo a tenere la porta dello studio ben accostata. Vorrei fumare una sigaretta, ma non posso farlo: le mie braccia non si muovono più. Vorrei allontanarmi dal luogo in cui mi trovo, ma le mie gambe non hanno la sensibilità necessaria.
Vorrei parlare, ma la mia voce non emette alcun suono. Mentre l’idea strana bizzarra grottesca, che si è fatta strada nella mia mente, alcuni minuti prima, ora diventa convinzione profonda: se io continuerò a fissare intensamente, con gli occhi, la porta dello studio, essa non si aprirà ed io, forse, potrò salvarmi. Ci troviamo nello stesso contesto io, la porta, l’animale pericoloso. Io non debbo distogliere lo sguardo dalla porta. Nemmeno per un istante. Sento, di nuovo, i rintocchi del pendolo: uno due tre colpi. Così pochi?
Ma, anche se il pendolo battesse otto nove dieci colpi, chi potrebbe recarmi aiuto?
Nel corridoio, ci siamo soltanto io e il pendolo; dietro la porta dello studio, c’è l’animale pericoloso. Io non posso più alzare le braccia, né muovere le gambe, né fare sentire la mia voce. Soltanto gli occhi mi possono aiutare. Io non debbo assolutamente distrarre la vista dalla porta: se lo facessi, essa si aprirebbe e l’animale pericoloso uscirebbe, assalendomi.

Antonio Cammarana