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Se calata è la notte. Il pendolo e l’animale pericoloso

Notte
Io non so precisare l’ora della notte in cui mi svegliai, restando fermo nell’oscurità, come una cosa qualsiasi posata in un luogo. Passò del tempo prima che muovessi il braccio sinistro e “con la mano” mi toccassi una gamba. Allora ricordai che ero andato a dormire, quando i miei piedi non riuscivano più a sopportare il freddo, che entrava dalla finestra aperta dello studio, perché uscisse il fumo delle sigarette.
Accanito fumatore come sono, e con un buon libro da leggere in mano, non avevo più tenuto il conto delle bionde, che facevo fuori: bionde francesi, bionde forti grasse pastose (Gauloises, Gitanes), che mi avevano preso la mano fin dal momento in cui, tra una boccata e l’altra, diversi colleghi di “Lotta continua” e di “Avanguardia operaia” mi avevano dichiarato irrecuperabile per l’ideologia marxista, dandomi la definizione di filosofo nero, filosofo solo. Mi girai lentamente nel letto, rivolsi lo sguardo al soffitto della stanza. Quanto mi parve grande! E quanto piccolo avvertii il mio corpo! Improvvisamente sentii un sibilo debole, ma continuo. Che cosa poteva essere? Non avevo ancora acceso la lampada nella stanza.
Ora feci luce e rimasi in ascolto. Il sibilo mi sembrò più debole di prima. Spensi la lampada. Sentii, di nuovo, il sibilo, come quando ero al buio. Mi feci coraggio, lasciai il letto. Nell’oscurità, urtai le ciabatte, spingendole in avanti, le cercai a tentoni.
Quando finalmente le trovai, le presi, le calzai, uscii lentamente dalla stanza, dove avevo dormito. Nel corridoio, tesi l’orecchio: il sibilo si fece più distinto. Mi avvicinai alla porta dello studio che vidi socchiusa, non ebbi più alcun dubbio: il sibilo veniva dall’interno. Pensai di tirare la porta.
Quand’ecco una paura improvvisa mi bloccò la mano. – “Se fosse il sibilo di un animale pericoloso?”. Mi ritrassi subito indietro, battendo le spalle contro la parete del corridoio. Dopo mi rannicchiai, facendomi piccolo piccolo. Ma, dopo aver superato il momento di smarrimento, ripensandoci, dissi tra me: – “La porta dello studio non posso tirarla soltanto, debbo chiuderla a chiave” – . Accesi, allora, la luce. Guardai il buco della serratura, ma non vidi la chiave. – “Sarà all’interno” – . Il pendolo, in quel momento, rintoccò una volta. Laggiù, nella strada, nessun rumore di macchine, di tram, di pullman. Né miagolii di gatti, né latrati di cani. Soltanto il vento.
Quel lamentoso dolente suono del vento, che portava via – dopo avermelo fatto, per un istante ancora, ascoltare – il canto triste del mendicante, che, sotto il lampione piantato vicino alla mia casa, aveva finito il primo sonno, dopo aver supplicato, nell’era della società opulenta, un centesimo di pane. – “Che strano!” – osservai – “Di giorno i rumori e le voci ci danno, spesso, fastidio; di notte, vicini o lontani, potrebbero essere, per noi, presenze amiche” – .
Il sibilo, intanto, continua. Oscuro, misterioso, incomprensibile, il sibilo continua, causandomi spossatezza psichica, pensieroso cupo abbattimento.- “Sarà certamente il sibilo di un animale pericoloso, fuggito dallo zoo comunale, che si trova vicino alla mia abitazione, e che, attraverso la finestra, è entrato nello studio e potrebbe assalirmi, mordermi” – .

Lascio la luce accesa, rimango immobile nel luogo in cui mi trovo, sforzandomi di sentire anche ciò che sfugge alla mia percezione immediata; ma il turbamento dei sensi mi provoca inquietudine, ansia; mi prende, di nuovo, la paura. – “La paura e il sibilo, la paura, il sibilo, l’essere soli: sarà forse, il preludio del terrore, del terrore panico?” – . Io faccio fatica a muovere le braccia le mani le gambe, mi sforzo di chiedere aiuto, ma la voce mi si strozza nella gola; mi sento, ad ogni istante che passa, simile a un uccello, stretto sempre più, dentro il pugno chiuso del cacciatore.
E, senza volerlo, comincio a fissare la porta dello studio con lo sguardo, ora debolmente, ora intensamente, con l’angoscia che genera l’ignoto , quando attraversa pesantemente la mente e provoca improvvisi brividi nel corpo. Il pendolo batte, ancora, un colpo, due. Perché non tre quattro cinque sei sette colpi? Inconsueti pensieri fanno mulinello nella mia testa. Ed io sono solo. Solo, nella notte. Solo, inchiodato a terra. Solo, sempre più probabile preda del terrore, del terrore panico.
Continuo a tenere gli occhi fissi sulla porta. E, a poco a poco, lo sgomento è tanto che comincia a prendere piede, nella mia mente, l’idea che sia il mio sguardo a tenere la porta dello studio ben accostata. Vorrei fumare una sigaretta, ma non posso farlo: le mie braccia non si muovono più. Vorrei allontanarmi dal luogo in cui mi trovo, ma le mie gambe non hanno la sensibilità necessaria.
Vorrei parlare, ma la mia voce non emette alcun suono. Mentre l’idea strana bizzarra grottesca, che si è fatta strada nella mia mente, alcuni minuti prima, ora diventa convinzione profonda: se io continuerò a fissare intensamente, con gli occhi, la porta dello studio, essa non si aprirà ed io, forse, potrò salvarmi. Ci troviamo nello stesso contesto io, la porta, l’animale pericoloso. Io non debbo distogliere lo sguardo dalla porta. Nemmeno per un istante. Sento, di nuovo, i rintocchi del pendolo: uno due tre colpi. Così pochi?
Ma, anche se il pendolo battesse otto nove dieci colpi, chi potrebbe recarmi aiuto?
Nel corridoio, ci siamo soltanto io e il pendolo; dietro la porta dello studio, c’è l’animale pericoloso. Io non posso più alzare le braccia, né muovere le gambe, né fare sentire la mia voce. Soltanto gli occhi mi possono aiutare. Io non debbo assolutamente distrarre la vista dalla porta: se lo facessi, essa si aprirebbe e l’animale pericoloso uscirebbe, assalendomi.

Antonio Cammarana

 

Professore, un libro!

Professore libro
Anche quest’anno quell’insegnante di lettere, che assomiglia più ad uno scrittore che ad un docente e che tutti, in questa scuola, chiamano il “professore”, starà seduto, per diverse ore della settimana, in questa stanza piena di armadi. – “Che cosa ci sta a fare?” – chiedete voi. Ho capito, vi ho incuriosito e volete saperlo.
La stanza è adibita a biblioteca e il professore distribuirà libri ai colleghi e agli alunni, che ne faranno richiesta, dal dieci ottobre al venti maggio. Chi sono io?
Mi domandate come faccio a sapere tutte queste cose di lui?
Non ho difficoltà a rispondervi. Io sono il pensiero creativo del professore, uscito dalla sua testa, che vive felice nello spazio del fantastico, che, di tanto in tanto, gli si avvicina, rivolgendogli quesiti sulla cultura e sulla produzione libraria nazionale e internazionale, che, un tempo, gli stavano molto a cuore. Non sempre riesco ad ottenere risposte alle mie domande, perché chiunque potrebbe entrare in biblioteca e si creerebbe una situazione imbarazzante. Proprio come quando un bidello, senza bussare alla porta, ci sorprese assieme, o meglio rimase meravigliato che il professore parlasse da solo.
E, mentre io sorridevo in disparte, per la scena che si era creata, il professore si giustificò dicendo che si lamentava con se stesso, perché doveva dare per smarrito il testo di Albert Beguin “L’anima romantica e il sogno”, che gli stava molto a cuore.
A questo punto, lettore, non credere che la vena di questo racconto sia quella dell’humour, tutt’altro; io ho voluto introdurlo in questo modo, ma avrei potuto presentarlo diversamente. Anche quest’anno il professore si occuperà della biblioteca. I suoi colleghi sostengono che lui considera la biblioteca una parte di se stesso e che non riesce a fare a meno della frase che gli alunni, ormai, da sempre ripetono, quando entrano: “Professore, un libro!”; e, immaginano la scena, che segue: il professore, che volge lentamente la testa in direzione del ragazzo e che risponde invariabilmente: “Un libro? Su quale argomento?” e che conclude, con un’unica emissione di voce: “Dovrebb’esserci!”, dopo che l’alunno, a volte in modo chiaro, spesso in modo confuso, gli ha fatto capire quale tema vuole approfondire.
Non tutti sanno, però, che, per dare un libro in prestito, il professore, in primo luogo, dovrebbe andare a prendere il testo dallo scaffale, ma si limita ad alzare una mano per indicare all’alunno la direzione in cui cercare; in secondo luogo, dovrebbe annotare, nel registro dei prestiti, i dati relativi al testo, la sua collocazione, il nome dell’alunno e della classe, ma lui fa eseguire questo lavoro al ragazzo stesso; poi, con un: “Vai pure!”, il professore dovrebbe invitare l’alunno, che vuol perdere tempo in biblioteca, a tornare subito in classe; ma lui esprime ciò con un semplice gesto del capo e, se l’alunno gli sembra proprio un tipo abituato a graffiare minuti, gli fa capire, con un altro gesto del capo, più significativo del primo, che può farlo fuori dalla biblioteca, mentre ritorna nella sua classe.
Il professore compie, ormai, queste operazioni in modo meccanico. E’ necessaria, forse, una grande fantasia creativa per indicare un libro di cui si conosce, da tanto tempo, l’argomento e la collocazione, e per farne registrare il prestito? Anni addietro l’incarico di bibliotecario venne conferito al professore per la sua preparazione culturale, le sue conoscenze bibliografiche, i consigli che poteva dare al momento di proporre nuovi testi per gli alunni e per i docenti.
Ma, ora, che la cultura è diventata visione e ascolto su internet; ora che nella scuola e nella società si stanno perdendo sia il piacere di leggere come attività abituale, sia la pratica dell’espressione scritta come condizione indispensabile alla manualità del pensiero, il professore che cosa ci sta a fare in biblioteca?In verità il professore non avrebbe voluto accettare l’incarico.
E soltanto io, che sono il suo pensiero creativo, ne conosco la ragione. Il professore, negli anni della guerra fredda, lesse, su “La stampa”, un articolo di fondo, che lo scosse parecchio. Il deterrente nucleare delle due superpotenze, U.S.A. e U.R.S.S., era talmente alto, che poteva distruggere il mondo almeno sette volte. Non solo, ma Stati Uniti e Unione Sovietica erano paragonati a due scorpioni, chiusi nella stessa bottiglia, di modo che, se uno attaccava per primo l’altro, quest’ultimo, prima di soccombere, aveva il tempo di colpire a morte l’avversario.
La pace, allora, diventava soltanto l’illusione di un secondo, che poteva essere calpestata un instante dopo; e la vita continuava, sulla terra, solo perché nessuna delle due superpotenze sarebbe sopravvissuta all’altra, dopo lo scatenamento della catastrofe.Questo articolo sortì l’effetto di trasformare un tipo dinamico, come il professore in un essere pigro.
Pigrizia mentale, come rinuncia alle operazioni creative del pensiero; pigrizia fisica, che lo indusse a rimanere seduto per ore con gli occhi socchiusi, in uno stato di apatia. Né il professore ha più aperto un libro, eppure leggeva molto.
Né ha più scritto un rigo e pareva avviato a imporre uno stile personale.
Né ha chiesto di insegnare all’Università, pur avendone i titoli: avrebbe dovuto presentare, tra l’altro, domanda di docenza, proprio quando veniva perdendo confidenza con carta e scrittura e la stanchezza metafisica, che si oppone al pensiero pensante, si impadroniva di lui. Per questi motivi io mi sono allontanato dalla sua testa: come pensiero produttivo, infatti, sono fantasia immaginazione creatività e non meccanica ripetizione.
D’altronde il professore non poté lasciare la biblioteca. Così quello che tutti, a scuola, chiamano “il professore”, per me, è soltanto un gesto della mano, che indica la collocazione di un libro richiesto; un’emanazione di voce, che ripete sempre “dovrebb’esserci!”, in risposta alla millesima domanda: “Professore, un libro!”.

Antonio Cammarana

 

La figura di Ipazia, la prima donna scienziato assassinata.

Ipazia

All’inizio del terzo millennio 190 Stati membri hanno chiesto all’UNESCO di “creare un progetto internazionale”, che favorisca “piani scientifici al femminile”, per realizzare “un migliore equilibrio nella partecipazione di entrambi i sessi alla scienza e al progresso”. Questo progetto internazionale è stato chiamato dall’UNESCO con il nome di IPAZIA. Ma chi era Ipazia?
Ipazia (370 – 415 d.C.) fu la prima donna scienziato barbaramente assassinata da una turba di monaci fanatici nel marzo del 415 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Per Ipazia, che da sempre rappresenta, secondo Margherita Hack, “il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza”, il prof. Antonio Cammarana ha scritto “Ipazia, fiaccola della conoscenza”.
Fonti antiche – sia di tradizione ellenica, sia di tradizione bizantina, sia di tradizione alessandrina, sia di tradizione cristiana – concordano nel dire che IPAZIA fu donna di rara bellezza, di grande saggezza, di eccezionale intelligenza; che fu astronoma, matematica, filosofa; che realizzò l’astrolabio, l’idroscopio, l’aerometro; che – come leggiamo nella voce biografica della SUDA (o SUIDA, lessico enciclopedico bizantino, secolo X) – fu autrice (anche se delle sue opere non è rimasto nulla) del Commento all’Aritmetica di Diofanto, del Commento alle Coniche di Apollonio di Perga, del Canone Astronomico; che dall’ideale classico dell’educazione acquisì autocontrollo, franchezza, imperturbabilità nell’eloquio, diventando una maestra del modo di vita ellenico (hellenike diagoge), mai in contraddizione violenta con il rispetto delle opinioni altrui, nel quadro di un equilibrato pluralismo, che risaliva alla tradizione dell’antica AGORA’ greca.

Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto nel 370 d.C. Dal padre, il matematico Teone, che curò il Commento all’Almagesto di Claudio Tolomeo e l’edizione degli Elementi di Euclide, fu iniziata agli studi di Matematica e di Filosofia; e, ben presto, più ricco di quello di Teone, si rivelò il di lei pensiero, sul piano filosofico e sul piano scientifico, tanto da diventare la degna erede della sua dottrina e della “Scuola Alessandrina, la più importante comunità scientifica della storia, dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo e tutti i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale” (Petta, 2009).

Ipazia teneva le sue lezioni in sedute pubbliche (DEMOSIA) e insedute private (IDIA). Sedute pubbliche erano quelle legate alla sua pubblica cattedra nella rinata Scuola del “Museo”; sedute private erano quelle che Ipazia teneva nella sua abitazione, situata a non molta distanza dal Centro cittadino, ad una ristretta cerchia di alunni, che facevano parte del suo circolo esoterico – “l’elite dei suoi discepoli” – figli dei rappresentanti sia della classe dominante, sia della classe governativa della città. Oltre ad impartire lezioni pubbliche e lezioni private, Ipazia portava l’insegnamento fuori della scuola, tra la gente, per le strade della città; e indossava il TRIBON (nell’antichità il mantello filosofico tout court); che, in età protobizantina e tardoantica, non era più il mantello di ruvida cappa grezza da portarsi sulla nuda pelle, già comune ai filosofi di varie scuole e agli Spartiati della società spartana, ma una veste ufficiale, protocollare, che ricadeva fino ai piedi (Ronchey 2010).

Una scelta di vita, quella di Ipazia, definita da Luciano Canfora, nella sua “Storia della letteratura greca” (2001), una scelta maschile, di un ruolo tradizionalmente maschile, che si configura come sfida dell’establishment cristiano e radicale rottura della tradizione. Non solo. Ipazia é una donna, che rifiuta di annullarsi ed anzi si mette a fare un mestiere degli uomini (predicare alla gente) pur essendo, appunto in quanto donna, lo strumento del peccato e di perdizione che tanta letteratura patristica ravvisa nel suo sesso. Inoltre Ipazia è accusata dagli ecclesiastici di influire negativamente sul prefetto imperiale Oreste, provocando diffidenza avversione inimicizia nei confronti del vescovo Cirillo.

Cirillo, diventato vescovo di Alessandria (412 d.C.), sa già che la partita per il potere si gioca tra la comunità cristiana, la comunità pagana e la comunità ebraica. Con il pretesto di vendicare un agguato notturno contro i cristiani da parte degli ebrei, il vescovo Cirillo usa i parabolani, monaci dei monti di Nitria (ad Alessandria sono la sua milizia privata) per aizzare il popolo cristiano all’assalto e al saccheggio delle case degli ebrei, i quali, spogliati dei loro beni, sono costretti a lasciare in massa la città. Alla dura protesta mandata a Costantinopoli dal prefetto augustale Oreste, il vescovo risponde con l’assalto al corteo del prefetto, che viene colpito alla testa dal monaco Ammonio, il quale, arrestato, morirà sotto tortura, ma di cui il vescovo tesserà l’elogio funebre, chiamandolo Taumasio, cioè il mirabile, offendendo apertamente il prefetto. Quando si rende conto che l’ala più moderata degli ecclesiastici si schiera dalla parte di Oreste, il vescovo chiede udienza al prefetto, portandogli in dono il libro dei Vangeli, ma Oreste non dà alcun segno di mettere da parte il suo risentimento. Così il contrasto tra il prefetto imperiale e il vescovo continua in modo più esacerbato di prima.

In questo clima di ostilità si colloca l’orribile fine di Ipazia, di cui il mondo tardoantico ci ha lasciato due fondamentali testimonianze: quella dello storico Damascio e quella dello storico Socrate scolastico. Secondo la prima il vescovo Cirillo, esasperato “alla vista dell’enorme folla, che si accalcava davanti alla porta di Ipazia per la SALUTATIO (visita di cortesia, omaggio), tramò la sua uccisione, crimine empio tra tutti i crimini (Canfora, 2001)”. La seconda testimonianza insiste sulla causa politica del crimine, fondata sul convincimento, da parte del clero di Alessandria e del vescovo Cirillo, dell’influenza di Ipazia sul prefetto imperiale d’Egitto, Oreste, e, di conseguenza, sulla persuasione del pericolo da lei rappresentato in una città inquieta e importante come Alessandria” (Canfora, 2001).

La spedizione per eliminare Ipazia è capeggiata da un certo Pietro, lettore della Chiesa di Alessandria. Pietro il lettore e una moltitudine di monaci parabolani aspettano il rientro di Ipazia da una delle sue pubbliche apparizioni; e, quando la donna ferma la sua carrozza davanti alla sua abitazione, la tirano giù in modo violento, la trascinano prima dentro la grande chiesa, chiamata Cesareo, illuminata da centinaia di lampadari a trilumi e dalle torce accese dai
monaci; poi davanti all’altare; quindi le strappano di dosso il mantello, le squarciano la tunica bianca e ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia non viene violentata. Secondo la terminologia pagana, Ipazia è sacrificata.
Secondo la terminologia cristiana, Ipazia è martirizzata.

Se Damascio chiama gli uccisori di Ipazia hoi sphageis, i macellai, gli immolatori, Socrate scolastico e Filostorgio usano il verbo diaspao, fare a brandelli, tecnico per indicare lo smembramento rituale della vittima (Ronchey 2010).

Nella sua “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88)”, lo storico Edward Gibbon afferma che “Ipazia fu disumanamente macellata dalle mani di Pietro il lettore, che le cavò gli occhi; e da quelle di una ciurma di selvaggi e di implacabili fanatici”, che servendosi di cocci taglienti di terracotta, prima le strapparono la pelle e la carne dalle ossa, poi la eviscerarono e la smembrarono, infine bruciarono ciò che rimaneva del suo corpo nel Cinerone della città di Alessandria.

La morte di Ipazia, nel V secolo dopo Cristo, non costituisce la fine di un’epoca, ma come avevano intuito sia Denis Diderot, sia Reneé Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia diventa una fiaccola della conoscenza, la cui luce illuminerà il cammino delle idee di altre donne, di altri uomini; fiaccola che arriverà all’Umanesimo con la centralità della “dignitas hominis” nel mondo; all’Illuminismo con la centralità della “ragione” come guida critica del pensiero e dell’azione dell’uomo; a tutte le altre correnti di opinione, che hanno fatto di Ipazia, come dice Margherita Hack, il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, un’icona della libertà di pensiero.

Antonio Cammarana

Ipazia, fiaccola della conoscenza
All’umanità: In ogni tempo, presso ogni luogo,
il male, anche se orribile, è preferibile subirlo, piuttosto che farlo.

A.C.